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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama
con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi,
attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano
Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di
ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera
(Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime
di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il
purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati
da Einaudi Stile Libero). |
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria,
si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata
alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice
emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre
Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato
a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus".
Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé,
conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo
libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio
Strega 2021. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Storia di Miryam
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Seduta sul muretto, le gambe raccolte fra le braccia, il capo chino, il mento appoggiato sulle ginocchia, ero sola con me stessa. Il cuore aveva finalmente placato il suo battito furioso, pompava regolare. Mi comunicava il cessato allarme. Fissavo l'orizzonte scuro e mi lasciai andare ai ricordi. Non c'era più agitazione in me. Abbassai le palpebre pesanti e i ricordi presero magicamente a fluire nella mia mente come acqua di ruscello. Le immagini scorrevano. Si inseguivano una dietro l'altra, si rincorrevano, le vedevo scomparire via rapide sui crinali collinosi dei miei pensieri, come un branco di cavalli selvatici al galoppo. Scivolavano via libere, venivano a me, senza bisogno che io le richiamassi, senza controllo. Io mi facevo prendere, le montavo, era piacevole. L'imponente cedro del Libano ai margini del frutteto di casa, ci volo dentro, poi intorno, sopra, lo vedo dall'alto ora, plano e mi accovaccio sotto la sua grande ombra scura. Che buon odore, l'odore aspro e secco del suo tronco, quello mieloso della sua resina. Ed ecco laggiù il Grande Ulivo, con un balzo galleggio nell'aria e sono lì. Mi arrampico, mi dondolo, piroetto, è il più bel gioco del mondo. Vedo le braccia ormai rugose e ricamate di vene bluastre di mamma, osservo i suoi gesti morbidi, l'andatura sinuosa, la parlata fluente. Mi tirava a sé schiacciandomi la testa sul suo ventre con le sue mani grandi e calde per consolarmi. Il suo profumo, quello della pelle attraverso i vestiti, un odore fresco di pulito. Vedo lei tutta intera da lontano. Le corro incontro, bella e dolce, urlo: Mamma! Corro, corro più veloce, sto arrivando, la sua figura si fa pian piano più grande, meno sfocata, più definita, vedo ogni dettaglio, ogni particolare di lei. È proprio lei. E mi getto sul suo corpo – - Che maschiaccio! - , penserà - ma non lo dice. Cadiamo, ci rotoliamo abbracciate nel prato sabbioso. Sento l'odore della terra misto a quello della sua pelle. Che bello, mamma, stare con te!..Mi bacia, mi abbraccia, mi bacia, mi bacia e mi abbraccia ... La calma mi penetra dentro l'anima, come un vento dolce e tiepido mi attraversa. Sul selciato del cortile di casa intravedo ora quattro zoccoli. Sopra, quattro gambe secche ricoperte di pelo ispido e scuro. Mi sono familiari. È l'asinello Monio. Eccolo qui davanti a me, con il suo muso stupido e allegro. Mi lecca e raglia - Ah ah! Monio, che ridere, mi fai il solletico!... - . Lui smette. Chi dice che gli asini sono stupidi?! Adoro Monio. È il mio tenero compagno di giochi, onesto e sincero, lo conosco da anni, lo amo come un fratello minore. È remissivo quel tanto che