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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Elsa Zambonini Durul
Titolo: Istanbul - il viaggio sospeso
Genere Thriller
Lettori 3997 55 76
Istanbul - il viaggio sospeso
Alzo le palpebre irritata. Ieri sera non ho abbassato bene le persiane e una sottile lama di luce mi batte sul viso. Consulto la sveglia: non sono ancora le sette. Mi giro verso Emre, e per un po' contemplo sorridendo il suo viso addormentato e indifeso. Faccio una veloce disamina del programma di oggi e comincio a riconciliarmi con la giornata pensando che Giulia ha invitato me e Melisa nella sua casa estiva nel quartiere di Yeşilköy. Per mia cognata è una sorta di rimpatrio, visto che abitava non lontano dal posto dove andremo. Mi passerà a prendere più tardi e andremo con la sua auto.
Trascorre sempre l'estate lì, Giulia, la cara vicina a cui, anche se sono più giovane di lei, mi sono affezionata molto e, benché nella brutta stagione non ci vediamo poi tutti i giorni, sapere che al piano di sotto lei non c'è mi fa sentire più sola. Da quando Emre si è trasferito da me, per forza di cose la frequento meno di quanto non facessi appena arrivata a Istanbul, quando lei era stata un importante e affettuoso punto di riferimento nel passaggio dalla realtà italiana a quella turca.
Parcheggiamo sul lungomare e Melisa, la mia quasi cognata, dato il rapporto more uxorio che intrattengo con il fratello, e quasi coetanea, data la differenza di un solo anno tra noi, nonostante venga qui per la prima volta come me individua subito la casa e me la indica. Mentre mi cammina davanti diretta all'abitazione, la guardo con affetto e preoccupazione: ha un portamento reso un po' incerto dalla recente malattia, mentre un tempo era sicura e intraprendente.
L'edificio è a quattro piani, ricoperto di legno scuro nella parte superiore, con il tetto spiovente. Il piano terreno è seminascosto dal verde e al primo piano si scorge un'ampia terrazza. Giulia ci accoglie al cancello baciandoci entrambe con la solita cordialità. Conosce Melisa più che altro dai miei racconti, ma è al corrente della sua storia e ha esteso anche a lei il suo invito perché sa che ha ancora qualche problema e vuole essere gentile con lei. Dopo la convalescenza dalla leucemia, infatti, ma soprattutto dopo la tragica morte della madre, ha passato un periodo

molto difficile che forse non ha ancora superato.
Giulia è elegante come sempre, nonostante il caldo. Non è eccessivamente abbronzata malgrado la vicinanza al mare, mantiene i suoi caratteri di pelle, capelli e occhi chiari, e indossa una camicia di lino color salmone su dei pantaloni in tinta degradante. Nonostante la differenza d'età ho sempre avuto una gran confidenza con lei, che comunque fa dimenticare in fretta le distanze anagrafiche perché ha un piglio giovanile e sa mettere l'interlocutore a proprio agio.
Mentre ci fa strada mi dice:
- Ho una sorpresa per te - .
Saliamo alcuni gradini, costeggiamo la casa e arriviamo a un delizioso, ampio salotto all'aperto coperto da una pergola di vite. Il mare è appena al di là del parcheggio e della strada pedonale, dove al momento sta passando qualche sportivo, anche troppo appassionato per correre con questo caldo. Da una delle poltroncine si alza Katia, mi viene incontro di corsa e mi stringe in un abbraccio così forte, che per un attimo mi manca il fiato. Sono cosciente del fatto che l'affetto impetuoso che mi dimostra va diviso equamente col ricordo di mia madre che lei tanto amava, e che rivede in me. Più composto è il benvenuto che riserva alla mia compagna.
Non la vedevo da tanto tempo e l'incontro mi emoziona molto. Era stata lei a suo tempo a spazzare via quasi trent'anni di bugie e ad aprirmi gli occhi sulle vere cause della morte di mia madre. L'avevo addirittura odiata per questo, anche se la sua buona fede non era mai stata in discussione. È anche l'unico essere vivente che conosco (l'altro è mio padre col quale continua a essere difficile affrontare l'argomento) ad avere avuto rapporti molto stretti con la mamma, e in definitiva le voglio molto bene perché molto ne ha voluto a lei. Ha sempre i capelli corti e di un castano un po' troppo scuro, come la ricordavo. Anche il vestito a grandi rose, il rossetto e lo smalto sul fucsia sono un po' troppo vivaci per la sua età, certamente ben oltre i cinquanta.
