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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Patrizia Rinaldi si è laureata in Filosofia all'Università di Napoli Federico II e ha seguito un corso di specializzazione di scrittura teatrale. Vive a Napoli, dove scrive e si occupa della formazione dei ragazzi grazie ai laboratori di lettura e scrittura, insieme ad Associazioni Onlus operanti nei quartieri cosiddetti "a rischio". Dopo la pubblicazione dei romanzi "Ma già prima di giugno" e "La figlia maschio" è tornata a raccontare la storia di "Blanca", una poliziotta ipovedente da cui è stata tratta una fiction televisiva in sei puntate, che andrà in onda su RAI 1 alla fine di novembre.
Gabriella Genisi è nata nel 1965. Dal 2010 al 2020, racconta le avventure di Lolita Lobosco. La protagonista è un’affascinante commissario donna. Nel 2020, il personaggio da lei creato, ovvero Lolita Lobosco, prende vita e si trasferisce dalla carta al piccolo schermo. In quell’anno iniziano infatti le riprese per la realizzazione di una serie tv che si ispira proprio al suo racconto, prodotta da Luca Zingaretti, che per anni ha vestito a sua volta proprio i panni del Commissario Montalbano. Ad interpretare Lolita, sarà invece l’attrice e moglie proprio di Zingaretti, Luisa Ranieri.
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Aniello Atripaldi
Titolo: Mightdreamer
Genere Futuro Distopico
Lettori 402 2 2
Mightdreamer
Un Mondo Pericoloso.

Una goccia di pioggia gli cadde sulla guancia dandogli la stessa sensazione di una bocca di ragazza e ciò lo aveva fatto sorridere. Aveva ancora gli occhi chiusi. Sentiva i muscoli del collo tirare perché la testa pendeva fino quasi a far toccare l'orecchio con la spalla. La schiena gli doleva in più punti. Nella zona lombare poteva sentire il legno della panchina penetrargli fin nella spina dorsale. Aveva le dita dei piedi e delle mani congelate e avrebbe dovuto iniziare a muoverle affinché il sangue ritornasse a defluire all'interno. Ritornò alla testa perché era la parte che più gli doleva. Sentiva un dolore lancinante sul lato destro che partiva dalla fronte e terminava nella parte posteriore come se un chiodo gli avesse attraversato tutta la testa.
Un'altra goccia cadde sulla guancia. Poi altre vi si aggiunsero a bagnargli il viso. Lui non si mosse. Restò inerme sotto la pioggia battente. Quella sensazione di vestiti bagnati la percepiva come una purificazione. Ne sentiva proprio il bisogno. Le sensazioni di freddo e il dolore aumentavano, segno che il dormiveglia stava per finire. Tra poco avrebbe aperto gli occhi. Il piacere provato per il bacio di prima stava per finire.
Strizzò gli occhi imponendosi di dormire ma non vi riuscì. E aprì di scatto gli occhi e si guardò intorno. La vista era appannata e la pioggia non aiutava. Aprì e richiuse le palpebre per mettere meglio a fuoco. Di fronte vide altre panchine con diverse persone ancora preda del mondo dei sogni. Alzò la testa ma il muscolo del collo indolenzito gli intimò di restare ancora fermo. La sensazione di umido era diventata fastidiosa. La pioggia era cessata lasciandogli tutti i vestiti bagnati. La testa gli doleva ancora e si chiese come poteva far passare il dolore il prima possibile. Tentò di rialzarsi. I suoi muscoli protestarono ma alla fine vinse lui. Provò a mettersi seduto. Ebbe un giramento e ricadde sulla panchina. Doveva farcela a rimanere seduto. Il risveglio si rivelò stranamente duro.
Steso, si riguardò di nuovo intorno. Adesso la vista era finalmente definita e precisa. Le persone sulle panchine continuavano a dormire. Sembrava che si trovasse in un parco. Questo era già qualcosa. Si mise seduto, la testa gli girò ancora un po'. Aspettò qualche minuto e si alzò iniziando a camminare con fatica. Il parco era abbastanza grande. Non riusciva a vederne la fine. Tutt'intorno vi erano alberi di pino che limitavano la vista con la loro fluente chioma. Lo spiazzo su cui erano disseminate irregolarmente le panchine presentava alcune zone con altalene e altri giochi per bambini. Di bambini però neppure l'ombra. Guardò in alto nel cielo. Le nuvole ricche di pioggia avevano lasciato il posto a delle bellissime nuvole bianche, tra cui faceva capolino un sole caldo e confortevole. Il cielo era d'uno splendido azzurro. Così vivo da fargli venire voglia di arrampicarsi su di una scala per raggiungerlo: era una bellissima giornata e pensò che con quel sole i vestiti si sarebbero asciugati presto. Guardò il sole e vedendolo così alto in cielo pensò che fosse giorno da un bel po'. Ma che ora era? Guardò il polso sinistro e scoprì di essere privo di orologio. Gli sembrò strano ma lasciò correre. Chissà quanto aveva dormito!
Iniziò a camminare in tondo cercando di ricordare come fosse finito lì e soprattutto dove si trovasse. Nella mente trovò solo un inspiegabile vuoto. Si diresse verso un'altra persona che dormiva. Era deciso a capire dove fosse. E l'unico modo per saperlo era interrogare le persone vicine. Man mano che vi si avvicinava buttava un occhio intorno alle altre decine di panchine, alcune erano vuote mentre su altre vi si trovavano persone che vi dormivano placidamente, incuranti del fatto che la pioggia appena passata gli avesse lasciato i vestiti inzuppati. Nessuno di loro dava segni di risveglio. La cosa lo lasciò perplesso e non poco. Comunque era deciso a far chiarezza su quel luogo e a ritornare a casa. Anche se in quel momento non si ricordava dove fosse.
Raggiunse il primo dormiente. La panchina dove questi riposava era nei pressi della sua. Ed era identica. Anche la postura con la quale l'essere dormiva era uguale. Avrebbe provato gli stessi dolori quando si sarebbe risvegliato, pensò. Allungò la mano per dargli uno scossone, poi ci ripensò e iniziò a guardare quell'uomo. Aveva un pantalone militare ormai stinto. Gli anfibi avevano fatto, forse, il giro del mondo e andavano sicuramente cambiati. La camicia era blu aviazione con un taglio alto sul collo e un numero di serie stampato sulla parte destra del petto: GM-070701.
L'uomo aveva una grossa barba grigia che ne segnalava la mezza età. All'apparenza sembrava un barbone. Uno di quelli che cerca rifugio per la notte nei parchi di una qualsiasi città. A un tratto qualcosa lo fece trasalire. Si guardò e vide i suoi abiti: erano identici. Tranne che per il numero di matricola. Il suo era GM-140879. Il ragazzo, allora, si allontanò impaurito da quell'uomo e si guardò intorno. Anche gli altri avevano lo stesso abbigliamento. Sentì un brivido alla schiena e si portò una mano alla bocca per l'orrore. Continuò a guardarsi intorno voltandosi sul posto. C'erano anche alcune ragazze. Non le aveva riconosciute prima proprio per l'abbigliamento maschile. Ma adesso che la mente si faceva più lucida, l'orrore che lo circondava si faceva più evidente. Che diavolo significava quel posto?
Chi erano quelle persone? Che ci faceva lui lì?
Iniziò a correre senza meta per la paura, come se qualcuno o qualcosa lo stesse seguendo. Poi, a un tratto, si fermò. La razionalità della sua mente prese il sopravvento. Doveva cercare di capire dove si trovava. Ritornò indietro. La sua corsa era stata breve ma faticosa. I muscoli del corpo stavano protestando con fitte a quello scatto improvviso e inaspettato. Per quanto tempo aveva dormito? Lo stato di torpore dal quale si era risvegliato segnalava la sua lunga giacenza sulla panchina. Si diresse verso l'uomo di prima. Era ancora lì fermo nella stessa posizione. L'improvviso scatto del ragazzo non lo aveva disturbato. Lentamente gli si avvicinò. Aveva il terrore che fosse morto. Guardò con attenzione il suo ventre. Si sollevava con ritmo regolare. Era vivo. La cosa lo confortava alquanto. Almeno sapeva di essere tra persone vive.
Si avvicinò e diede un piccolo scossone all'uomo. Aveva paura. Quella situazione era inspiegabile. Al tocco l'uomo non reagì. Sembrava non essersi reso conto dello scossone. Ritentò di nuovo. Anche stavolta l'uomo rimase immobile nel suo sonno. Iniziò a preoccuparsi. Gli scossoni si facevano sempre più violenti ma l'uomo non sembrava rendersene conto.
A un tratto lo vide aprire gli occhi ed emettere un urlo disumano. Osservò la bocca spalancarsi e, dato che si trovava a pochi centimetri, gli vide i muscoli delle labbra estendersi così tanto che avrebbe potuto inserirvi un pugno chiuso. Terminato l'urlo l'uomo richiuse gli occhi e sprofondò nel suo sonno. Il ragazzo cadde al suolo per lo spavento. Poi si rialzò iniziando a correre. Non si sarebbe voltato per nulla al mondo. Giunto abbastanza lontano, si arrestò. Era rimasto senza fiato. Sentiva il cuore scoppiargli in petto. I muscoli del corpo reggevano a fatica il suo peso. Dovette sedersi a terra. Le forze sarebbero venute lentamente. Cercava di dare un senso a ciò che stava accadendo. Quella reazione era del tutto spropositata. Anzi, del tutto insensata. Tutta la faccenda era senza senso. Tutto ciò che lo circondava era al di là della realtà.
«Sto sognando» si disse. Era l'unica spiegazione plausibile e razionale. La sua mente razionale non era in grado di dare nessuna altra spiegazione. Tra poco si sarebbe risvegliato nel suo letto. Nella sua casa, ovunque essa fosse. Anche il fatto di non ricordare nulla era frutto del sogno. Doveva aspettare di svegliarsi. Era impaziente. Si diede allora un pizzico sulla guancia e poi uno schiaffo, due. Niente. Si trovava sempre lì. Solo. L'unico sveglio in mezzo a tante persone addormentate.
Era sveglio. Ne era sicuro. Ma quello non era reale. Non poteva essere reale. Iniziò a correre come un forsennato verso i pini. L'orizzonte era l'unico modo per sapere dove fosse. Cosa c'era oltre quei pini? Il parco era solo una parte di ciò che vedeva. Al di là dei pini qualcosa doveva pur esserci. Occorreva scoprirlo. Perdere tempo con gli altri sarebbe stato uno spreco di forze. Le sue erano ridotte all'osso. Bisognava centellinarle. Quella corsa lo avrebbe sfinito ma era necessaria. Aveva voglia di sapere in fretta cosa c'era al di là di quell'assurdo parco. Le panchine man mano si allontanavano. Allo spiazzo seguì una specie di radura. Di fronte: i pini. All'improvviso, inaspettatamente, una folata di vento lo spinse indietro. Il ragazzo cadde sbattendo la testa sull'erba. Sentì le ossa del collo emettere un piccolo scricchiolio, poi più nulla.
Il vento, così com'era venuto, scomparve. Il ragazzo giaceva esanime sull'erba. I pini avevano assistito impassibili alla scena. Neppure una foglia si era mossa. Erano come pietrificati sull'orizzonte. Messi lì forse da un pittore in vena di dipingere un po' di verde.
Riunione iniziale
La riunione era fissata alle dieci di mattina. Al quarto piano dell'edificio principale della Sintek nella più grande delle sale riunioni. La sua caratteristica principale era la forma a semicerchio sia della stanza sia del tavolo centrale. Sull'unica parete piana era sistemato il sistema di proiezioni olografiche tridimensionali che avrebbe consentito a tutti di ammirare in profondità quello che la nuova meraviglia dell'intrattenimento digitale era in grado di creare. L'orario scelto garantiva ai partecipanti una certa libertà, e a Enrico la possibilità di analizzare meglio quanto stava accadendo nelle parti limitrofe del regno, dove alcuni tester stavano completando le verifiche sulla parte di programma che gestiva lo screening delle menti connesse alla console. Qualcosa, però, lo lasciava perplesso dato che ultimamente la capacità di analisi del software della console era aumentata a dismisura e, in certi contesti, al di là dei perimetri consentiti dalle applicazioni di controllo degli stati fisici. Alcuni avvenimenti sulle cavie erano andati male e se qualcuno dei suoi avesse parlato lui si sarebbe trovato in serie difficoltà.