basta, complice dei mie piccoli peccati, ingenuo, affettuoso, ogni tanto un po' testardo ... Ma soprattutto è forte e resistente. Gli monto sopra. Raglia infastidito, ma acconsente. Si fa fare tutto da me. Gli sussurro - Corriamo! - nel suo grande orecchio peloso. E' morbido dentro, vellutato, e caldo. Lui corre, goffo corre.... Da lontano intercetto la cesta delle frittelle che mamma ha messo sul davanzale per farle sbollire! Mi avvicino inseguendo il filo dell'aroma squisito. Umh, la bocca mi si allaga di saliva, deglutisco. Sono davanti a me, a portata di braccio. Il profumo, dolcissimo, è ovunque intorno ora, penetra forte su per le narici, intenso, attraente. Una tentazione irresistibile. Me le pregusto, ora me le mangio tutte! Tutte, fino all'ultima. Le afferro a due mani, scottano. Raccolgo i lembi della sopraveste e ve le lascio cadere dentro. Il calore si diffonde sul mio ventre, mi ristora, fa freddo. E poi che profumino, che aspetto croccante e come sono leggere, come ciuffi di lana. Ne faccio saltellare una sul palmo della mano, si gira e si rigira, scrocchia, ci soffio sopra e intanto la rimiro da ogni lato. Il suo aroma delizioso volteggia sotto il mio naso. La bocca tracima di saliva. L'addento, piano, con tutto il sacro rispetto che le è dovuto, i doni della terra, il lavoro di mamma, il piacere che offre. Umh, che squisitezza! Che delizia la pastella croccante che si sfoglia sotto i denti, si sfalda in piccole foglie, per un attimo si attaccano al palato per poi sciogliersi subito dopo al primo contatto con la lingua. La crema di ricotta tracolla fuori dalle spaccature, fuoriesce, si spande, si ammanta su ogni papilla, il gusto dell'uovo sbattuto con lo zucchero, è il paradiso! E una dopo l'altra le ingollo tutte, mamma non può dirmi niente. Mi sento leggera come una piuma ... Volo fuori dalla finestra e nel giardino in fiore incontro la mia buona amica Ester. I suoi occhi cerulei, la sua pelle bianca latte, le corse insieme, trafelate, su per i campi, i suo sorrisi radiosi. Che bene che ti voglio amica mia, compagna di giochi e di avventure! Lei si ferma, mi guarda, mi trapassa con la punta tagliente del suo sguardo, mi afferra per un polso e mi trascina con sé, via, per una nuova corsa sui pendii dolci delle nostre colline. Le caprette scappano, non gridano belati impauriti, sanno che siamo innocue, solo alteriamo la loro placida calma e si allontanano da noi. Ci piace correre giù per i campi, la sera, in mezzo alle colline bruciate dal sole, vorticare nell'aria a fior di terra, l'aria è fresca, ci accarezza lieve, spazza via la polvere della giornata. Stiamo bene insieme, io e la mia amica Ester. Non glielo dico, ma l'abbraccio. Lei si volta, mi guarda, ora i suoi occhi sono morbidi e languidi, mi bacia e mi sussurra all'orecchio che mi vuole bene, lei me lo dice. Riprendiamo i salti e i balzi, un girotondo, la testa gira ... E c'è di nuovo mamma, sul retro che stende il bucato, c'è un buon profumo, candido, di sapone e l'aria fresca di umido tutt'attorno, è un attimo e sono lì con lei. Le gironzolo intorno, so che le do fastidio, la distraggo e confondo, ma tollera. La guardo, è bella, ha i tratti eleganti di una regina e i gesti calmi e pacati di una dea, lo sguardo volitivo ... Insieme a lei c'è donna Rachele, la vecchia della casa accanto che mi picchietta sempre in testa con le sue nocche legnose. Non lo sopporto, lo trovo un gesto invadente ed offensivo, profana la sacralità intoccabile del mio copro, tuttavia mi vuole bene anche lei, ha un bel sorriso, mi promette il futuro ... E c'è l'ora rossa del tramonto, i fantastici cieli infiammati, le capre al pascolo, l'odore delle foglie di menta, le gote imporporate, la salvia argentata nell'orto del vicino, il bacio sulla fronte da papà. Lascio correre le immagini e le cavalco.