- Quando sei arrivata? Ti credevo sempre in Svizzera! - le chiedo appena ci siamo accomodate.
- Avevo qualche problema con le tasse, dovevo dare un'occhiata alla casa... Se proprio devo dirla tutta, avrei potuto benissimo sistemare le cose dalla Svizzera. Intendiamoci, io lì ci sto benissimo: mia figlia abita vicino a me, ho una bella casetta sul lago, verde, pulizia e ordine, ma se non vengo a bagnarmi i piedi nel Marmara ogni tanto, sto male. Mi viene l'allergia, mi manca il fiato, mi viene la depressione... - Siccome è evidente che si sforza di pensare ad altre calamità da astinenza da Turchia, la fermo assicurandola che abbiamo afferrato il concetto.
- Anche tua madre mi diceva sempre che sono esagerata. Lei era così sobria, così equilibrata quando eravamo amiche e abitavamo vicine. Le nostre case non sono poi molto distanti da qui. Finché... finché non si è sposata con tuo padre - .
Giulia interviene precipitosamente:
- Che Lisa ama moltissimo - .
- Certo... certo ma, insomma, ognuno è fatto a modo suo, e lei mi voleva bene così com'ero e sono - . La frase è una captatio benevolentiae che io colgo al volo:
- E ti amo moltissimo anch'io - .
Nel frattempo ci siamo sedute a un tavolinetto e mi guardo attorno con calma. Siamo circondate da enormi fiori e foglie di acanto verde scuro che crescono lungo il muro. La ringhiera si affaccia su un cortiletto sottostante, poi il parcheggio, una stradina, i frangiflutti e infine il mare.
Qui tira un venticello piacevole e mi viene voglia di accomodarmi, di adagiarmi, di allungare i piedi sul tavolo quasi fossi a casa mia. Ma a casa mia non sono, e quindi mantengo un atteggiamento decoroso, anche se rilassato. Intanto Giulia cerca di intrattenere la mia compagna.
- Cara Melisa, sono così felice di vederti finalmente guarita. Non ci conosciamo molto, ma ho seguito la tua malattia passo passo attraverso i resoconti di Lisa. Ti vuole molto bene ed era sconvolta quando eri in pericolo di vita. E purtroppo hai avuto anche la tragedia della tua mamma per cui ti faccio le mie condoglianze - .
Melisa ringrazia con calore, ma vedo che si sta sforzando: c'è qualcosa che non va. È poco più giovane di me, castana come me, carina senza essere bellissima, indossa un vestito al ginocchio di lino chiaro scampanato che le dà un'aria da ragazzina, ma i suoi grandi occhi sono velati. La cosa mi meraviglia perché per tutto il tragitto abbiamo chiacchierato piacevolmente e stava benissimo. È ufficialmente guarita, i controlli confermano che non c'è più patologia, ma io sono terrorizzata ricordando la sua grave malattia, e ogni minimo segno di malessere mi mette in apprensione. Katia ha una conoscenza più superficiale della situazione, ma si aggiunge con trasporto sia alle congratulazioni che alle condoglianze.
- Cara Giulia, come te la passi qui? A Sant'Antonio ci manchi! - dico rivolta alla padrona di casa.
- Un po' mi riposo, un po' mi annoio, faccio qualche passeggiata sul lungomare e leggo molto per passare il tempo. E poi ci sono questi lavori che stiamo facendo al piano di sotto. Dopo il terremoto abbiamo rimandato di anno in anno, ma ora finalmente ci siamo decisi a rinforzare le fondamenta perché purtroppo, come sapete, un altro può arrivare all'improvviso. Oggi ho pregato gli operai di non venire perché aspettavo voi e per un giorno volevo salvarmi dai rumori e dalla polvere - . La conversazione procede serenamente mentre sorbiamo un aperitivo. Katia ci racconta con orgoglio della figlia che ha sposato un ricco uomo d'affari di origine italiana. Ci accenna anche ad implicazioni ebraiche nelle origini del genero che non capiamo bene, ma nessuno ha voglia di approfondire l'argomento.