Una delle ultime cavie era rimasta connessa al mondo virtuale senza possibilità di distacco. Avevano scelto di non interferire ulteriormente dato che nei due casi precedenti quando il visore era stato staccato non erano riusciti più a rianimare il corpo. La decisione era stata drastica e necessaria e aveva fatto scaricare il corpo del ragazzo in uno dei tanti vicoletti periferici della città cancellando tutte le tracce per risalire all'identità del ragazzo e, soprattutto, dal visore a lui. La sua idea era che i medici potevano trovare una strategia di distacco che lui ignorava. Non era mica un dottore. Era certo che una strada medica esisteva e che, comunque, avrebbe lasciato il ragazzo con danni cerebrali. Per cancellare ogni collegamento al suo mondo lo aveva scollegato ma il visore, seppur in versione non definitiva, aveva ripreso la connessione tenendo il cervello pienamente operativo. Controllando gli accessi al mondo virtuale aveva infatti rilevato un ingresso poche ore dopo la disconnessione del laboratorio. Non sarebbe più accaduto. Aveva preso dei provvedimenti e aveva ritirato i sensori dei prossimi visori affinché si potesse intervenire per un distacco forzato, anche se avrebbe indagato più a fondo per capire la genesi di quell'evento.
Enrico in quel preciso momento doveva concentrarsi solo su quel meeting ed eliminare distrazioni e pensieri. Percorreva il corridoio in marmo dell'azienda con fare spedito passando davanti alle porte che introducevano ai vari open space dove una schiera di programmatori dipendeva da lui e dalla sua creatura. Non avrebbe fallito, si disse, chiuse un attimo gli occhi per concentrarsi ma una voce femminile lo interruppe: «Buongiorno Enrico, in bocca al lupo per la tua presentazione».
«Ciao, Sandra. Grazie.» Riaprì gli occhi e si arrestò di fronte a lei per guardarla negli occhi azzurri cercando di andare oltre quella facciata di cortesia. «Siamo in dirittura di arrivo ed è grazie anche al tuo lavoro.»
«Lo so! Non hai bisogno di ricordarmelo.» Gli occhi azzurri si socchiusero e i muscoli della bocca e del collo si contrassero. «Hai letto la news del ragazzo abbandonato in un vicoletto con il visore ancora agganciato?»
«Certo. Lo so dove vuoi andare a parare.» Alzò una mano come ad arrestare la paternale che sarebbe iniziata di lì a pochi secondi se non l'avesse fermata in tempo. «Sono interessato a capire se esiste una strada medica per “staccare” le persone» le disse a bassa voce puntando gli occhi a destra e a sinistra osservando chi fosse intorno a loro.
«Farai meglio a riportare l'accaduto a Pietro dopo la presentazione, altrimenti lo farò io.» Lo guardò dritto negli occhi e poi scattò di lato per andare via senza lasciargli diritto di replica.
Enrico si voltò verso di lei osservandone la figura. Aveva ragione da vendere e se ne rendeva conto. I suoi esperimenti erano andati oltre il previsto ed era arrivato il momento di interromperli prima di ripercussioni sulla sua creatura. Si portò due dita nella parte superiore del naso e chiuse gli occhi. Ci avrebbe pensato dopo quella riunione e la presentazione di domani. Adesso doveva ritornare con la mente a quella riunione che già gli era costata un battibecco proprio con il suo capo.
«Voglio essere da solo con i clienti.» Era stata la sua richiesta a Pietro Cervone, dirigente del reparto Ricerca & Sviluppo della Sintek, che gli aveva dato carta bianca due anni prima per lo sviluppo della nuova console e che, a detta anche di altre persone del suo entourage, avrebbe spazzato via la concorrenza. Sapeva che in quel progetto la società ci aveva riversato tanto denaro ed era giunto il momento che iniziasse a ripagarsi.
Un mese prima della riunione odierna quelle parole così dirette avevano spiazzato il suo capo. Enrico fece ancora mente locale su quanto gli aveva promesso quel giorno.
«I nostri stakeholder devono vedere la mia creatura senza sovrastrutture comunicative da parte di qualche genio sterile del marketing che cerca sempre di imbambolare i clienti. Come ogni responsabile apicale pensi che i tuoi interlocutori non ti capiscano solo perché non sono tecnici. In realtà, ci mettono poco a capire che li stai prendendo in giro e stai cercando di vendere come oro del semplice acciaio.»
Di fronte a queste parole aveva visto basito il suo capo, il quale era stato un bravo tecnico ma lui, Enrico, era di certo più brillante. Sapeva anche che non si sarebbe arreso facilmente alle sue parole e ̧ come un pugile alle strette, immaginava che si sarebbe aggrappato al suo avversario pur di evitare qualche colpo.
«Tu invece cosa hai intenzione di dirgli?» Era uno dei suoi giochi comunicativi che mal celava la sua insofferenza. Il tono di Pietro era fermo e deciso.
Voleva mostrargli la sua durezza ma Enrico era pronto: «Nulla, la mia dimostrazione li lascerà senza parole e vorranno subito firmare un contratto».
«Cosa mostrerai?»
«La mia creatura e il suo regno.»
«Li farai giocare?» Il suo capo era in un angolo cercando di respingerlo chiedendogli i dettagli della sua presentazione.
«No, voglio evitare connessioni casuali per ora. Come ogni demo scorrerà su binari prestabiliti dal sottoscritto.»
«Quindi sarà una demo senza live per gli spettatori. E tu così pensi di convincerli?» Eccolo che provava a uscire dall'angolo per sferrargli un colpo ben assestato.
«La demo sarà una registrazione di una settimana fa realizzata in un centro commerciale in Giappone, dove abbiamo camuffato la nostra console come una già in commercio. Si vedranno tre ragazzi che giocano in un castello medioevale. Dopo la partita si sono avviati all'interno del centro commerciale e ne sono usciti con i prodotti che abbiamo inserito come riferimento nascosto nei livelli in cui hanno combattuto.»
«Mah, il test che si terrà questa settimana non doveva essere il primo sul pubblico?» Il colpo era stato schivato e lui gli aveva dato un bel diretto in pieno viso. Non ci sarebbe stato bisogno di contare. Il KO era sicuro.
«Pensavi veramente che ti dicessi tutto su questo progetto? Il software di questa console è la sommatoria delle esperienze di una vita. La mia. È tutto quello che ho: famiglia, fidanzata e amici.»
E aveva visto Pietro capitolare dandogli carta bianca anche per quella riunione.
E ora eccolo. La sala era già stata preparata. Tutto era stato definito al meglio. Niente sarebbe andato storto. Enrico si sentiva pieno di vita come mai prima d'ora. I pensieri sulle incertezze del capo e le sue insicurezze sul software svanirono quando entrò nella sala. Al loro posto c'erano solo certezze. Quelle relative al successo della sua demo incentrata sulla città medioevale su cui aveva lavorato tanto, e secondo i suoi più stretti collaboratori era il meglio che la mente umana avesse mai partorito.
Il mondo virtuale era esteso quanto l'intera New York e tutti i quartieri erano giocabili e differenziati per stili che andavano dal gotico al futuristico passando per il romanico e il contemporaneo, per ora. Aveva già pianificato una serie di pacchetti aggiuntivi, add-on, sull'epoca precolombiana che avrebbero sicuramente dato ulteriore boost al suo gioco. Una delle caratteristiche che amava era che ogni utente poteva girovagare libero impegnandosi in qualsiasi tipo di azione buona o cattiva che fosse. Il downtown, il centro nevralgico della città, aveva una forma a girasole con al centro un'arena e, in ogni petalo, si trovavano botteghe e centri di divertimento. Il fulcro erano gli stadi dove i giocatori virtuali si potevano iscrivere per poter o lottare fra di loro – seguendo le regole dettate dallo stile della zona – o semplicemente guardare gli altri combattere.
Ogni quartiere aveva un boss. In quello Medioevale aveva inserito “The Master” la quale era una delle sue creature più riuscite perché indipendente e senziente. La sua programmazione si era arricchita con il tempo ed era stato capace di generare altri personaggi con la presunzione, tipica di chi ha il potere, di essere l'unico controllore del suo mondo. E lui l'aveva lasciato fare con ottimi risultati. Il mondo gestito da The Master era vivo e indipendente e sarebbe stato sicuramente un successo di gradimento per il pubblico giocante e non. Tutta quella parte del mondo sarebbe stata meravigliosamente realistica e appassionante.
Entrò nella sala e si sedette alla scrivania. Digitò veloce sulla tastiera virtuale e sulla parete di fronte comparve uno dei punti forti: un'arena a pianta ellittica che copiava gli anfiteatri romani come l'arena di Verona o il Colosseo in Italia. La differenza era che questa struttura era nel suo pieno splendore completa di statue e ricoperta da marmo, mentre nel Medioevo tutti gli anfiteatri furono utilizzati come cave per costruire altri edifici, in particolari chiese. Proprio in questa arena Enrico avrebbe mostrato le caratteristiche salienti del suo mondo virtuale.
Guardò l'orologio. Erano le 9:00, continuò a sfiorare con i palmi i controlli sulla scrivania. Sulla parete di fronte l'immagine si spostò per mostrare altre inquadrature sul mondo virtuale. Combatté con se stesso e si impedì di attivare quelle periferiche. Meglio concentrarsi sulla demo. Era essenziale convincere i “capoccia” delle varie aziende a sborsare il capitale per proseguire i suoi studi. Doveva aumentare la capacità di analisi del sistema in maniera controllata. Adesso i programmi base del sistema avevano la capacità di aggiungere altre routine in funzione di ciò che accadeva nel mondo virtuale anche se la comprensione euristica degli eventi era da migliorare. Non tutte le reazioni dei player erano schematizzabili in blocchi da verificare separatamente ma lui aveva in mente di potenziare l'analisi delle espressioni facciali, dei movimenti e degli stati fisici di una persona collegata affinché il sistema capisse ciò che il giocatore stava provando. Il potenziamento era necessario per quello che aveva in mente. E gli servivano altri soldi. Non poteva sbagliare nulla in quella riunione.
La luce sul desk s'illuminò ed entrarono le persone che stava aspettando. I cinque CEO lo salutarono e presero posto intorno al tavolo. I loro visi mostravano un'attenzione che, se non fosse stato convincente, si sarebbe tramutata in nervosismo, prima, e in un rapido saluto, poi.
Le persone affollavano il terminal delle partenze come ogni giorno. Le loro storie s'intrecciavano in quel formicaio che consentiva loro di andare fra due posti distanti migliaia di km in pochi minuti. L'attesa per i voli era molto comoda grazie a negozi e centri commerciali che permettevano ai viaggiatori di comprare qualche pensierino alle mogli, e alla società che gestiva l'aerostazione di aumentare i ricavi. L'ingresso dell'aeroporto era dotato di un'ampia superficie vetrata che dava un senso di libertà anche se si entrava in un ambiente chiuso. Appena varcato l'ingresso c'erano gli scanner che controllavano i bagagli e lo stato di salute delle persone. A valle degli scanner c'erano i pavimenti mobili che portavano ai vari gate.
I passeggeri che avevano già prenotato venivano inseriti direttamente nel gate giusto in base alla loro tessera di viaggio. Quest'ultima veniva gestita, per gli uomini d'affari, dall'azienda che provvedeva a caricare sul conto-viaggi dell'utente i voli, alberghi ed eventuali vetture di servizio.
Terminati i pavimenti scorrevoli, gli utenti si ritrovavano nel gate giusto e potevano gustarsi qualche momento di relax prima della partenza. In uno dei gate diretti in America si trovavano due uomini d'affari, CEO di due delle più importanti aziende alimentari mondiali. Erano usciti da un'ora dalla Sintek e avevano ancora negli occhi ciò che avevano visto e sentito.