Credo che mi addormentai perché di certo fu un risveglio quello provocato dallo scalpiccio concitato di un cane-pastore e del suo mugolio allarmato. Ansimante e sgocciolante di bava si aggirava concitato su e giù sul selciato esterno al Tempio a pochi metri da me. Su e giù, su e giù, avanti e indietro, poi a cerchio, alzava polvere e sbrodava nell'aria il suo puzzo di pecora e il suo alito fetente. Sembrava non si fosse ancora accorto di me. Io lo guardavo intontita. La bocca impastata di sonno, lo sguardo annacquato, i pensieri alterati. Sì, dovevo essermi di certo addormentata. Balzai su me stessa, feci scivolare giù la veste che si era arrotolata, dispettosa, fino sopra il ginocchio, mi avvoltolai stretta nel mio telo di cotone, e mi tirai il velo sul capo. Gesti di pudore automatico, come se al cane dovesse immediatamente seguire la comparsa di un uomo. Faceva anche molto freddo ormai, a notte inoltrata. Una notte profumata. Profumava di gelsomino. Tutto. Il telo, l'aria, i capelli, la mia pelle. Anche il ragazzo che comparve dal fondo del buio proprio di fronte a me. Camminava disteso, passi lunghi e capaci, spalle erette, collo dritto, braccia al ritmo di un pendolo, preceduto dal suo cane, che faceva ronda su e giù fra la sconosciuta e il suo padrone, come a preannunciare l'imminenza di uno scontro. Il ragazzo lo accarezzava ed ad ogni passaggio gli confermava la propria rassicurazione dandogli col palmo della mano un colpetto complice e ammiccante sulla nuca. Il cane si voltava a guardarlo con la lingua penzolante e si concedeva una rapida scodinzolata. E intanto il giovane avanzava ad ampie falcate verso di me, potevo vederlo meglio. Aveva un aspetto aperto e pulito, il mento alto, lo sguardo diretto, consapevole, di uno che sa di valere e perciò non porta vergogna. Indossava una tunica bianca color cammello e un kaftan decorato di blu, sul capo solo una manto di capelli neri e folti. Ma come scoprii in seguito non era né in lutto né malato . Forse solo un po' ribelle. Aveva un'aria superiore, quasi eterea. Allungò il passo e fu subito dinnanzi a me. Fiero. Stava in piedi solido come una colonna, pieno di dignità, petto in fuori, collo ritto, occhi intensi. Un braccio teso lungo il corpo, l'altro incrociato sul petto in segno di onore e onestà. Sembrava un re. - Shalom - , mi disse in modo gentile ed amichevole, inchinandosi appena, la voce rispettosa e deferente. Mentre gli occhi gli si facevano languidi. Pietrificata fissavo quelle due bilie di vetro colorate scintillanti, umide e misteriose. La luce vi guizzava come onde, c'era un mare dentro ad animarli! Dio mio chi è costui? Rimasi a bocca aperta, a lungo, incapace di proferire parola alcuna, neppure la semplice risposta al suo saluto, catturata dallo stupore. Il cuore scalpitava, correva con un trotto frenetico. Le mani viscide di umido, pur essendo fredde gelate. La bocca prosciugata in un'improvvisa arsura, la lingua secca incollata al palato, e il fiato corto, sottile, quasi un rantolo. Non era paura, no. Quel volto candido e la sua voce cristallina, determinata ma vibrante, mi comunicavano innocenza. Era emozione pura. - Shalom - .
(cap 8)
(...) Hannah venne da me quella sera per comunicarmi che loro, lei e Yehoyaqim, si sarebbero al più presto dovuti recare per qualche giorno nel Nord della Giudea, a Ramathaim. Un cugino di mio padre trasferitosi lì da anni stava per morire. Yehoyaqim era l'unico parente maschio rimasto. Era un'emergenza. Hannah e Yehoyaqim non si erano mai allontanati nello stesso momento da casa e dal nostro piccolo appezzamento di terra, neanche per una sola notte. Ora dovevano, rapidamente, in poche ore, prepararsi a farlo. Quella situazione, la combinazione della fatica del viaggio, dei tempi stretti, dell'onere di lasciare la casa e le terre,di organizzare tutti i lavori in loro assenza, li gettò nella più convulsa agitazione. Io poi non ero mai rimasta sola, il che aggravava i loro animi di dubbi e preoccupazioni. L'atmosfera in casa in quelle ore precedenti la partenza di Yehoyaqim ed Hannah era tirata e tesa come una corda d'arco in procinto di scoccare. Era inviluppata in una nube densa e spessa che rendeva difficile perfino respirare. Mia madre era molto preoccupata