- Se non sbaglio, Lisa, anche tuo padre aveva ascendenti ebrei. È forse questa la ragione per cui è fuggito in Turchia? - chiede Giulia.
- No, lui è nato alla fine della guerra ed è arrivato qui negli anni sessanta, e solo perché aveva ereditato la quota di una fabbrica da suo zio. Comunque sì, sua madre era di una nota famiglia ebrea, i Morpurgo, ma è morta prima che nascessi, mentre mio nonno era cattolico - . Giulia ci salva dalla noia degli alberi genealogici riferendoci qualcosa delle sue amiche rimaste in città a cui telefona spesso. Io gradisco il cambio di argomento e parlo del mio compagno Emre e della mia prossima partenza per l'Italia. Melisa, però, non sembra incline a chiacchierare.
È cambiata dopo la leucemia che l'aveva colpita. La crisi seguita al trapianto, e soprattutto la morte violenta di sua madre, che aveva ammirato moltissimo tanto da seguirne in qualche modo la carriera - psicanalista clinica la madre, psicologa la figlia - hanno lasciato il segno. Mi dispiace vedere depressa proprio lei che ho sempre ammirato per le sue risorse interiori e per il suo coraggio, anche nei momenti peggiori. La tengo d'occhio senza darlo a vedere e noto che ha uno sguardo strano, o meglio, allucinato.
Katia è in bagno e Giulia è andata a controllare la preparazione del pranzo.
- Melisa che hai? - chiedo preoccupata e dispiaciuta. Vorrei che Melisa rispondesse con un minimo di partecipazione alla gentilezza di Giulia e invece la vedo stranamente distaccata e quasi estranea.
- Niente, niente... - cerca di minimizzare lei, tornando in sé come testimonia il suo sguardo ridiventato normale. Ma una lacrima, che spunta fugace all'angolo dell'occhio, mi informa che qualcosa c'è, eccome.
- Melisa, parla liberamente, Giulia e Katia sono buone amiche, non devi preoccuparti per loro! -
Come se si fosse aperta una cateratta, le lacrime cominciano a scendere copiose e irrefrenabili.
- È ancora quello! - esclama sconsolata incapace di opporsi a ciò che le sta succedendo.
- Oh Dio no! Melisa, vuoi dirmi che stai vedendo qualcosa proprio ora? -
Il suo silenzio sconsolato conferma, purtroppo, il mio sospetto. Durante la malattia, che l'ha spinta fino al coma, la sua sensibilità ha ricevuto uno scossone sconvolgente, e, quando alla fine ne è uscita, ha cominciato a essere disturbata da sogni premonitori e, a volte, da confuse visioni, anche a occhi aperti.
Una volta mi ha telefonato alle sei di mattina dicendomi di correre a controllare il fornello in cucina senza, per l'amor di Dio, accendere la luce. Ci ero andata per non dilungarmi a discutere e tornare in fretta a dormire, e aprendo la porta ero stata assalita da un forte odore di gas che si era rivelato provenire da una falla nel tubo. In un'altra occasione, in cui eravamo andate insieme in un ufficio comunale per richiedere qualche documento, aveva mostrato grossi problemi nell'entrare in una stanza che, diceva, era piena di sangue. Un usciere chiacchierone ci disse poi che qualche anno prima era stata teatro di un delitto. Un pazzo aveva accoltellato l'impiegato che gli poneva delle difficoltà esagerate nel rilascio di un documento. Quella volta pensai che di un episodio del genere Melisa fosse stata al corrente, magari ne avesse letto sul giornale scordandolo in seguito. Al momento fui inorridita dal crimine ma, quando uscii dall'ufficio mezz'ora più tardi dopo aver discusso con un impiegato idiota che, in nome di regolamenti assurdi, aveva disconosciuto i miei diritti più elementari, ebbi un fremito di comprensione per l'assassino.