«Sbalorditivo.» Paul e Frank erano seduti al bar dell'aerostazione in attesa del JET sonico che li avrebbe riportati nelle loro sedi.
Le immagini del gioco e le relative features ronzavano nelle loro menti come una canzoncina di Natale. Sfruttare le sensazioni del corpo umano durante il gioco per spingere agli acquisti dei consumatori era un'idea geniale su cui altre aziende avevano puntato e fallito.
Le persone attorno girovagavano in attesa indifferenti con le loro piccole valige perché il contenuto era sottovuoto e monitorato dal chip delle valigie stesse. Ogni dieci secondi questi chip inviavano le informazioni sul contenuto. Un'eventuale apertura dopo l'accesso ai gate sarebbe stata sanzionata e, in caso di aggiunte/rimozioni sospette, avrebbe portato all'arresto del passeggero.
«Enrico sa il fatto suo» conclusero.
Le loro aziende erano in continua lotta contro i competitors. Una lotta che portava margini sempre più ristretti dato che i costi in Pubblicità e in Ricerca & Sviluppo erano sempre più alti. Con l'idea di Enrico avrebbero speso meno in pubblicità democratica e di più in quella pilotata. Inoltre, la pubblicità che garantiva il software di Enrico era di gran lunga più sicura di quella normale. Il cervello veniva “spinto” a comprare determinati prodotti e a scartare gli altri. Tutto ciò al di là del valore intrinseco del prodotto e del suo packaging colorato.
«Chissà quante cavie hanno usato per questo progetto?» esclamò pensieroso Paul.
«Ti interessa veramente? Toglimi una curiosità, tutti i tuoi prodotti non sono stati sperimentati su persone a basso reddito prima di essere venduti sugli scaffali?» gli rispose piccato Frank.
Il dock emise un beep e una porta scorrevole si aprì mentre una voce sintetica annunciava l'inizio dell'imbarco per Detroit. I due dirigendosi verso lo scanner di controllo posto prima del dock si guardarono negli occhi, sorrisero poiché sapevano già che avrebbero dato alla Sintek e, soprattutto, a Enrico quello che avrebbero chiesto.

Rosa
La Smart Band iniziò a vibrare sul polso facendola svegliare. Nell'aria si era già diffuso l'odore del caffè al gusto di vaniglia. Dal bagno proveniva il caldo vapore della doccia. Si rigirò su sé stessa convinta, come ogni mattina, che la sveglia potesse placarsi anche se sapeva che non sarebbe stato possibile: la vibrazione sarebbe terminata solo nel momento in cui si sarebbe alzata.
A un certo punto sentì un altro rumore familiare, le finestre si stavano aprendo consentendo alla luce dei raggi del sole di illuminare la stanza.
«Ok, mi alzo.» Si rigirò, alzò il busto, si mise seduta e appoggiò i piedi sulla moquette calda. Quella sensazione la inebriava tutte le mattine.
Si diresse verso la doccia spogliandosi della tuta notturna che indossava. La buttò di lato al lavabo pensando che l'avrebbe sistemata dopo ma, come nei giorni passati, l'avrebbe lasciata lì. Passò di sfuggita di fronte al lavandino e il pannello bianco cambiò la sua conformazione mutando in uno specchio che le rivelò il suo aspetto. Spostò la sua attenzione sui messaggi in alto e le stelline della notte appena passata. Aveva dormito male come ultimamente le accadeva. Avvicinò il viso allo specchio e i messaggi scomparvero. Si guardò le occhiaie sotto i suoi occhi corvini. Sospirò, si rimise dritta e si passò una mano fra i capelli neri sottili. I suoi occhi corvini guardavano quella figura con la pelle scura. Si soffermò sui seni che iniziavano a cadere e così spostò lo sguardo sulle braccia dove i tatuaggi tribali le ricordavano un'adolescenza ribelle. Si avvicinò ancora allo specchio e si sorrise. Anche se la sua giovinezza era passata si sentiva piena di forze per i suoi alunni. La missione della sua vita era l'insegnamento e il supporto alla crescita delle nuove generazioni. Si era sempre sentita tagliata per quello scopo e ci metteva tutta se stessa. Il beep della doccia la riportò nella stanza.
«Un attimo! Arrivo.»
Si sistemò, quindi, di fronte al box doccia e aprì una delle ante lasciando che il vapore dell'acqua calda che proveniva dall'interno le provocasse una piacevole sensazione di umidità sulla pelle. Fissò per un attimo il getto rapido proveniente dalla bocchetta superiore e poi si fece forza, prima con un piede e poi con l'altro si tuffò nella doccia per completare quel caldo e dolce risveglio.
Si lavò accuratamente soffermandosi sui seni e ripesando a quante volte le sarebbe piaciuto allattare un bimbo. Muovendo le mani per levare via la schiuma allontanò via anche quel pensiero e uscì dalla doccia entrando nella zona di asciugatura. Si sistemò di lato fra due muretti che delimitavano un cunicolo provvisto di bocchette di aerazione da cui uscì aria calda e gradevole che l'asciugò completamente.
Ritornò in camera da letto e nella stanza si diffuse una voce amichevole: «Buona giornata, Rosa. La temperatura esterna è di 18°C, l'aria è ossigenata correttamente e la cupola questa notte ha retto. La colazione prevista oggi, caffè e brioche, è sul tavolo in cucina. I tuoi parametri vitali mi dicono che sei in perfetta forma. Sei autorizzata a lasciare la casa».
«Grazie, Home.»
Prese i suoi vestiti dall'armadio, con le mani iniziò a scorrere tra le magliette fino a quando prelevò quella con la scritta “Good vibes since 2020”. Stamattina le andava di vestirsi in modo informale lasciando nel cassetto la classica camicia che toccò con la mano libera.
Si diresse in cucina per fare colazione. Prese la mug dalla macchina del caffè, la portò alla bocca e sorseggiando si avvicinò al top dove prese il tablet ripiegabile. Iniziò a leggere il feed delle e-mail e degli appuntamenti, tra cui compariva una delle riunioni che più odiava. Sospirò.
«Oggi abbiamo il consiglio di classe, me ne ero dimenticata!» Era stata così presa dall'organizzazione della visita alla convention sui videogame che si era dimenticata di quella incombenza burocratica. Ritornò con la mente alla fiera pensando che sarebbe stata una bella esperienza per i ragazzi. Chissà che facce avrebbero fatto davanti a tutte quelle luci e agli stand pieni di novità.
Controllò lo stato di salute degli alunni della sua classe: stavano tutti bene e avevano già lasciato le loro case per dirigersi verso la scuola. Ne approfittò per mandargli un buongiorno virtuale. Terminò il suo caffè imbustando una parte della brioche. Si alzò e sistemò la busta nella sua borsa. Si diresse alla porta e quando ruotò la maniglia fu distratta dalla voce dell'assistente vocale: «Ricordati di finire la colazione più tardi. Secondo i miei calcoli, avevi bisogno di altri zuccheri».
«Grazie cara» le rispose Rosa uscendo sul pianerottolo. Guardò per un attimo l'ascensore e rifletté sulle melodie del mattino che vi avrebbe ascoltato. Rivolse gli occhi verso l'alto e si tuffò giù per le scale.
Tie Break. La lezione era stata lunga ma secondo Rosa efficace. Prima di ricominciare aveva concesso una pausa di dieci minuti ai ragazzi lasciandoli liberi di fare surfing sul web. Il loro brusio la metteva a disagio anche se cercava di non darlo a vedere. Soprattutto dopo aver spiegato e parlato per quasi due ore. Decise, comunque, di riprendere la lezione definendo prima gli alunni che avrebbero preso parte alla fiera.
Rialzò la testa dal registro davanti a lei e, dalla sua cattedra, osservò la classe. Ognuno di loro aveva la testa bassa ed era impegnato, nella propria scrivania, ad armeggiare sui display scorrendo e commentando a destra e a manca le notizie sui social network. Li lasciò fare per altri due minuti e intervenne inviando sui loro dispositivi un banner visivo e sonoro.
«Ragazzi, riprendiamo. Cerchiamo adesso di essere un po' più silenziosi perché selezioneremo quelli fra di voi che verranno al Games World.»
Osservò i ragazzi zittirsi all'istante. Aveva la loro attenzione e proseguì.
«Sceglieremo i partecipanti in base alla regolarità con cui hanno seguito le lezioni, ai voti e in ultimo in base alla loro attività sui profili social considerando numero di follower e di like sui post.»
Ci fu un brusio che durò qualche secondo. Lo sapeva che ci sarebbero stati dei malumori. Sapeva pure che una tipologia di selezione come quella era comune anche in altri ambiti. Nel briefing di un paio di giorni prima un organizzatore della Sintek, uno dei maggiori sponsor della fiera, aveva spiegato a Rosa che alle società partecipanti serviva molta pubblicità che solo utenti molto attivi potevano garantire. Capiva che la scelta non sarebbe stata facile e magari qualche ragazzo intelligente e meritevole ci avrebbe rimesso, ma quelle erano le condizioni necessarie per consentire la partecipazione gratuita alla scuola.
Dal suo tablet avviò l'algoritmo di selezione. Si voltò dietro la cattedra per controllare che sulla lavagna elettronica venissero proiettati gli stessi dati: voti, presenze e account social dei presenti.
Ritornò con lo sguardo sulla classe.
«Sulla base di questi dati sceglieremo quattro nomi.»
Le tabelle iniziarono ad animarsi e si fusero in una su cui furono evidenziati i nomi dei partecipanti:
CINZIA
FRANCESCO
NELLO
MAURIZIO
Rosa dovette intervenire colpendo con il palmo la superficie della scrivania. Vide gesti di stizza e sentì qualche mormorio di troppo. Lanciò anche un'occhiata ai quattro ragazzi estratti che avevano una faccia di contentezza.


Luca
Luca era seduto alla sua scrivania. Aveva stretto con forza il tablet durante la selezione e ancora di più quando, tra i nomi, non era comparso il suo. L'esclusione gli provocò una fitta alla testa e dovette avvicinare una mano alla tempia come per sorreggersi. A quella fiera ci sarebbe stata una grossa novità, lo sapeva. Abbassò lo sguardo e si intristì. Un gesto inconsulto e automatico che segnalava il suo rammarico. Tale gesto non passò inosservato alla professoressa con la quale incrociò lo sguardo. Sentì, però, la sua voce molto più lontana della reale distanza fisica esistente.
«Luca, mi dispiace per la tua esclusione e per quella degli altri. Vi posso assicurare che faremo di tutto per farvi partecipare ad altre manifestazioni simili.»
«Lo spero» aggiunse brevemente il ragazzo.
«Se vuoi prenderti dieci minuti di pausa, sei autorizzato a farlo.»
«No, preferisco continuare la lezione.»
«Va bene. Continuiamo allora con gli eventi che portarono alla caduta dell'Impero romano. Chi mi sa dire chi era l'imperatore di Roma quando arrivarono gli Unni?»
Luca partecipò con disinteresse al resto della lezione. Quando sul suo dispositivo suonò la campanella di fine lezione, la professoressa gli mandò un messaggio per dirgli di trattenersi. Restò al suo banco mentre il resto della classe uscì rumorosa con una valanga di beep di messaggi sbloccati dal termine della lezione. Quando tutti furono andati via, si avvicinò alla scrivania.
«Luca, capisco il tuo dispiacere. L'insuccesso di oggi ti deve spronare per la prossima volta.»
«Lo so ma mi sono impegnato molto quest'anno. Mi rode perché sento di essere stato escluso a causa delle settimane a casa durante la malattia della mamma.»
«Non posso escluderlo. Mi dispiace ancora per tua madre. Vedrai che le cose miglioreranno con il tempo. Il ricordo di tua madre e del suo amore rimarrà nel tuo cuore aiutandoti a crescere.»
«Sì, certo, ma...» Si fermò trattenendo un magone. Chiuse gli occhi piegando la testa in avanti.
Sentì l'altra persona alzarsi, fare il giro della scrivania e due braccia calde lo avvolsero. Luca si arrese a quell'abbraccio inaspettato e si lasciò cullare da quel momento.