del viaggio e Yehoyaqim in preda alla frenesia di organizzare bene e in fretta il lavoro domestico e la partenza. Affidò al figlio di un vicino la cura dei campi, predispose attrezzi e strumenti, definì un elenco particolareggiato di cose da fare, stabilì cosa fosse assolutamente prioritario e cosa potesse essere rimandato al suo ritorno. Convocò l'amico e gli espose accuratamente tutte le istruzioni nel dettaglio. Lo assicurò più volte che sarebbe stato pagato. Dopo, si dedicò alla partenza vera e propria. C'era poco tempo. Prima di tutto la sella e le redini più solide per il mulo. Chiamò il maniscalco per controllargli gli zoccoli, si fece dare anche una valutazione sulle condizioni di salute dell'animale. Poteva farcela ad arrivare a Ramathaim caricando lui ed Hannah e il bagaglio sul dorso? Lo trovava sufficientemente in forze per affrontare quel lungo tragitto? Poi mise nel sacco coperte e vestiti, fece rifornimento di acqua e predispose del cibo, pane, carne secca, delle uova sode, del formaggio stagionato, un po' di verdura e frutta fresca, scelse quelle meno mature. Mise nella saccoccia il suo coltello più affilato e un pezzo di pelle di pecora. Hannah lo seguiva, lo assisteva e intanto gli sottoponeva le sue continue perplessità, prospettandogli tutte le catastrofi pensabili, nel caso qualcosa fosse accaduto, nel caso non fosse accaduto, nel caso fosse andato storto, nel caso fosse occorso qualche imprevisto. Per non parlare di tutte le preoccupazioni che mi riguardavano. Che i miei genitori non si fossero mai allontanati da casa anche per me, in effetti, era un novità. Ma lì per lì non mi resi conto di cosa avrebbe potuto significare disporre della loro assenza anche per una sola notte. Quando mia madre entrò nella stanza per informarmi del viaggio era febbrile. Quasi correva. Si dimenava su e giù come chi vada in cerca di aiuto mosso da un'emergenza. Si precipitò verso di me allarmata, ansimante mi prese per mano e mi fece sedere sul mio letto accanto a lei. Aveva gli occhi sgranati, tondi come quelli di un gufo e la fronte imperlata di goccioline finissime di sudore. Mi disse d'un fiato, affannosamente, che sarebbero dovuti partire per Ramathaim. Che fare visita ai malati e alle persone in lutto è un Mitzvoth, un obbligo morale imprescindibile. Che quella persona, il cugino di mio padre, non era solo un parente ma un caro amico, che non era solo un dovere ad indurli a soccorrerlo ma autentica affezione. Che purtroppo non avrebbero potuto portarmi con loro, era appena morto il nostro mulo più giovane, non ne rimaneva che uno solo. Che avevano provveduto affinché qualcuno si occupasse della casa e donna Ledah, una vicina di casa amica di famiglia, di me. Mi strinse forte. - Figlia mia! - , sospirò tremante d'ansia. - Su, mamma. Non partite mica per una guerra! Passerà in fretta e quando tornerai non ti sembrerà nemmeno di essere stata via - . Cercai di sdrammatizzare. Davvero ritenevo eccessive le sue preoccupazioni. - Sì. - spirò con un filo di voce, poco convinta, - Ma penso a te, bambina mia. Qui da sola. - - Ma madre, hai detto che ci sarà Donna Ledah che si occuperà di me, no? - Hannah piegò lo sguardo sulle sue mani. Se le strofinava freneticamente una nell'altra, temevo si spellasse. - Sì, ma mi ha assicurato che potrà soltanto fare un salto qui la sera, solo per accertarsi che tutto vada bene, e che la porta sia ben serrata per la notte. Ma non potrà trattenersi oltre. Deve tornare a casa dalla sua famiglia, la sua prima figlia è gravida all'ultima settimana, potrebbe partorire da un momento all'altro. Dovrai dormire da sola. - A quella parola, da sola, fui assalita da un'improvvisa paura. Io, sola, durante la notte?! Solo al Tempio mi era stato possibile. E fu proprio allora, alla luce di quel ricordo così intimo e carezzevole che fui attraversata da un brivido di euforia e di gioia. Si coagulò piano in me la diabolica intuizione. Sola. Il sangue correva veloce nelle mie vene come le acque impetuose negli uadi d'inverno. Sola, avrei potuto disporre di me stessa. Nella notte, senza gli occhi intrusi e indiscreti dei vicini, avrei potuto fare qualsiasi cosa. La comunità non avrebbe avuto prove con cui accusarmi. Nessuno l'avrebbe mai scoperto. I