Anche in un'altra occasione questo dono si era dimostrato utile perché Melisa mi aveva fatto ritrovare un borsellino perduto descrivendomi un negozio dove ero stata da sola e di cui mi ero totalmente scordata, e lì poi lo recuperai.
- Bene, dimmi, cosa vedi? Perché continui a fissarmi come se vedessi un fantasma? - le chiedo con tono più irritato di quanto vorrei.
Trovo già complicato gestire sentimenti e sensazioni consueti, figurarsi quanto sono allergica a contesti così innaturali, a essere in balia di forze così sconosciute. Nemmeno Melisa è entusiasta di questa situazione e restituirebbe immediatamente questi doni al mittente, se solo sapesse che indirizzo mettere sulla busta.
- Mi sembri un uomo un po' grasso... col cappello... vestito di nero, hai qualcosa di familiare - , risponde con aria sconsolata.
Mi alzo stizzita. Non ho nessuna inclinazione a fare la Whoopi Goldberg della situazione e mettere a disposizione il mio corpo per dare ospitalità a un inedito Sam vestito di nero e col cappello.
- Cosa avrebbe fatto quest'uomo? - chiedo sedendomi sulla sedia accanto.
- Non lo so, io semplicemente lo vedo, ma... sotto... quando ho guardato nel cortile di sotto ho sentito che lì è successo qualcosa... tu... no... l'uomo vestito di nero c'entra solo in parte - .
Tiro un sospiro rassegnata: come faccio a parlare alle altre due brave donne di una idiozia del genere? Dividere con me la confidenza su quanto le sta succedendo ha fatto bene a Melisa, che finalmente incomincia a ricomporsi. Quando le nostre amiche tornano dalle loro rispettive destinazioni il suo viso ha perso l'aria allucinata che lo sconvolgeva, ha ripreso un po' di colore, e vi aleggia addirittura l'ombra di un sorriso.
- Mi fa piacere vederti sorridere Melisa, so che per te è un periodo difficile. La perdita di una madre è terribile sempre, nel tuo caso, poi, è anche peggio. Ti sei trasferita a Levent, ma prima so che vivevi qui vicino ed eravamo komşu, almeno d'estate - esordisce Giulia arrivando sorridente. I levantini introducono spesso termini in greco, turco o francese quando parlano in italiano: in Italia un vicino di casa può essere un perfetto estraneo, in Turchia un komşu è quasi un parente.
- In effetti, sono tornata alla casa che abitavo da ragazza e amo molto Levent. Nel periodo in cui sono stata qui, però, ho fatto in tempo ad affezionarmi anche a Yeşilköy e ora mi manca, specialmente d'estate, perché qui c'è il mare. Questa casa è molto piacevole. Stamattina in città si boccheggiava eppure qui si sta benissimo, tira perfino un po' d'aria fresca. Tanti ospiti avranno gradito la tua ospitalità e saranno venuti a trovarti qui - .
Ammiro l'abilità con cui Melisa sta tirando Giulia nel suo terreno.
- Adesso non c'è un grande andirivieni; più che altro vengono i nostri figli e nipoti, ma quando ero piccola avevamo anche personaggi importanti che venivano a trovare mio padre - .
- È molto tempo che possedete questa casa? - riprende Melisa.
- Sì e abbiamo motivo di ritenere che anticamente fosse un convento.
Abbiamo trovato... -
- Dicevi degli ospiti - , la richiama un po' troppo bruscamente mia cognata.
- Oh sì! - esclama Giulia che ama molto parlare della sua casa, - qui sono venute persone anche piuttosto conosciute, ma il mio preferito resta Roncalli, che poi sarebbe divenuto Papa Giovanni XXIII. Sedeva abitualmente proprio lì, dove adesso si trova Lisa... ah no, ti sei spostata. Dov'era seduta prima: quello era il suo angolo preferito. Gli piaceva sedersi lì a guardare il ma... -
- Ma non portava... le gonne? - incalza Melisa, che ha fretta di sapere e non perde tempo a cercare nel suo vocabolario mentale termini sofisticati tipo - tonaca - .