«Quando vuoi, sono qui» gli disse la professoressa.
«Grazie.» La presa si allentò e lui la guardò negli occhi lucidi capendo che quella donna ci teneva veramente a lui. Le sorrise, si voltò e mentre usciva sapeva che Rosa lo stava continuando a guardare
Mai Arrendersi
“Devi impegnarti seriamente se vuoi veramente qualcosa.”
Era il mantra con cui la mamma lo aveva cresciuto e con cui lei gli rispondeva tutte le volte che qualcosa andava storto. Era certo che gli avrebbe risposto così anche in quel momento e un velo di tristezza gli comparì in volto. Avrebbe dato e fatto qualsiasi cosa pur di averla lì per abbracciarla e per parlarle. Invece, c'erano solo le sue foto sparse in casa e il suo profumo quando apriva un armadio della stanza paterna alla ricerca di indumenti spariti, come spesso accade, nel nulla. Ritornò con la mente alle qualifiche per la convention: si era impegnato, e anche tanto, ma non era bastato. A pochi punti dalla meta era stato placcato. Così andavano le cose e, per ora, non poteva farci nulla.
Prese lo zaino dall'armadietto e quando lo richiuse il faccione di Peter sbucò facendogli prendere uno spavento.
«Torna qui con me, Luca. Lo so che stai pensando all'esito della qualifica. Mi dispiace, so quanto ci tenevi.» Era così sovrappensiero che non si era reso conto dell'avvicinarsi dell'amico con cui si conosceva praticamente da sempre. Si erano incontrati in seconda elementare dopo che Peter si era trasferito dalla sua città natale con la famiglia. Poiché i suoi genitori lavoravano entrambi, avevano trascorso tanti pomeriggi insieme a studiare e a mangiare pancake pieni di marmellata. Si consideravano fratelli e crescendo il loro rapporto era rimasto saldo.
Ritornò con la mente al presente e guardò il viso dell'amico.
«Come mai oggi non hai gli occhiali?»
«Mi sono caduti ieri.» E si toccò con la mano sul naso dove facevano bella mostra due avvallamenti dovuti ai naselli della montatura.
«Ho capito. John ti ha di nuovo infastidito. Prima o poi dobbiamo parlarne ai grandi.»
«Hai ragione. Comunque, mi dispiace per la tua esclusione.» Aveva cambiato discorso. Segno che non ne voleva parlare.
«Sarà per il prossimo evento.»
Era troppo dispiaciuto per ritornare a parlare dei bulli. Ci sarebbe stato una prossima occasione? Era una risposta di comodo che dava a se stesso? L'avrebbe scoperto nei giorni a venire, perché in quel momento aveva solo voglia di ciondolarsi sul divano a giocare, infischiandosi di punti e classifiche.
«Ti va di andare a prendere un pezzo di torta alle noci? Ho controllato il numero di persone presenti alla tavola calda dietro la stazione dei pullman e ci dovrebbe essere ancora margine per noi due.» Diede un rapido sguardo al display del suo smartphone aggiungendo: «Inoltre, ci sono due ragazze della nostra età con cui poter scambiare qualche battuta».
«Si potrebbe fare. Riesci a recuperare il nome delle ragazze?» disse, incuriosito, Luca, cercando una qualsiasi scappatoia dai suoi tristi pensieri.
«Gwen e Stephanie. Una è fra i miei contatti di Facebook mentre l'altra è una sua amica che, dalle foto del profilo, sembra carina.»
«Andiamoci allora.» Un po' di distrazione e quattro chiacchiere gli avrebbero fatto bene.
Uscirono dalla scuola e le loro Smart Band emisero un beep, entrambi diedero uno scroll ai loro parametri vitali, pressione, temperatura e glicemia e, senza indicazioni rosse, le cancellarono con il palmo sul display. I ragazzi presero i monopattini sbloccandoli con le loro impronte ma, dopo pochi metri, quello di Luca si fermò perché era arrivata una chiamata e lui non indossava le cuffie. Prese il telefono dalla tasca posteriore dei jeans e sul display comparve un'immagine del padre abbronzato risalente all'estate precedente alla scomparsa della mamma.
«Ciao, pa'. Come mai mi chiami a quest'ora? Tutto okay?»
«Sì, sono in zona e mi piacerebbe prendere un caffè con te. Che ne pensi?» disse il padre in tono amichevole.
«Si può fare. Stavamo giusto andando a prenderne uno allo Star Caffè dietro la scuola. Ti mando il numero del tavolo appena ci sediamo.»
«Cinque minuti e sono lì» disse il padre chiudendo la comunicazione.
«Tuo padre come sta?» chiese Peter.
«È bravo a celare le sue emozioni, come fanno i buoni poliziotti, ma la mamma gli manca. L'altro giorno l'ho trovato che sfogliava l'album della nostra prima vacanza in Puglia, avevo sei mesi ed ero stato adottato da quattro.»
«Posso immaginare quanto vi manchi. Me la ricordo quando ci preparava le torte e facevamo gli spuntini con la cioccolata calda.»
«Pensi troppo al cibo, Peter. Ricordati che i monopattini hanno un limite di peso di 70 chili. Dopo sarai costretto a muoverti a piedi.»
«Potrebbe farmi solo bene.» E risero di gusto.
Ripresero il tragitto verso il caffè dove arrivarono in pochi minuti. Le porte erano chiuse. Avvicinarono i rispettivi telefoni affinché le porte leggessero il codice di prenotazione e si aprissero.
A loro fu assegnato il tavolo 14 e, mentre attraversavano il locale, passarono davanti al tavolo di Gwen e Stephanie che fermarono il loro chiacchiericcio. Lo sguardo delle due non era un segno di disponibilità e i ragazzi ne presero nota guardandosi per un attimo. Decisero di passare oltre.
Si sedettero uno di fronte all'altro e un ologramma a forma di dinosauro, alto una decina di centimetri, comparve al centro del tavolo chiedendo: «Quanto tempo serve all'altro prenotato? Se mi fornite il suo identificativo posso comunicargli dove siete seduti. Vi porto qualcosa nel frattempo?».
«Dovrebbe essere a...» Luca prese il tablet dallo zaino, lo srotolò sul tavolo e controllò la posizione del padre che era a circa 150 metri. «È a pochi metri. Nel frattempo, portaci due gelati.»
Vide l'amico annuire con la testa. Il viso sorpreso dal cambio di programma. Contento perché sapeva che lui mangiava pochi dolci. Ma in quel momento riteneva di aver bisogno di zuccheri e dolcezze per compensare sia l'assenza della mamma sia l'esclusione alla convention.
«Fatemi controllare.» L'ologramma sparì e sul tavolo si accese un display con i parametri metabolici dei ragazzi, oltre a una proiezione degli impatti di quei dolci. Alla fine dell'elaborazione il display si spense e ricomparve l'ologramma che annunciò: «Limite di carboidrati giornalieri superati per te, Peter. Richiedere autorizzazione genitori?».
«Sì, procedi, pure.» Lo schermo scomparve e dopo pochi secondi annunciò che la mamma di Peter aveva autorizzato lo sforamento. Luca sapeva che questo era il modo in cui i genitori dell'amico compensavano la loro assenza per lavoro e un rapporto conflittuale rispetto al quale Peter veniva sempre lasciato ai margini.
Quando il dinosauro ricomparve, aggiunse: «Dose massima: due palline a testa. Gusti?».
«Banana e pistacchio per entrambi.» Peter gli fece il pollice verso per la scelta.
L'ologramma si spense e loro rimasero a fissarsi. Fu Peter a rompere l'impasse: «La prof oggi ci ha proprio distrutti con tutte quelle nozioni di storia sull'Impero romano. Ho voglia di farmi una partita di flipper in multiplayer. A te va?».
«Ok.»
Posizionarono i loro schermi sul tavolo. Iniziarono a giocare narcotizzando le rispettive emozioni nelle rispettive partite.
«Vedo che ci state dando sotto con lo studio.» Era suo padre. Non l'aveva sentito arrivare e ora era lì in piedi davanti a loro. Lui e Peter bloccarono la partita rivolgendogli lo sguardo. Fu l'amico il primo a parlare.
«Buongiorno, signor Donati. Non l'abbiamo sentita arrivare.»
«Me ne sono accorto.» Sorrise l'uomo.
Luca notò la sua aria accigliata e pensò che fosse per la mamma. A volte temeva che la sua presenza gli scatenasse troppi tristi ricordi. Ma scacciò via il pensiero.
«Che avete preso?»
E proprio in quel momento il tavolo si aprì per far comparire dal basso un vassoio con i gelati richiesti. I ragazzi si guardarono intimiditi, poi Lorenzo aggiunse: «Bella idea. Ne voglio uno anche io con gli stessi gusti. Posso ancora permetterlo per oggi». Buttò un occhio sui parametri della Smart Band. «Dino, aggiungi un altro gelato con gli stessi gusti.»
«Ordinazione aggiunta» esclamò la voce sintetica del tavolo.
Pochi minuti dopo arrivò l'altra coppetta di gelato e, dopo un paio di scambio di convenevoli sulle lezioni, il padre andò dritto al punto che gli premeva.
«Luca, ho saputo della tua esclusione dal torneo. Sapevo quanto ci tenevi. Lavoraci su ancora e vedrai che la prossima volta andrà meglio.»
Probabilmente era stata la professoressa Rosa a comunicarglielo. In certi momenti avrebbe preferito che fosse meno impicciona. Voleva essere lasciato in pace. Adesso si sarebbe sorbito un monologo. Decise che non ne aveva voglia e contrattaccò.
«Sì, lo so. No pain, no gain. Se stavolta è andata male significa che la prossima potrà andare meglio. Adesso mi dirai che devo migliorare dell'1% ogni settimana e così in poche settimane sarò migliorato di almeno un 10%.» Il tono che aveva usato era stato troppo rude e un po' se ne pentì.
«Vedo che la teoria la conosci. Spero che almeno tu ci creda un po' perché quello che ti chiedo è un miglioramento per te. Fallo soprattutto se credi che durante un simile evento tu possa trarre degli insegnamenti su nuove tecniche di gioco o farti crescere come persona.»
«Sì, sì. Però adesso mangiamo» tagliò corto Luca. E pensò che con il padre fosse sempre la stessa storia. A lui poi erano serviti quegli insegnamenti? Cosa ne aveva tratto?
Terminarono il loro gelato in silenzio.
«Io torno in ufficio per un nuovo caso. Alla prossima. Salutami i tuoi, Peter» aggiunse rapidamente Lorenzo mentre si alzava.
«Arrivederci, signor Donati.»
«Ciao, papà. Ci vediamo stasera.»
«Stasera si mangia giapponese, ricorda.» Lo vide alzarsi dopo aver pagato il conto poggiando un dito al centro del tavolo.
«Ok. Va bene. Mi ero scordato che oggi è il martedì del sushi.» Luca osservò il padre incassare la risposta, voltarsi e allontanarsi per uscire dal locale.
Avrebbe dovuto chiedergli del lavoro o di come si sentiva. Si disse che era stato egoista. Poi scrollò le spalle perché il padre l'avrebbe capito.

Un caso particolare
Lorenzo si diresse all'auto dopo aver lasciato il figlio e l'amico al bar. Portò una mano all'orecchio e con il dito destro sfiorò l'auricolare: «Ho parlato con Luca e lo farò anche stasera. Grazie per avermi avvertito tempestivamente, Rosa. Grazie anche per esserci».
Meno male che la professoressa teneva veramente ai suoi alunni, pensò.