miei non l'avrebbero mai saputo. Ma cosa? Cosa intendevo fare? Come intendevo disporre di quel mio breve fulmineo spiraglio di libertà? Ma certo! Raggiungere Gavri'el e spiegargli finalmente tutto. Questa era la prima cosa! La sua gente era da poche settimane arrivata in Galilea. Ed ora stavano accampati alle porte di Nazareth. Ne avevo avuta notizia da donna Rachele, l'avevo sentita qualche giorno prima che ne parlava col rabbino alla sinagoga. Mi era allora balzato il cuore in gola. Gavri'el era non molto distante da me, raggiungibile. Raggiungibile ma inaccessibile. Almeno fino a quel momento. - Naturalmente non potrai neanche vedere Yosef il prossimo sabato, dal momento che io e tuo padre non ci saremo. - , aggiunse Hannah a postilla di un contratto che dava per scontato dovessi conoscere già molto bene. Annuii abbassando lo sguardo: - Non ti preoccupare, madre - . Deglutivo vergogna. - Non ti dispiacerà troppo? Siete molto legati ormai - . Un flebile luccichio di compiacimento le accese lo sguardo. - Avrò tutta la vita, no? - , replicai secca e non senza asprezza, spegnendole ogni entusiasmo.. Tutta la vita! Una coltre di gelo cadde su di noi. Il mondo aveva smesso di muoversi e i miei polmoni di respirare. Il volto di Hannah si pietrificò ed io compresi che la stessa immagine stava attraversando la sua mente come la mia: ma quale tutta la vita? Entrambe sapevamo che non sarebbe stato affatto per tutta la vita. Non per me almeno. Yosef aveva sessant'anni, quanto sarebbe potuto vivere ancora? Questa volta fu lei ad ingoiare la sua vergogna, e ad abbassare lo sguardo.
*
L'aria era densa e pesante. La chiamano tempesta del deserto. Il cielo è giallo, è opaco e non si riesce a vedere in profondità, come un velo denso e translucido che ammanta il paesaggio avvolge ogni cosa nel nulla. È gravido di sabbia turbinosa, non si respira se non con un telo di lino sulla bocca, una miriade di spilli in tumulto che pizzicano la pelle come migliaia di formiche rosse all'assalto, bisogna intabarrarsi in uno spesso tessuto dalla testa ai piedi per poterlo sopportare. Hannah e Yehoyaqim sarebbero dovuti partire il giorno dopo. Fu chiesto il parere di un vecchio contadino: ci sarebbero state schiarite per l'indomani, l'aria sarebbe tornata tersa, già qualche spiraglio di azzurro nel cielo impastato e l'alzarsi del vento da Nord-ovest lo presagivano, potevano stare tranquilli. Io non ero affatto tranquilla, invece. Ma non per il loro viaggio. Dentro di me si era già ben delineata quell'idea ribelle e pericolosa: il progetto di fuggire. Una fuga con ritorno, certo, solo per incontrare e spiegare tutto a Gavri'el, ma pur sempre una fuga. Solo la parola, solo a pensarla neanche a dirla, mi paralizzava. Il più deplorevole dei termini del mio lessico famigliare. E tuttavia dovevo, dovevo parlare a Gavri'el. Me ne ero andata senza dirgli una parola, senza metterlo al corrente di quanto fossi stata costretta a fare. Senza dirgli che lo amavo, che amavo lui solo. Che volevo solo lui. Lo avevo lasciato all'improvviso, nell'ignoranza, nell'oscurità e nel dubbio. E poi ora c'era qualcosa di nuovo, qualcosa in più. C'era la mia nuova animata consapevolezza. E la mia determinazione. Andrò pure contro la mia famiglia, contro tutta la mia gente se sarà necessario, ma seguirò Miryam, il suo amore vero e puro per Gavri'el. Quando Gavri'el saprà, ne sarà felicissimo, lo avrò dalla mia parte, sarà con me. E allora sarà tutto più facile, avrò la forza per affrontare ogni avversità, il giudizio impietoso della gente del villaggio, la rabbia e il dolore dei miei, la rassegnata prostrazione di Hannah, l'ostile disapprovazione di Yehoyaqim, la delusione di Yosef. Sarò in grado di sopportare l'indignazione negli occhi cupi e arcigni della gente e mostrerò col candore del mio genuino amore quanto sia immeritata. Sarò in grado di reagire al rifiuto perentorio della comunità, perché so di essere nel giusto, perseguendo i miei sentimenti, perché so che Gavri'el è buono e giusto, ché è stato Dio a mandarmelo. Sarò in grado di voltare le spalle a tutti, negare la mia gente, rinunciare alla mia famiglia, e seguire il mio autentico amore. Sì, insieme a lui sarò forte come un gigante e determinata come un rapace.