- Certo che no! - risponde Giulia sorridendo, - era vietato circolare con divise religiose, e, a quanto ne so, lo è ancora. Indossava normalissimi abiti da uomo di colore nero. È stato delegato apostolico qui dal '35 al '44 e poi è stato un grande Papa. Aveva una figura molto bonaria e paterna... -
- Lo so, lo so - , esclama Melisa pensierosa.
- Ah! Conosci il nostro papa? - chiede Giulia con un largo sorriso contenta che Melisa, seppure musulmana, mostri conoscenza dell'augusta personalità cattolica, nel frattempo arrivata addirittura alla gloria degli altari.
- Naturalmente, lo incontro ogni volta che vado a trovare Lisa davanti alla chiesa di S. Antonio! - ribatte mia cognata.
- Ah, è vero! Avevo dimenticato la statua, d'altronde era molto amato anche qui, ma ora è passato tanto tempo. Tutti lo adoravamo. Aveva una figura caratteristica che mi pare ancora di vedere in controluce. Io ero piccola e mio fratello lo ricorda meglio di me, ma anch'io ho alcuni flash della sua figura. Indossava il cappello anche quando sedeva qui con noi - .
Mi muovo un po' imbarazzata sulla poltroncina di vimini che geme sotto di me.
- Prego, accomodiamoci! - ci invita Giulia, - credo sia pronto - .
Ci spostiamo al tavolo apparecchiato lì vicino, dove due cameriere ci servono un pasto impeccabile. Melisa ha recuperato la sua compostezza e conversa amabilmente con le due donne conquistando la loro simpatia. La mia partecipazione è invece più stentata perché non riesco a non pensare a quanto lei mi ha detto e ai riscontri che ha sembrato trovare nelle risposte di Giulia. Anche se mi irrita tutto quello che ha a che fare con le sue visioni, la curiosità ha il sopravvento in me.
- Prima Melisa ti ha interrotto - , intervengo rivolta a Giulia, - ma stavi raccontando delle cose interessanti sulla storia di questa casa, parlavi di un convento? -
- Sì, abbiamo trovato una croce in pietra insabbiata proprio davanti al nostro moletto - .
- Ma al piano di sotto che c'è? - insisto.
- Attualmente un disastro pieno di pietre, calcinacci e cemento. Da due giorni non scendo giù, ma mio fratello, che si occupa dei lavori più di me, dice che hanno cominciato a demolire una parete che dà sul retro in modo da consolidare meglio le colonne portanti - .
- Tu credi che potremmo vedere lo scantinato? - provo a chiedere.
- Lisa, cara, c'è ben poco da vedere oltre ai calcinacci - , ribatte Giulia.
- Non dimenticare che Melisa e io siamo rispettivamente sorella e quasi moglie di un architetto e i calcinacci sono per noi pane quotidiano! - incalzo io, che non so trovare una scusa decente per fare una capatina al piano di sotto.
Giulia, che si è fatta improvvisamente seria, cerca di nascondere il suo stupore alla mia insistenza e poi, con un sorriso, riprende:
- Se ti piacciono te ne offrirò a sazietà più tardi - , risponde, - ma per ora prendiamo il gelato, che almeno è più morbido! -
Melisa non ha detto nulla ma, guardandola, noto che è tesa e mi chiedo se in lei è più forte la curiosità di saperne di più o il timore di un'esperienza spiacevole.
Cerco di rilassarmi tornando a un po' di pettegolezzo, che ascolto quasi sempre con piacere, in attesa di immergermi nel mistero che l'atteggiamento di Melisa mi ha annunciato al piano inferiore. Finalmente arriva il momento di scendere e Giulia non sa reprimere un leggero sospiro prima di alzarsi dalla poltroncina. Katia ci dà la sua benedizione aggiungendo che, se vuole vedere delle rovine, le basta guardarsi allo specchio. Melisa ha un'espressione sempre più tesa e ci segue come un automa.