Lui doveva essere ancora più vicino a Luca perché quell'esclusione era un'ulteriore tegola sul suo morale. Giunse alla 500e di servizio che, emettendo un beep al suo avvicinarsi, gli aprì la portiera per farlo sedere. Lui si piegò, chiese di andare all'ospedale e si sedette. L'auto si mosse e lui le chiese di attivare la modalità privacy, si oscurarono tutti i finestrini trasformando il parabrezza in un display di appoggio su cui comparvero i dati dell'ultimo caso che adesso richiedeva la sua attenzione. Sul parabrezza iniziarono a scorrere le info mediche che riassunse in poche parole: incoscienza senza possibilità di risveglio. Il ragazzo era stato trovato la mattina in un vicoletto senza documento digitale, con il chip medico ripulito da qualsiasi identificativo. Indossava un visore per la realtà aumentata con chiave di crittografia a 128 bit modificata ogni 120 minuti e, quindi, praticamente inviolabile per inserirsi e capire cosa stesse succedendo. Indossava una t-shirt bianca, pantaloni di cotone verdi, e dai primi esami medici non risultava nessun segno di violenza. La scena del ritrovamento era stata ripulita da qualcuno che aveva soldi e voglia di cancellare le tracce di ciò che aveva fatto. Le foto e le impronte erano state inserite nelle loro banche dati senza successo. Probabilmente quel ragazzo proveniva da un'altra nazione e ci sarebbero volute ore per identificarlo fra le persone scomparse. Avevano provato a disconnetterlo, ma senza successo. Era come se qualche entità esterna avesse interrotto il collegamento tra mente e corpo.
Lavorava alla polizia cibernetica da venti anni e di casi ne aveva visti tanti: anche quello che stava analizzando nascondeva tante insidie sul futuro delle giovani generazioni. Molte aziende, infatti, oltre che puntare su grafica e realismo avevano cercato di utilizzare i dati raccolti dai dispositivi indossabili per alterare la percezione dei player. Evidentemente qualcuna aveva trovato il modo per farlo, rifletté.
Perso nei suoi pensieri, Lorenzo si accorse di essere arrivato in ospedale solo dal jingle dell'auto e dalla vibrazione sull'orologio. I vetri dell'autoveicolo divennero trasparenti mentre le info sul display si spensero. Aprì lo sportello, scese dall'auto e diede uno sguardo verso l'alto.
Il cielo era terso in quella splendida giornata di primavera. Sarebbe stata la prima senza Ludovica. Respirò a pieni polmoni e quel carico di ossigeno gli arrivò dritto al cervello. Continuò a guardare lassù e la forma stramba di una nuvola gli fece ricordare del gioco “indovina la forma” con cui aveva passato istanti piacevoli con Luca. Il loro rapporto era cambiato nel tempo, soprattutto nell'ultimo periodo. Erano stati isolati dal resto del mondo e il nuovo equilibrio familiare aveva avuto momenti di tensione generati sia dal suo essersi tuffato a capofitto nel lavoro, sia dalla preadolescenza del figlio.
Continuò a pensare a Luca da bambino, alla sua continua necessità nel rendere i genitori partecipi delle sue avventure con robot e Lego. Lui era stato un padre presente e, quando poteva, aveva giocato tanto con lui, ma la maggior parte del tempo Luca l'aveva passato con la mamma. Mentre lui era quello che poteva non esserci per qualche notte, causa pedinamenti o convegni, la mamma era sempre stata presente con la sua dedizione a quell'unico e tanto desiderato figlio. Anche crescendo Luca aveva trovato nella madre un'ancora capace di capirlo e di domare il suo carattere spigoloso e quella volontà di fare le cose solo a modo suo. Adesso che lei non c'era più, quegli spigoli erano più appuntiti che mai e a volte Lorenzo ne rimaneva colpito. Come quando una sera Luca non aveva voluto mangiare con lui senza spiegargli il motivo. Si era chiuso in cameretta nei suoi mondi virtuali. Sapeva che a scuola c'erano stati momenti difficili e aveva dovuto parlare con Peter, di cui si fidava, per sapere se ci fosse un problema specifico. Ma non ve ne era alcuno. Come poteva entrare nel suo mondo, allora? Avrebbe dovuto essere più empatico! Ci avrebbe lavorato ancora, pensò mentre la nuvola che lo aveva distratto si era definitivamente allontanata. Per il figlio sarebbe cambiato dato che, come aveva sempre detto alla moglie, era stato il suo arrivo a farlo diventare l'uomo che era. Calmo, centrato su famiglia e lavoro e con pochi grilli per la testa. Abbassò lo sguardo e fissò l'ingresso dell'ospedale civile dove le porte scorrevoli in alluminio si aprirono e una voce femminile gli diede il buongiorno. Sperò che la giornata migliorasse, anche se temeva il contrario. Uscendo dall'ascensore, gli andò incontro il dottor Gervasi con l'aria incerta di chi sta brancolando nel buio. Notò il suo viso contratto e gli occhi che celavano male dubbi ed elucubrazioni mentali su quanto stava accadendo. Lo accompagnò dove il ragazzo era ricoverato riassumendogli le difficoltà avute in quelle prime ore. Ignoravano il meccanismo che teneva il corpo collegato al visore. Quando raggiunsero la stanza, Lorenzo notò i macchinari e le flebo che tenevano il corpo in vita. Guardando oltre il vetro, ascoltò le parole del medico.
«È come se il visore e la mente fossero collegati direttamente grazie al chip medico che ha tagliato il corpo fuori da questa connessione. Lo scopo del chip medico è quello di immagazzinare input per girarli ai server centrali degli ospedali e non ci dovrebbe essere nessun segnale di ritorno con il corpo. Nessun collegamento diretto potrebbe avvenire. È come se qualcuno o qualcosa avesse potenziato il chip medico per fornire output al corpo e il segnale fra visore e chip avesse messo fuori uso il collegamento tra mente e corpo. La mente è convinta di essere collegata a un corpo che non è quello fisico ma quello virtuale che il visore gli proietta. Abbiamo anche provato a interfacciarci con il visore ma il suo sistema di sicurezza è troppo avanzato e, essendo privo di codice produttore, non possiamo risalire alla casa madre.»
Lorenzo guardò sorpreso il medico e capì la sua preoccupazione. Provò a sintetizzare quanto gli aveva appena detto: «In sintesi abbiamo un hacker che ha collegato direttamente chip medico e cervello ingannando quest'ultimo».
«Esatto. Con un segnale così forte e protetto che impedisce di inserirci per disconnetterli» aggiunse il medico. «La situazione fisica è stabile, mentre l'attività celebrale alterna momenti tipici delle fasi di sonno profonde ad altre molto attive, dove i battiti si accelerano e gli impulsi del cervello hanno gli stessi picchi di quando si è svegli. Comunque adesso l'abbiamo sedato ed è sotto controllo, anche se volevamo proseguire con gli accertamenti, fare una TAC e delle risonanze, ma non ci siamo riusciti. Quando abbiamo provato a staccare il visore abbiamo avuto un arresto cardiaco.»
Non poterono fare altro che scambiarsi uno sguardo misto fra sorpresa e paura per quello che avevano davanti. Ritornarono a guardare verso l'interno della stanza. Lorenzo iniziò a riflettere su quanto conosceva dei chip medici. Sapeva che i parametri monitorati erano pressione, salute del cuore, misurazione della temperatura, più altri valori relativi agli organi principali sostituibili con quelli rigenerati quali fegato, reni e pancreas. I feedback erano rilevati analizzando ogni ora un micron di sangue, mentre il cuore era monitorato ogni secondo. Il chip era inserito nel polso destro e comunicava “solo” a contatto con una Smart Band. Sconnessi i due dispositivi non c'era modo di accedere al chip.
Allora com'era possibile sfruttarlo per connettere visore e mente? Si chiese mentalmente Lorenzo. Aveva una marea di dubbi ma aveva bisogno di stare da solo per avere meglio il quadro della situazione. Aveva bisogno anche di un caffè, ammesso che fosse riuscito a trovarne uno.
«Grazie delle info, dottore. C'è altro che possiamo fare?»
«Abbiamo chiesto ai nostri specialist di capire quali sistemi di reverse engineering sono stati utilizzati per “disconnettere il corpo” e, in base all'identificativo interno del chip, capire a chi appartenesse. Appena abbiamo informazioni, ve le faremo avere.»
«Ok. Intanto cercheremo fra le persone scomparse un eventuale match con il ragazzo di cui ho tutti i dati sul mio pad. Grazie.»
Salutò con una stretta di mano il medico con la percezione che si sarebbe sentito spesso con lui nelle prossime ore.
Il poliziotto si diresse verso il bar dell'ospedale. Nell'ultimo anno aveva maledetto i chip medici perché nonostante monitorassero tanti parametri evitavano quelli su densità e dimensioni dei globuli rossi e, pertanto, erano inefficaci per il rilevamento dei tumori che ne alterano i valori. Ed era stata proprio quella malattia a portargli via sua moglie.
La loro relazione era stata meravigliosa fatta di sincerità e di supporto continuo. Erano sempre pronti a supportarsi a vicenda e il loro amore era stato più forte anche dell'infertilità di coppia che li aveva portati a adottare il piccolo Luca: una gioia che aveva coperto tutti i dolori e le frustrazioni per esami e tentativi di fecondazione andati male e che, molto probabilmente, erano stati la causa scatenante, anni dopo, del tumore che gliel'aveva portata via. I chip medici si erano mostrati inaffidabili. Nel caso del ragazzo, potenzialmente devastanti.
Raggiunse il bar dell'ospedale e si sedette a un tavolino. Prese il suo pad e ricominciò a leggere la cartella clinica del ragazzo.
«Maschio, 12 anni, buona salute. Nessuna patologia in corso e nessun segno di operazioni chirurgiche. Nessuna stranezza e nessun problema neurologico rilevato.» Questo ultimo aspetto era tutt'altro che trascurabile dato che negli ultimi anni era stato registrato un aumento dei problemi neurologici come tic e stati catatonici indotti da troppe ore di gioco con i visori di Virtual Reality. A nulla erano servite le campagne pubblicitarie che invitavano i genitori e i ragazzi ad “andare all'aria aperta” per sentire il profumo della natura. La sicurezza del gioco in casa e il baby-sitting digitale avevano fatto il resto.
Il caso del ragazzo si distingueva dagli altri per la connessione “viva” con il visore. Gli stati catatonici che aveva visto rimanevano anche senza il visore dato che il corpo continuava a essere controllato dal cervello. In certe persone si generavano blackout per le troppe informazioni, quali per esempio luci e cambi di prospettiva all'interno dei videogame stessi, ma non era il caso che aveva davanti. Aprì una schermata di ricerca sul database della polizia. Si era ricordato di un workshop sui bias cognitivi cui aveva partecipato senza voglia perché avvenuto un mese dopo la morte di Ludovica.
Trovò in pochi secondi quanto cercava e si rilesse i suoi appunti. Alcune applicazioni sfruttavano il collegamento bluetooth tra visore e Smart Band per modificare gli eventi del gioco facendo leva su battiti, temperatura e movimenti dei player per creare dei collegamenti che potevano spingere il giocatore a comprare determinati prodotti fuori dal mondo virtuale. Per esempio, se in una scena di combattimento si inserisce una scritta o un logo e lo si fa anche in quelle successive il cervello si abitua a quel simbolo o a quelle parole e ne scaturisce la facilità di acquisto quando ci si imbatte in una vetrina o in uno scaffale che le contiene. Erano meccanismi comunicativi legali ma che, in certi casi, avevano portato a scoprire backdoor nelle Smart Band con cui le app avevano provato ad alterare i segnali del cervello per rafforzare il segnale di acquisto.
«Qualcuno c'è riuscito, alla fine» esclamò sottovoce. Ormai quello che era un dubbio iniziale era diventato una certezza.
L'unicità del ragazzo era che il cervello continuava a funzionare solo con il visore indossato. Dovevano riuscire a inserirsi nel dispositivo per capire cosa stesse trasmettendo e quale realtà stesse vivendo quel cervello. Capire quali meccanismi erano stati instaurati avrebbe aiutato a ripristinare il collegamento corretto con il corpo. Questa era la strada che avrebbe percorso, ma ancora ignorava il come. 
Un'occasione
Luca era sul letto con la pancia all'insù e le braccia conserte; guardava sul soffitto un video in cui aveva sei anni e giocava con la mamma. Quei video lo rilassavano perché risentiva le emozioni di quella età dove i problemi riguardano solo o giochi rotti o i compiti da fare. La voce della mamma, poi, riusciva a calmarlo. Lei riusciva a tranquillizzarlo e a fargli affrontare le avversità della vita: amici rissosi, troppi compiti e professori rompiscatole.