Hannah e Yehoyaqim erano partiti appena prima che facesse chiaro. Il cielo si stava effettivamente aprendo, come nelle previsioni del vecchio contadino consultato da mio padre. Squarci di azzurro chiaro e luminescente si facevano spazio nella coltre ocra delle nubi cariche di polvere. Quelle avevano ammantato di cupo la volta celeste con un manto striato color terra che ora si andava squartando come una coperta sfilacciata e logora dal troppo uso. In breve, con il vento che tirava da ovest secco e possente, si sarebbe rischiarato completamente, facendo foggia del suo blu più intenso. Non c'era da preoccuparsi, non avrebbero perso la strada carrabile. Mi svegliai grazie agli strilli aciduli delle oche nell'aia. Non avevo chiuso occhio tutta notte. Esausta, ero piombata nel sonno come una sasso solo alle prime ore dell'alba. Ora non ce la facevo nemmeno a sollevare le palpebre, pesanti come pellami di pecora freschi di concia. Ad occhi chiusi cercai di riordinare la serie di osservazioni che mi erano guizzate fuori durante la lunga veglia notturna. Ripercorsi nella mente gli atti delle ultime dodici ore. Dal momento dell'arrivo di Donna Ledah, al suo frettoloso saluto, l'aspettava la figlia partoriente. Dai passi pigri dei vicini sulla via del ritorno a casa, agli ultimi scalpiccii notturni dei più ritardatari. Solo dopo che la luna si sollevò alta nel cielo, nel buio nero della notte, solo allora non ci fu più alcun segno di vita in giro. Sarebbe stata quella l'ora in cui sarei potuta uscire. Mi alzai ancora intorpidita e tuttavia sollevata, avevo già individuato il momento opportuno per uscire. Donna Ledah, molto efficiente e sbrigativa, non sembrava intenzionata a trattenersi. Non sembravano esserci ostacoli. Sarei uscita dalla porta di legno sul retro (Yohayakim ne aveva finalmente appena oleato i perni, non correvo il rischio che cigolasse), avrei attraversato il giardino a passi rapidi e felpati. Nessuna finestra dei vicini si affaccia indiscreta sul quel lato della casa, nessuno avrebbe potuto notare la mia uscita da lì. Era solo un disegno nella mia mente, ma mi sembrava già un passo compiuto. La giornata trascorse lenta. Svolsi tutte le mansioni di casa in modo automatico, senza attenzione, la mia testa era già alla sera. Ripulii scrupolosamente la mia stanza e la cucina, spazzai e lavai con cura i pavimenti, feci il bucato e lo stesi ad asciugare. Pensai con euforia alla notte. Diedi le semenze alle galline, aprii il cancello dell'ovile delle nostre sei pecore per lasciarle pascolare entro il recinto, e intanto pensavo alla corsa che mi aspettava nell'oscurità sulle colline. Spazzai l'aia, riempii gli abbeveratoi e diedi l'acqua all'orto. Lo immaginai nel buio, sarei passata proprio da lì quella notte, lungo lo stretto viottolo che lo taglia in due, fra le file di patate a sinistra e le erbe aromatiche a destra. Nel frattempo era arrivato Noah' il figlio del vicino cui si era rivolto mio padre. Un ragazzo basso e tarchiato dall'espressione un po' imbecille, ma tutto sommato onesta. Indossava un kaftan troppo largo per lui e sdrucito intorno la collo. Prese i suoi attrezzi e si disperse nei campi per l'intera mattinata. Io pensavo con ansia alla notte ancora lontana. Il tempo sembrava essersi incredibilmente dilatato. Ogni minuto durava ore. Il sole non sembrava spostarsi minimamente dal punto fisso che occupava nel cielo, le ombre degli alberi, del muro di cinta, della casa cambiavano appena percettibilmente la loro posizione. Cercavo di trovare nelle variazioni del paesaggio una certezza, un segno dello scorrere del