Scese le scale, arriviamo in una stanza abbastanza grande il cui soffitto è sostenuto verso le finestre da due grosse colonne congiunte ad arco. Al centro c'è un imponente cumulo di calcinacci. Sulla parete di destra campeggia un grande camino a mattoni, e parte delle pareti sono coperte di piastrelle blu di Kütahya. Una porta si apre sul cortiletto che avevamo visto da sopra, e Giulia ci spiega che un tempo il mare arrivava a lambire la casa e ci mostra una scaletta con un predellino di cemento. Lì attraccava la barca che nei mesi invernali veniva poi portata all'interno dello scantinato, esattamente là dove adesso si trova il mucchio di pietre. Io seguo Giulia da vicino e cerco di ascoltare con attenzione le sue spiegazioni lasciando così libera Melisa. Non oso guardarla in faccia ma, non sentendola più muoversi, mi giro a cercarla. È china e appoggiata al muro con una mano, mentre ha portato l'altra al viso.
Le corro vicino impensierita e le metto un braccio intorno alle spalle. Ha la fronte imperlata di sudore e il respiro affrettato.
- Oggi fa molto caldo! - dico rivolta a Giulia che sopraggiunge preoccupata.
Dopo aver chiamato invano la cameriera che non ci sente dal piano superiore, mi precipito su a prendere un bicchier d'acqua, affidando Melisa a Giulia. Ne adopero un po' per farla bere e un po' per bagnarle il viso. Nel frattempo, do un'occhiata in giro. Mia cognata è appoggiata alla parete esattamente là dove i picconi hanno aperto un grande squarcio. Guardo al di là e qualcosa di giallo fra la polvere mi colpisce.
- Vieni, Melisa, andiamo su, qua è caldo e manca l'aria. Ti sentirai subito meglio - , dico mentre appoggio il cellulare su una mensoletta grigia di polvere.
- Sì, andiamo - , dice lei cercando di ricomporsi, e sale le scale incerta, ma rifiutando il nostro aiuto.
Sopra si riprende immediatamente e, dopo essersi seduta, riguadagna colore e presenza di spirito. Dopo un po', quando mi sono assicurata che il malore è passato, le chiedo:
- Melisa, ho dato a te il mio cellulare? - Incomincio tutta una pantomima in cui arrivo addirittura a far suonare il cellulare al piano di sotto, rifiutando l'aiuto della cameriera che Giulia vorrebbe mandar giù a prenderlo.
Ritorno nello scantinato, questa volta sola e libera. Mi precipito su quello squarcio vicino al quale si era appoggiata Melisa e, messa la mano all'interno non senza qualche difficoltà, recupero un pezzo di stoffa gialla. È di cotone di grana grossa e bordata di cuoio. Sembra la ribalta di una borsa da donna. Su quella che appare essere la parte interna è stampato chiaramente un nome: Lisa Morpurgo. 
CAPITOLO 2
Salgo incerta le scale chiedendomi se mostrare o meno il reperto alle mie amiche. Quello che infatti temo è che esso sia legato in qualche modo alle visioni di Melisa, che vorrei tenere riservate. È stato inoltre un colpo per me trovare in quella cantina quell'accoppiata di nome e cognome che mi pone degli interrogativi. Decido di farlo comunque, nella speranza che la padrona di casa mi possa offrire delle spiegazioni.
Quando riemergo in terrazza, tutte mi seguono con gli occhi senza parlare mentre riguadagno il mio posto. Mi siedo dopo aver controllato che Melisa si sia veramente rimessa. Mi sento imbarazzata in quel silenzio, chiedendomi se il mio piccolo stratagemma sia stato smascherato.
- Hai trovato il telefono? - si informa Katia
- Sì e ho trovato anche altro. Mentre raccoglievo il cellulare ho curiosato nella falla aperta dagli operai nel muro e ho visto qualcosa di giallo. Giulia, tu ne sai niente? - rispondo mettendo sul tavolo il reperto trovato. Lei lo esamina con curiosità:
- Santo cielo Lisa, questo pezzo di stoffa più che me, sembrerebbe coinvolgere te. È il tuo nome con il cognome della famiglia di tua nonna! -
- L'ho notato anch'io e la cosa mi ha fatto una certa impressione. Tu conosci qualcuno che ha abitato qui sotto o sai qualche fatto importante accaduto in questo luogo? - domando guardando di sfuggita Melisa.