Mi manchi, mamma, pensò. In quel momento avrebbe voluto parlarle o magari starle vicino mentre cucinavano. Lui a tagliare le verdure e lei a “volare” tra pentole e padelle come solo lei sapeva fare. E in quei momenti parlare era rilassante: la mente si rasserenava e si lasciava andare a chiacchiere. Quanti ingenui segreti adolescenziali gli aveva rivelato!
Beep, beep. Sullo schermo virtuale comparve la foto del profilo della professoressa Rosa.
«Mi vorrà consolare.» Per un momento pensò di non rispondere anche se alla fine lo fece.
«Ciao Luca, scusami il disturbo ma ti contatto per una buona notizia: si è liberato un posto. Maurizio non può venire perché gli è salita la febbre e tu eri il prossimo sulla lista.»
Osservava sorpreso il viso paffuto e dolce della professoressa. I suoi occhi corvini erano visibilmente contenti di dargli quella notizia. Luca si mise a sedere e il display si materializzò sul pad che aveva sul comodino.
«Wow. Non ci posso credere. Vuoi dire che tra due giorni potrò venire alla convention?»
«Sì, se vuoi e se tuo padre è d'accordo.»
«Io voglio.» Si fermò a pensare un attimo e poi disse:
«Non credo che papà abbia controindicazioni a riguardo». «Va bene. Mandami un messaggio di conferma appena puoi.» E chiuse la chiamata.
«Wow!!!» Luca balzò dal letto e fece un salto da terra per la contentezza.  
Si gioca
La convention Videogame Expo Center era alla sua decima edizione e, come per tutte le edizioni decimali, gli organizzatori avevano deciso di fare le cose in grande. Avevano limitato l'accesso ai produttori di software e di hardware imponendo stand più grandi e demo live a chi volesse partecipare. Non erano mancate polemiche, ma le sei aziende più grandi al mondo avevano raccolto la sfida e accettato, di buon grado, di dimostrare quanto fossero brave a fare quello che facevano.
Tra queste non poteva mancare la Sintek, che ormai da svariati anni scatenava l'attesa dei player con claim pubblicitari sui social relativi alla nuova console e le sue capacità di generare e di gestire open world fotorealistici. Per dimostrare quanto quest'anno fosse veramente vicina alla messa in produzione della sua ultima creatura, aveva costruito uno stand enorme che occupava più della metà del padiglione ovest della fiera. Alle altre aziende erano rimaste solo le briciole e lo spazio espositivo est più piccolo e meno frequentato.
Quando i quattro ragazzi varcarono l'ingresso nel padiglione rimasero esterrefatti, tanto che la professoressa Rosa dovette spingerli a muoversi per permettere agli altri visitatori di entrare. In quella calca di persone li avrebbe tenuti virtualmente d'occhio grazie ai loro braccialetti e al pad che aveva portato con sé. Nonostante tutta la tecnologia, per farsi individuare da lontano, aveva deciso di agganciare al suo zaino un'astina con su una bandiera italiana. Si era detta che in certe occasioni era meglio puntare al vecchio caro analogico.
Spinse, con i gesti delle braccia, i ragazzi che entrarono nel settore ovest dove la Sintek la faceva da padrone con la sua intera line-up: giochi gestionali, sparatutto e online games. Ognuno di loro aveva un ampio spazio e per alcuni videogame come Alone Heroes aveva provveduto a creare una scenografia completa del personaggio principale, un marine senza nome ma con molto coraggio, che stava imbracciando il suo shotgun a canne mozze puntandolo su un alieno a singolo occhio che, con una lunga lingua rossa, gli stava di fronte. Il realismo di quel singolo frame riportato di fronte a loro era incredibile e Rosa vide alcuni ragazzi rabbrividire quando vi passavano davanti. Anche lei ne rimase colpita e deviò il suo sguardo da quella zona.
Un'altra area espositiva era dedicata a Farm Factory dove i giocatori dovevano mandare avanti una fattoria cercando di far quadrare anche i conti. Per attirare l'attenzione degli astanti vi erano cosplay in carne e ossa che, come la controparte virtuale, indossavano costumi succinti utili a tenere “collegati e interessati” i player di tutto il mondo.
In quella calca che attraversava questi stand con gli occhi e bocca spalancati vi era anche Luca. Quanto esposto era meraviglioso e i suoi occhi erano accecati e affascinati dalle luci e dai colori dei personaggi. La sua mandibola restò bloccata soprattutto quando arrivò davanti al palcoscenico allestito per la nuova console di cui si ignorava il nome, ma che avrebbe avuto come gioco allegato un mondo esplorabile chiamato “RealGame”. Il regalo che stava aspettando da anni era in quello stand e sarebbe arrivato sugli scaffali di lì a pochi mesi, dopo una lunga attesa.
Muoveva la testa a destra e sinistra cercando di avere una visuale pulita alla ricerca dell'oggetto del desiderio che, purtroppo, non riusciva a vedere. Come lui, altri ragazzi si erano affollati allo stand della Sintek per gustarsi l'anteprima della loro nuova meraviglia. Erano mesi che i siti internet annunciavano le bellezze di quella console. Anche i più grandi Network internazionali avevano dato largo spazio a quel “giocattolino”, come alcuni media poco specializzati lo avevano definito.
“La nuova dimensione dei videogiochi” annunciavano i vari cartelloni dello stand. In effetti, tutti si aspettavano qualcosa di veramente mai visto. Per arrivare al prodotto finito, infatti, la Sintek aveva impiegato più di quattro anni e centinaia di milioni di euro.
“La simulazione è finita. Vivi il gioco come la vita reale. Solo RealGame te lo consente.” Questi slogan e altri simili veniva continuamente pompati dagli speaker sparsi nell'area espositiva. Luca e i suoi amici li ascoltavano inebetiti. Ognuno di loro rimaneva stupito davanti agli ologrammi, senza riuscire a muovere nessun muscolo del corpo. Solo gli occhi si muovevano all'impazzata per seguire ciò che le immagini trasmettevano.
«Riesci a vedere qualcosa, Nello?» chiese il ragazzo rivolgendo lo sguardo all'amico.
«Nulla, solo un palcoscenico vuoto. Nessun piedistallo con oggetti coperti da lenzuola.»
Il metodo degli oggetti coperti serviva alle aziende per attirare l'attenzione e dimostrare che una versione fisica del prodotto era effettivamente pronta. Le forme che lasciavano intendere i drappi creavano ulteriore hype e suspense, in particolare quando l'addetto scopriva l'oggetto e gli antistanti emettevano grida di gioia mista a stupore.
Lo stand della Sintek aveva un grosso palco centrale con ai lati due stanze al cui interno, molto probabilmente, vi era la nuova console e relativi visori. Sullo sfondo un display curvo trasmetteva le immagini di nuovi mondi virtuali: città medioevali, foreste Maya e un castello. I ragazzi erano affascinati da quelle immagini ad alta risoluzione che contenevano effetti di luce, particellari e di riflessi che potevano tranquillamente essere presi come reali a meno di considerare che, in quel momento, erano su uno schermo. La scenografia di lato allo schermo curvo si aprì e, dalle quinte, un addetto con un badge si diresse verso la folla antistante mostrando sicurezza e un sorriso sornione che fece scomparire annunciando: «Ragazzi, lasciate un po' di spazio. Non vi accalcate troppo. Tra poco ci sarà una dimostrazione live della nostra nuova console. La Sintek ha deciso che alcuni partecipanti estratti a sorte proveranno in esclusiva un livello completo. Per giocare a RealGame dovete prenotarvi. Tra qualche minuto, dirigetevi verso il retro di questo palcoscenico, troverete 14 totem che vi consentiranno la prenotazione per tentare la sorte. Purtroppo, avrete solo dieci minuti. Alla fine dei quali avverrà l'estrazione dei fortunati».
Il delegato della ditta ritornò dentro. Poco dopo una catena a un corridoio laterale fu rimossa e centinaia di ragazzi corsero dentro per prenotarsi. Tra di loro c'era anche Luca: «Sento che sarò uno dei fortunati» diceva fra sé.
I dieci minuti trascorsero molto velocemente. Sul display dietro il palco le immagini si fermarono e furono proiettati i dati delle prenotazioni che, in tutto, furono 586. Sotto al numero partì un countdown di trenta secondi, al termine dei quali sarebbero comparsi i numeri vincenti.
Luca si sguardò intorno, sorrise agli altri che non avevano avuto lo sprint iniziale giusto e non erano riusciti a prenotarsi. Infatti, molti altri erano rimasti irrimediabilmente fuori dal gioco, dati i pochi minuti a disposizione. Il countdown si esaurì e sul display iniziò un susseguirsi di numeri che rimanevano per qualche istante fermi per poi scomparire al fine di aumentare ancora di più l'ansia e le palpitazioni dei partecipanti. Dopo un paio di interminabili secondi, si stabilizzarono tre numeri ordinati in verticale: 486, 139, 573.
Luca rimase per un attimo bloccato. Sotto shock perché il suo desiderio, che qualche giorno prima sembrava svanito, adesso lo avrebbe portato per primo a testare quella meraviglia. Ad alta voce esclamò: «Sono io. Non ci posso credere».
Luca sentiva le forze mancargli. Si riprese mentre gli altri compagni di classe lo guardavano sorpresi, meravigliati e un po' invidiosi.
«Sono felice per te» aggiunse la prof Rosa che lo abbracciò.
Anche gli altri due estratti fecero salti di gioia e tutti e tre salirono sul palco mentre un addetto gli fece segno di mettersi in fila. Luca era il primo della coda e colse l'attesa per guardarsi intorno. Dal palco vedeva le altre centinaia di ragazzi che, meno fortunati di lui, si sarebbero dovuti accontentare dei video su Internet di ciò che lui stava apprestando a provare gratis. Aveva letto tutto quanto disponibile online su quella console. Era formata da una piccola base collegata in wireless a un visore dotato di quattro GPU, ognuna con delle funzioni specifiche, ma la novità era che due di queste erano destinate, in parallelo, a monitorare le funzioni corporee, quali sudorazione, battito cardiaco, encefalogramma e apparato uditivo. Il visore si collegava alla Smart Band con onde radio creando un ponte affinché le sensazioni del gioco si potessero fisicamente ripercuotere lungo il corpo in punti precisi. Questa era la funzionalità che tutti volevano testare. Come avrebbe fatto questa console con il solo visore a trasmettere dei feedback in specifici punti del corpo?
Al solo pensiero Luca sentì le sue pulsazioni aumentare insieme alla sua curiosità.
Un'altra nuova funzionalità era legata ai suoni diffusi mediante conduzione ossea generati da motorini elettrici sulla banda elastica interna al visore stesso.
La Sintek era stata molto selettiva nella diffusione delle notizie e nessun giornalista era stato selezionato per testare in anteprima un prototipo. Alcuni videogiornali avevano, però, diffuso la notizia che 64 androidi tester avevano subito danni ai loro microprocessori a intelligenza artificiale ed era stato necessario una riconfigurazione completa per proseguire. Che cosa sarebbe accaduto a un cervello umano?
Questo forse era il motivo della presentazione fatta scegliendo dei semplici ragazzi che non avevano mai visto e provato il RealGame. Se tutto fosse andato bene, sarebbe stata la dimostrazione che le notizie diffuse erano fake.
Luca si sentì una cavia nelle mani della Sintek ma decise che poteva stare al gioco.
Un signore con t-shirt nera e jeans blu si avvicinò ai ragazzi in fila, seguito da una coda di persone, tra cui uno in giacca e cravatta, che a Luca ricordò un misterioso personaggio di uno sparatutto in soggettiva molto in voga negli anni Novanta, di cui ignorava il nome e la funzione. Infatti, Luca ne fu sorpreso ma si distrasse dalla mano tesa del capofila che si presentò: «Ciao, io sono Enrico. Il capo progetto della console e del mondo virtuale che andrai a provare».
Luca lo guardò negli occhi che gli risposero lasciando trasparire tanta determinazione e intelligenza.
«Io sono Luca. Piacere di conoscerti. Il tuo deve essere un gran bel lavoro, immagino.»