tempo che dentro di me si era invece congelato. Quando Noah' ebbe finito passò a riporre gli arnesi e a salutare. Considerai che mi separava solo il pomeriggio e la sera dal momento tanto atteso. Fu di poche parole e gliene fui grata. Come mi aveva indicato di fare mio padre, gli incartai sei uova e la torta di mele preparata da Hannah (dovetti rifare il cartoccio due volte perché nel primo per l'agitazione un uovo mi si ruppe fra le mani imbrattando l'incarto di melma giallognola) e gliele offrii in segno di cortese riconoscenza (insieme gli porsi il denaro promesso da mio padre per la giornata). Prese il fagotto mosso da un lieve frizzo di entusiasmo, forse gli piaceva la torta di mele. Per un breve attimo il suo sguardo guizzante di contentezza collimò con il mio e mi indusse ad un fugace sorriso. Sorriso di imbarazzo, assente e distratto, perché intanto pensavo al tragitto che avrei percorso durante la notte. Non avevo tempo di pensare a Noah'. Avrebbe fatto certamente fresco e avrei dovuto correre per poter andare e tornare indietro in tempo per l'alba, prima che Nazareth venisse abitata di nuovo da occhi indiscreti. Noah', a dispetto della sua espressione imbecille, capì al volo che mi avrebbe fatto più contenta andandosene subito senza ulteriori convenevoli e mi salutò sbrigativo con un riservato inchino del capo. Pronunciai un docile - Shalom - e lo congedai gentile, senza ulteriori inutili sorrisi. Ma di questo me ne accorsi solo dopo. In quel momento stavo pensando a cosa avrei fatto una volta raggiunto l'accampamento. Come avrei individuato la tenda di Gavri'el? Come avrei giustificato la mia presenza di giovane donna, certo vergine! - ché queste cose si colgono nell'aria-, lì nel cuore della notte ? Feci le ultime cose necessarie, incluso preparare tutto ciò che mi sarebbe servito durante la mia fuga: i sandali, il velo, la fascia, la mantella di lana, la borraccia con l'acqua. Poi, anziché studiare le Scritture e lavorare al cucito, miei usuali compiti pomeridiani, decisi di dormire un po' per recuperare le forze della notte precedente, persa dietro ai pensieri, ed essere in forma per l'impresa notturna che mi attendeva. E poi, dormendo, il tempo sarebbe certo trascorso più in fretta e la notte sarebbe sopraggiunta molto prima. L'attesa si era fatta ormai insopportabile. Ero tutta un fermento.
Mi svegliai che era appena il tramonto. Senza alzarmi, speranzosa di riprendere sonno al più presto dopo l'inutile risveglio, sbirciai con un solo occhio fuori dalla finestra aperta. Un cielo puniceo riempì la mia vista e annegò la mia anima di fiducia: - Rosso di sera bel tempo si spera! - . Così diceva sempre Hannah con gli occhi brillanti di incanto dinnanzi ai tramonti purpurei che coronavano di rossa regalità il profilo del nostro frutteto. Mi riaddormentai in una più morbida trepidazione. La speranza.
La sospirata notte infine, finalmente, fu lì. Di fronte a me, oltre quella porta. Mi tremavano le ginocchia. La luna era alta e fulgida nel cielo, un silenzio tombale si perdeva in lontananza. Non c'era anima viva. Nessuno oltre quella porta. La inforcai decisa, la richiusi piano, respirando lentamente, muta. Raccolsi l'energia di cui disponevo da ogni angolo del mio corpo, mi voltai, attraversai rapida il viottolo del giardino, l'orto che avevo innaffiato non molte ore prima quando ero ancora innocente, espirai tutta l'aria che avevo compresso nei polmoni e mi misi a correre. Corsi, corsi, corsi più veloce che potevo, in direzione dell'accampamento. La mia salvezza. |
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