Giulia sorride rispondendomi:
- In effetti qualcuno che abitava lì lo conosco: monsieur Malisieu. Devi sapere che prima di acquistare questa casa ci venivamo in affitto d'estate, e quando noi abitavamo qui il padrone di casa si ritirava ad abitare al piano di sotto - .
- Era ebreo? -
- No. Era un personaggio notevole e solitario che viveva a modo suo nutrendosi del pesce che pescava. Suo padre era di origine napoletana, ma lui preferiva usare il cognome della madre, una sarta francese che era stata la vera proprietaria di questa casa - .
Potrei consultare Melisa, ottenendo magari qualche ragguaglio in più, ma non ho intenzione di entrare con lei in argomento qui, e mi riservo di farlo più tardi. Non posso certo esporla a giudizi negativi e superficiali da parte delle due donne per fatti che lei subisce suo malgrado. Inoltre, se vogliamo, potrebbero avere anche dei risvolti ridicoli diventando così oggetto di scherno. La guardo di nuovo di sottecchi e la vedo a disagio.
- Non ti nascondo che sono molto incuriosita e mi sarei permessa di fare qualche altra ricerca se la falla fosse stata più larga. Senti Giulia, promettimi che ti prenderai tu cura personalmente di controllare se il sotterraneo restituirà qualche altro reperto nei prossimi giorni, quando gli operai abbatteranno completamente quella parete! -
Giulia mi dà la sua parola e passiamo a parlare d'altro, trascorrendo ancora un paio d'ore in serenità con chiacchiere fra donne. Anche Melisa sembra sollevata e cerca di partecipare alla conversazione meglio che può, anche se non riesce a riprendersi completamente.
Ci congediamo dalle nostre amiche con baci e abbracci, non prima che Giulia ci abbia fatto promettere altre visite future.
- Parla tu - , dico brevemente a Melisa mentre sta ancora manovrando per uscire dal parcheggio.
- Lisa, io non so chi sia quell'altra Lisa. Non so neanche se è lei a essere coinvolta nei fatti... terribili. Comunque se era lei non era sola qui, e qualcuno l'ha fatta soffrire molto! -
- Forse era quel Monsieur vattelapesca che l'ha messa in difficoltà - .
- Non lo so e, sinceramente, non ho nemmeno tanta voglia di saperlo. Mi dispiace della coincidenza col cognome di tua nonna ma, non so come dirlo, io ho solo il desiderio di tornare alla normalità, di vivere la mia vita come tutti, e di non essere disturbata da fantasmi sconosciuti. Tu sai che ti voglio bene Lisa, e vorrei aiutarti, ma che utilità possono avere le mie smanie, le mie fantasie, le mie follie? Abbiamo avuto forse un paio di riscontri che dipendono magari da combinazioni fortunate... o sfortunate. Ti prego, non chiedermi di insistere su questo sentiero che non ho voglia di percorrere, anche se le mie domande a Giulia ti possono aver dato un'impressione diversa - .
La rassicuro che nemmeno io mi interesserò più dell'argomento. In fondo quel cognome è molto diffuso nella comunità ebraica italiana. E mentre lo dico cerco di convincere anche me stessa.
- Di nuovo questa faccenda delle visioni? - esclama Emre irritato, seguendo con lo sguardo il movimento dei battelli che si muovono pacifici sul tratto di mare che si stende sotto di noi.
Stiamo cenando sul nostro terrazzino nella luce aranciata del tramonto di luglio. Sulla destra le guglie rossastre della chiesa di S. Antonio si impongono incombenti così vicine a noi. Raramente usa questo tono di voce nel parlare della sorella. D'altronde il suo profondo amore nei suoi confronti, che ho constatato durante la grave malattia, è stato uno dei motivi per cui mi sono innamorata di lui.
- La visione è stata solo l'inizio, anche se Melisa ha mostrato un grosso disagio. Il fatto è che abbiamo trovato un pezzo di stoffa, probabilmente il resto di una borsa, con un nome stampato molto chiaramente. Ebbene sai che nome era? Lisa Morpurgo - .