Pensò se quel nome gli dicesse qualcosa ma stranamente non lo associava alle passate console della Sintek e neanche a qualcosa di altri competitor.
«Sì, il più delle volte, ma è quello che ho sempre sognato di fare e, come scoprirai tra poco, con questo nuovo prodotto so di essermi superato e di aver superato le fantasie dei tanti player in giro per il mondo. Questa console è la primogenita di una lunga serie di prodotti che porterà i videogame e la realtà a fondersi.»
«Vedremo» aggiunse velocemente Luca.
Stranamente quel tipo non lo convinceva. Quella determinazione che leggeva nei suoi occhi gli incuteva timore e bloccava la sua loquacità.
«Questo ragazzo è molto appassionato di videogame ed è particolarmente testardo nell'affrontare qualsiasi problema» aggiunse la prof Rosa che aveva chiesto e ottenuto di avvicinarsi a Luca e che, nell'esclamare quelle parole, gli aveva portato una mano sulla spalla per tirarlo a sé, come a volerlo proteggere.
«Allora sei proprio la persona giusta per testare la mia nuova console» concluse Enrico che era passato già oltre per presentarsi al secondo ragazzo.
«Luca, in bocca al lupo e divertiti, mi raccomando. Noi ti guarderemo sui display del palco e faremo il tifo per te» gli disse in maniera sincera la donna guardandolo negli occhi come faceva sua mamma.
«Grazie, prof» aggiunse Luca mentre Rosa si allontanò dal palco per ricongiungersi con il gruppo.
La contentezza di Luca era a un livello incredibilmente alto. Si sentiva in cima al mondo. Era il primo utente del nuovo gioiello dell'intrattenimento interattivo, sentì le gambe di pastafrolla quando entrò nella stanza dove si sarebbe svolto la demo. Era un grande stanzone e sembrava ancora più grande grazie ai vari neon fissati lungo il perimetro. Al centro si trovava la sedia dove convergevano i collegamenti per RealGame. Rimase immobile come uno stoccafisso senza accorgersi delle persone che arrivarono alle sue spalle.
«Ciao, Luca. Dovresti firmare questi documenti. Sai, è una pura formalità» esclamò Enrico mentre il signore di prima in giacca e cravatta gli porgeva un plico. Anche quel signore gli ispirava poca fiducia. Per un momento pensò alle avventure di Pinocchio e credette di essere di fronte al gatto e alla volpe.
«Va bene» esclamò Luca che oramai non stava più nella pelle e, senza rifletterci molto, passò il suo braccialetto identificativo per firmare il documento. Non provò neanche a leggere o a farsi leggere una nota vocale di quel documento fidandosi, proprio come Pinocchio, delle parole dei due lestofanti.
«Adesso puoi provare la nostra meraviglia» esclamò soddisfatto il meschino toccandosi il nodo della cravatta per poi allontanarsi sorridendo. Con quel documento ogni eventuale danno cerebrale che il ragazzo avesse riportato sarebbe stato solo colpa sua, dato che era stato avvertito su ciò cui andava incontro. Almeno così diceva la firma elettronica del ragazzo. Accanto alla sedia c'era solo il visore, mentre della console non vi era traccia.
«Stai cercando la console?» Enrico era ancora lì vicino e aveva notato il suo sguardo vagare intorno alla poltrona alla ricerca di qualcosa.
«Sì, vero. Immagino non sia qui.»
«È dovunque. Abbiamo creato una console che si appoggia alle reti WiFi pubbliche e private disponibili e, quindi, trasmette i dati in streaming dovunque tu sia. Ciò significa che puoi giocare in qualsiasi luogo con il tuo account e il tuo visore.»
«E per la grafica?»
«È tutto caricato nel cloud e gestito dal visore. La console esiste, ed è molto potente, ma è stata collegata direttamente ai server e, tutti i giochi sono caricati e distribuiti in streaming anche nella parte che un tempo dipendeva dalla console o dal computer su cui si faceva girare.»
«Cavolo. Una console distribuita!»
«Ottima sintesi. Ha ragione la tua prof! Sei un ragazzo sveglio. Magari ti terremo d'occhio e se vorrai potrai unirti a noi quando terminerai la scuola» concluse Enrico.
Nel mentre, la postazione era stata approntata. Luca indossò il visore che si autoregolò emettendo dei semplici squeeze e facendogli sentire una lieve pressione, sulla fronte, e, sulla parte posteriore del collo, una sorta di puntura che gli diede più fastidio che dolore.
I tecnici della Sintek seduti a una scrivania in un angolo della stanza erano stati raggiunti da Enrico e insieme analizzarono i dati che tutta la sensoristica inserita nel visore gli stava ritornando sullo schermo al plasma posto davanti a loro. Tutto era nella norma. Il ragazzo poteva iniziare la prova.
«Che tipo di gioco ti piace?» chiese Enrico e il suono arrivò diretto e pulito nelle orecchie di Luca come se l'interlocutore fosse a due centimetri da lui.
«Gli sparatutto, il mio preferito è Alone Heros II» rispose un po' impacciato Luca.
«Sei fortunato, abbiamo generato qualcosa di simile, scritto appositamente per il mondo virtuale di RealGame. Ti sentirai a casa, e non solo in senso letterale» esclamò sorridendo Enrico che aggiunse: «Sei pronto?».
«Sì» esclamò Luca con un tono di voce abbastanza forte. Nel visore comparve un menù e lui cliccò il pulsante “start” alzando la mano destra e muovendo in avanti l'indice.
In the game
Si risvegliò. Le gocce di pioggia gli avevano inzuppato i vestiti. Si alzò a fatica dalla panchina. I muscoli erano a pezzi. A ogni minimo movimento provava un dolore atroce. Si mise in piedi. E si guardò attorno. Era in un parco. Intorno vi erano altre panchine uguali a quella da cui si era alzato. Quasi tutte le panchine erano occupate da altre persone che dormivano. Si mosse nella direzione della prima panchina più vicina. A un tratto si fermò. Quella scena sembrava averla già vissuta. E non una sola volta. Cercò di sforzarsi nel ricordare cosa aveva visto precedentemente.
La testa sembrava scoppiargli. Il suo corpo rifiutava ogni sforzo. Anche quello mentale ma riuscì a ricavare qualche flash. Si ricordava di aver camminato e, poi, corso. A un tratto i suoi flash s'interrompevano su un prato. Si guardò intorno. Il prato era un po' oltre le panchine. Sullo sfondo, dei grossi alberi. Forse pini. Non riusciva a vederli bene. Sembravano come sfocati. Si diresse verso il prato. Man mano che si spostava il dolore aumentava. Giunto in quello spiazzo ebbe un altro flash. Un vento forte lo aveva sbattuto in aria. Poi, più nulla. Ancora una volta, vuoto. Quando sforzava la mente, il dolore alla testa aumentava esponenzialmente. Doveva resistere. Doveva capire cosa stesse succedendo. Doveva andarsene da lì. Dovunque fosse.
Iniziò di nuovo a correre. Anche stavolta un vento improvviso gli arrivò da dietro, ma stavolta non lo trovò indifeso. Si raggomitolò a terra e aspettò che il vento passasse. Infatti, dopo poco il vento cessò. Si alzò e continuò a correre. I pini sembravano irraggiungibili. A un tratto notò qualcosa sul prato. Sembrava un tombino delle fogne. Ma cosa ci faceva una cosa del genere in mezzo all'erba? Mosso dalla curiosità s'ingegno ad aprirlo. Si guardò intorno e vide un piede di porco. Sembrava lì pronto ad aspettarlo. Il fatto per il momento non lo sorprese. Riflettendoci a freddo avrebbe trovato tutto fin troppo semplice. Si diresse verso il tombino. Con molta fatica riuscì a fare leva e a scostare il coperchio. Quando lo ebbe spostato a sufficienza, aveva il fiatone. Qualsiasi attività fisica lo sfiancava. Ma a cosa era dovuta tutta quella stanchezza?
Osservò ciò che aveva scoperto. Una scala che portava giù. Sicuramente alle fogne, pensò. Decise di scendere. Ormai era deciso a sapere. La scala non era lunga più di cinque metri. Iniziò a scendere e, nel momento in cui aveva preso confidenza, un piede andò a vuoto: mancava un appoggio. Il ragazzo se ne accorse troppo tardi e cadde a terra svenuto. Il tonfo fu così forte che echeggiò in tutte le gallerie della fogna.
Quando si risvegliò aveva le gambe doloranti. Sentiva la testa pulsare. Riusciva a malapena a muoversi e aveva gli occhi pesanti. Scrollò la testa e cercò di riprendersi. Si sforzò di riaprire le palpebre che proprio non ne volevano sapere. Alla fine, si appoggiò sui gomiti sollevando leggermente il busto per guardarsi attorno. Era tutto buio.
Cercò di rialzarsi. Scavò nel suo corpo stanco per trovare un po' di energie. E ci riuscì. Ma per andare dove? Si ricordò perché era in quell'antro buio ma nient'altro. Come era finito in quel posto desolato? E chi erano tutte quelle persone. La sua mente stava ritornando a funzionare. Questo lo faceva sentire meglio. Si stiracchiò al meglio i muscoli e guardò in alto. Vide la botola con a fianco la scala dalla quale era sceso. Notò l'ultimo gradino rotto.
«Non sto mai attento quando faccio una cosa!» si rimproverò.
Comunque ciò aveva poca importanza, si disse. Doveva capire dove stava e doveva farlo presto. Quella situazione iniziava a farsi troppo pesante e nello stesso tempo curiosamente intrigante.
A tentoni cercò la parete e quando la trovò si appoggiò a essa. Sfruttando tale appoggio si diresse lungo il muro.
Solo a quel punto notò che sul pavimento c'era dell'acqua e che aveva i vestiti tutti inzuppati: sentiva solo un leggero freddo. Ciò accresceva la sua curiosità. Non curante dell'acqua e di avere i vestiti tutti bagnati si diresse lungo la direzione che gli sembrava d'istinto quella giusta. Doveva solo sperare che fosse così.
Dopo più di cinque minuti scorse in lontananza una luce. Quella camminata lo stava distruggendo. Ma perché era così stanco? Trovò le forze per seguire quella luce. Man mano che vi si avvicinava diventava sempre più forte. Forse, aveva trovato la via d'uscita. Sì, ma dove si trovava?
Avvicinandosi scorse quello che gli sembrava essere il cielo. Tutt'intorno vi erano dei massi. Quando fu nei pressi dell'uscita capì di trovarsi in un'ampia landa coperta di pietre e di erba incolta. Uscì alla luce e i suoi occhi protestarono. Dovette fermarsi e sedersi. Quando i suoi occhi si ripresero dal passaggio buio-luce, il ragazzo ebbe modo di guardarsi intorno. Non c'era nulla di vivo. Quella landa non presentava segni di vita. Il sole troneggiava alto nel cielo e l'aria era caldissima. A fatica riuscì ad alzarsi e si spostò più avanti per vedere da dove era uscito. Il tunnel che lo aveva portato fin là era ricavato dentro una collina e sulla collina scorse quella che a prima vista gli sembrava un casolare. Doveva solo capire come arrivarci.
Speriamo che ci sia qualcuno che mi spieghi qualcosa, pensò tra sé il ragazzo.
Lentamente si diresse verso quella costruzione. Sperava veramente che ci fosse qualcuno lì dentro che lo potesse aiutare. La strada fuori dal tunnel circumnavigava la collina. Era una strada piena di ciottoli con intorno solo erbacce. Stentava a camminare. Quella strada contribuiva a fargli sentire i dolori che non erano ancora passati del tutto. Ma doveva farcela. Man mano che proseguiva riusciva a vedere meglio ciò che vi era in cima. I contorni apparivano ancora confusi anche se intravedeva dei merli su quelle che erano pareti perimetrali e negli angoli delle torri anch'esse merlate. Non riusciva a capire bene la forma di quello che sembrava essere un castello perché la strada, oltre a essere leggermente in salita, lo costringeva a dei zig-zag. A fatica affrettò il passo. A un tratto qualcosa di lucente attirò la sua attenzione. Si fermò per scorgere meglio l'oggetto della sua attenzione. Era un cacciavite a punta piatta.