- E allora? -
- Ma come - allora - ? Lisa è il mio nome e ti ricordo che Morpurgo è il cognome di mia nonna! -
- E allora? - ripete monotono Emre, - Lisa non è certamente un nome raro e in quanto a Morpurgo è uno dei cognomi ebraici più diffusi in Italia - .
- E tu che ne sai? -
- Non dimenticare che ho frequentato il liceo italiano e alle medie avevo una compagna che si chiamava appunto così. Però si chiamava Margherita, non Lisa. Pensi che fosse una tua parente? -
- A parte che non è affatto escluso, lascia stare il sarcasmo, Emre. Sai che per me la famiglia è sempre stata importante. Quando ero in Italia ero così concentrata nel raccogliere informazioni su mia madre che non mi sono mai interessata molto al ramo ebreo della famiglia di papà. Forse lui non avrebbe avuto su quell'argomento tutte le remore che ha avuto nel parlarmi, o meglio, nel tacermi della mamma - .
- Sai cosa ti dico, amore? Sull'argomento ho anch'io poche idee, e confuse. E, se proprio devo dirla tutta, non ho mai capito esattamente come tuo padre abbia ereditato la quota della fabbrica di stoffe di Bursa - , esclama Emre.
- Ecco, appunto. Gli è stata lasciata da Umberto Morpurgo, suo zio materno, che dovette lasciare l'Italia durante le persecuzioni ebraiche nella seconda guerra mondiale. Ha fatto fortuna qui ed è morto senza lasciare eredi - , rispondo io.
- Per maggiori informazioni avrai la possibilità di chiacchierare a volontà con tuo padre adesso che andrai in Italia. Mi dispiace perdermi la scena in cui cerchi di carpirgli informazioni col cavadenti. Vedremo se ti darà delle risposte. Peccato che quel vecchio bisbetico, qualunque cosa faccia, mi stia molto simpatico. Buono questo sughetto cosa ci hai messo? -
- Vongole - rispondo telegrafica, mentre penso agli insoddisfacenti colloqui a senso unico col mio genitore e alle domande senza risposta a cui mi ha abituato. Un gabbiano arrivato fin qui, ci passa sopra la testa e la sua sagoma bianca che si allontana diventa sempre più piccola e indistinta contro il mare striato dai toni caldi del tramonto. Altri passano più alti e la terrazza risuona dei loro gridi. Naturalmente a quei versi mi sono abituata da quando abito qui, stasera però mi sembra che non siano solo striduli ma abbiano anche dei risvolti dolorosi, quasi tragici.
- Come va la nostra casa? - cambio poi argomento
- Non va. Non va avanti. Il piastrellista incolpa l'elettricista, che dice che la malta messa dall'altra squadra non va bene. È colpa sempre di qualcun altro, fatto sta che i lavori sono praticamente fermi e ogni volta che vado lì devo urlare come un ossesso per tutto il tempo. Inoltre devo finire in fretta l'altra villa a cui sto lavorando per poter riscuotere il denaro che copra anche le spese della nostra casa. Per fortuna lì le cose vanno meglio! -
Papà ha ricomprato la casa dei nonni, dove mia madre aveva passato la sua infanzia, usando il capitale ricavato dalla sua precedente vendita, ed Emre sta finendo di ristrutturarla. Da una parte mi fa piacere che ci trasferiamo in una vera casa con giardino, dall'altra però sono sicura che mi mancheranno le vicine, a cominciare da Giulia. E inoltre sarò privata di questa enorme stupenda cartolina illustrata sui toni del blu, che posso ammirare tutte le volte che metto piede su questa terrazza sospesa sotto il cielo. Era il mio rifugio meraviglioso e solitario nel mio primo anno qui, ora è il nostro rifugio. A questo luogo sono legati momenti meravigliosi del nostro stare insieme, che andranno ad aggiungersi alla lista dei tesori che dovrò lasciare qui.
Mi alzo per portare via i piatti passando dietro la sedia di Emre. Mi prende per un braccio costringendomi a rimetterli giù e mi trascina senza tanti complimenti verso le chaises-longues sull'angolo della terrazza. Lì andiamo ad aggiungere un altro tassello al già nutrito mosaico di vita disegnato in questo luogo.
Elsa Zambonini Durul
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