Decise di raccoglierlo senza pensarci su. Quando entrò in contatto con il manico sentì il peso dell'utensile e girandolo fra le mani ne notò l'impugnatura in legno e il gambo più lungo della sua mano. Quando lo toccò con il dito ne sentì la superficie fredda e ruvida dovuta alla ruggine che lo ricopriva. Guardò quell'oggetto ancora una volta chiedendo a cosa potesse mai servigli in quella landa desolata. Decise comunque di tenerlo e lo inserì fra i pantaloni e la maglietta, sentendo il volume del manico premere nella zona lombare della schiena. Alzò lo sguardo verso l'alto. Da dov'era, riusciva a vedere i tre quarti del castello che sovrastava la collina e che ora gli appariva veramente enorme. Strano che non lo avesse notato prima. Si guardò indietro a osservare la strada percorsa che non gli sembrò poi né così tanta né così in basso. Inoltre, com'era possibile che dal parco dove si era svegliato non aveva notato quella fortezza sullo sfondo? A ogni modo decise di proseguire.
Dopotutto, non era l'unica stranezza di quel luogo.
Il sole era ancora alto. Quella camminata lo stava stancando ancora di più di quanto già non lo fosse. In compenso i vestiti erano asciutti. Riprese il suo cammino e dopo un po' arrivò sullo spiazzo davanti a un'alta parete in mattoni grigi irregolari. Si accorse che aveva di fronte un muro di cinta con andamento poco lineare che terminava, sulla parte superiore, con dei merli e lateralmente, da come poteva vedere, con delle torri, anch'esse merlate, un po' più alte delle mura e probabilmente quadrate. Purtroppo, ciò che aveva di fronte era privo di una qualsiasi apertura o varco.
«Che fortuna! L'ingresso si trova dall'altra parte! Oggi è proprio il mio giorno fortunato.»
Così dicendo si incamminò verso destra sperando di aver scelto il lato fortunato cioè quello con un portone di ingresso. A un tratto sentì un rumore sordo. Capì troppo tardi che era un dardo che fortunatamente lo mancò di un soffio.
«Cristo santo, ma che razza di accoglienza è?»
Si tuffò letteralmente verso il muro più vicino sentendo i muscoli protestare. Ci si spiaccicò contro come un manifesto e restò in silenzio ad ascoltare. L'unica cosa che sentiva era il suo respiro affannato e il suo cuore che andava all'impazzata. Le gambe gli dolevano in modo incredibile, ma era salvo. Almeno questo era quello che gli sembrava.
«Dove credi di fuggire, bastardo!» ruggì una voce dall'alto.
QUALCHE CAPITOLO DOPO
Il duello
Le due squadre ad aver avuto accesso alla giostra finale furono quella di Luca e quella di Guilty che, nel secondo stage, aveva guidato con rabbia e ferocia la sua squadra verso una netta vittoria. Adesso toccava a loro due lottare nella giostra. I soliti scagnozzi con la testa da maiale rientrarono nell'arena. Si avvicinarono alla tribuna dove sedevano le squadre e, con i gesti delle mani, intimarono a tutti di uscire per farli assembrare davanti a loro. In maniera perentoria dissero a tutti i componenti delle altre squadre di uscire, tranne i duellanti. Luca si alzò dal suo cubicolo. Le forze gli erano ritornate, nessun dolore alla testa. Chissà cosa era accaduto, forse era successo qualcosa al suo corpo reale. Non aveva modo di scoprirlo per cui tanto valeva continuare il torneo. Prima di alzarsi, guardò Giulio e Silvia e, per rassicurarli che stesse bene, gli fece il pollice verso senza dire una parola. I due si guardarono e si alzarono per accompagnarlo nell'arena ed essergli vicini durante il duello. I tre videro i maiali pararsi davanti, alzando le mani verso gli amici di Luca.
«Non se ne parla nemmeno. I miei amici restano con me» disse il ragazzo in maniera decisa. Uno dei tre s'incamminò verso di lui ma poi Guilty lo intercettò fermandolo, gli disse qualcosa nell'orecchio sinistro che li fece sorridere. Lo scagnozzo si voltò, tornò indietro e intimò a tutti gli altri di seguirlo senza fare storie.
Luca rimase con i suoi amici e Guilty. Si guardarono con rabbia ma non andarono oltre. Poi il mostro andò a scegliere armi e cavallo. Lo avrebbe dovuto fare anche lui.
Si diresse verso i cavalli approfittando del fatto che Guilty era andato dal lato opposto. Si ricordò che nella realtà la scelta del destriero nei duelli era importante quanto le armi. L'animale doveva essere addestrato per tenere il galoppo e seguire il muro divisorio. Giunto in prossimità dell'area di selezione notò come nella simulazione avevano a disposizione due tipologie di cavalli: una veloce ma debole perché priva di protezione metalliche in quanto coperta, nella zona del sottopancia della sella, da drappi in tessuto, la gualdrappa; e una più lenta a causa di leggere protezioni in metallo nella stessa zona. Per entrambe le tipologie la testiera proteggeva la testa e i paraocchi ne garantivano la direzionalità. Fra i due, il ragazzo scelse quello grigio con la gualdrappa. Luca, avendo deciso di indossare le ammaccate piastre del primo round, rifletté che così il peso complessivo fosse ridotto garantendogli una discreta velocità.
«Non vedo né uncini né guarda stanca» disse Luca rivolto agli amici che lo guardarono come un cervo ai bordi della strada quando viene illuminato dai fari.
«Sono dei dispositivi utilizzati per favorire lo spettacolo» aggiunse il ragazzo arrossendo perché gli era sembrato di essere troppo saccente.
«Non ti seguo. È un problema?»
«È un dettaglio superfluo in questo momento. A volte dimentico di essere in un videogioco che, come tale, tende spesso a semplificare alcune dinamiche. È meglio che mi focalizzi sulla scelta della lancia adesso.»
«Ok. Comunque, ne sai più di noi. Quindi lasceremo a te la scelta della lancia» disse Giulio con il sorriso sulle labbra e tutti e tre scoppiarono a ridere generando un brusio fra il pubblico.
Le lance disponibili erano circa una decina di modelli che variavano per dimensione, peso e tipologia di manico, mentre la loro lunghezza era simile e si attestava sui quattro metri facendo alzare di molto la testa dei ragazzi di fronte alla rastrelliera che le conteneva. Ognuna di essa era comunque suddivisibile in tre zone: manico a forma di campana, corpo e punta. La punta erano gli ultimi venti centimetri finali e, per le giostre, la cuspide metallica era sostituita da una sfera dentata in acciaio. Osservando le lance che aveva di fronte Luca fu contrariato e si voltò per un attimo verso gli amici.
Silvia allora gli chiese: «Qualcosa non ti convince?».
Non le rispose subito. Si avvicinò alle lance e ne sollevò un paio guardando meglio il colore del corpo, poi disse: «Sono di abete e non di frassino. Le si riconosce dal colore e dal peso. Quelle di frassino sono molto flessibili e si rompono con l'urto sullo scudo». Si fermò un attimo, poi aggiunse: «Meno male che siamo in un videogioco». E l'aria ritornò più leggera.
Alla fine, ne scelse una con il manico e una spirale blu con uno sfondo bianco.
Dopo le selezioni, Luca si allontanò un attimo per andare a riprendere scudo ed elmo dal cubicolo in tribuna. Era pronto e si voltò verso Guilty che, dopo di lui, stava scegliendo lancia e cavallo. Ed era al secondo giro. Chissà perché era così indeciso. Lo vide sollevare più lance con le sue quattro braccia e, dopo vari tentativi, ne scelse una con impugnatura a doppia campana tutta dipinta di rosso. Lo osservò saltare via veloce dalla parte opposta per selezionare il cavallo. Ne prese uno leggero con la sola gualdrappa rossa decorata con una croce bianca. Come scudo optò per lo scutum, tanto le sue due braccia in più gli sarebbero tornate utile per tenerlo. Mentre Luca osservava Guilty, Giulio e Silvia lo raggiunsero e si strinsero attorno a lui.
«Adesso sto bene, ragazzi» disse Luca rivolto ai due, aveva notato la faccia preoccupata.
«Posso ancora sostituirti se non ti senti in piena forma. Non fare il supereroe» aggiunse Giulio.
«Sto bene. Io non faccio il supereroe, io lo sono!»
Scoppiarono tutti a ridere. E in quel momento passò Guilty che, guardandoli con ferocia, gli mostrò la lancia scelta, la più grande per diametro e certamente la più pesante che poteva tenere anche con due braccia.
«Vuole intimidirci ma avrà pan per focaccia» concluse Luca con poca convinzione dato che aveva ancora ben in mente le capacità di Guilty di lottare come un forsennato.
The Master aveva assistito al torneo con molto gusto e si era meravigliato di come avevano combattuto i ragazzi. Erano riusciti a vincere il primo stage e ora uno di loro avrebbe affrontato la sua creatura. Sperava di vedere un bello scontro e, soprattutto, di capire chi si celasse dietro al risveglio dei ragazzi. Aveva richiamato nell'arena altre sentinelle pronte a segnalare un'anomalia non appena ne vedessero una.
Enrico mostrò il pad a Lorenzo che rimase così colpito e sorpreso da far quasi cadere il dispositivo quando glielo passò fra le mani tremanti. Vedeva l'emozione negli occhi del poliziotto; finalmente poteva osservare il figlio che le sue creature tenevano intrappolato a giocare. Doveva anche sfruttare il momento emozionale.
«Siamo nel mondo virtuale. Grazie ai segnali di ritorno delle nanoparticelle ho intercettato quello di Luca, così da attivare le telecamere in zona.»
Non era certo che Lorenzo avesse seguito quella spiegazione perché lo vide allungare le dita sul display del tablet.
Capiva bene ciò che provava. Osservare l'avatar del proprio figlio e, notandone la somiglianza con la parte reale, aveva sicuramente fatto capire al poliziotto la potenza di quella console, la quale era riuscita a ricostruire, sulla base dei profili social di Luca, un personaggio virtuale vicinissimo alla sua controparte reale. Sicuro di quel pensiero aggiunse: «La ricostruzione dell'avatar può essere di fantasia e a discrezione del giocatore. In questa prima versione, dovendo testare le capability di searching sul web e della loro rielaborazione, abbiamo deciso di far generare avatar quanto più prossimi a quelli reali».
Enrico si aspettava una risposta che non arrivò. Vide la mano di Lorenzo toccare il viso di Luca. Poi il padre alzò la testa per guardare l'altro schermo, quello più grande, che proiettava il vero corpo che, in quell'istante, era solo una scatola contenente un cervello impegnato in un mondo virtuale. Enrico continuò nel suo monologo forzando l'altro a ritornare nella stanza: «Sono impegnati in un torneo nell'arena medioevale del governatore The Master. Nella versione finale, in questa tipologia di torneo, ci saranno spettatori e giocatori. Non puoi immaginare a quante persone piaccia vedere altri player giocare. In questo momento il pubblico è composto solo da personaggi gestiti dalla console».
«Capisco. Possiamo interagire in qualche modo?» Finalmente Lorenzo si era sbloccato e fece un appunto tutt'altro che fuori luogo.
«In qualche modo, esatto. Sapendo dove si trovano possiamo inviare dei messaggi utili alla missione che stanno affrontando e, cosa non trascurabile, far comparire degli oggetti. Riusciremo a staccarli al termine della giostra perché avremo una pausa di pochi decimi di secondo necessari al sistema per il reload delle classifiche. Durante quella finestra ci inseriremo interrompendo il collegamento.»
«Quindi dobbiamo fare concludere questo torneo. Possiamo comunicarlo a mio figlio?»
«Be', sì. Sfrutteremo una tipologia di messaggistica un po' più avanzata rispetto a quelle disponibili nel Medioevo.»
QUALCHE CAPITOLO DOPO
Mightdreamer
Luca si svegliò ancora una volta per la forte sensazione di freddo sulla pelle. Aprì gli occhi e notò di essere su un pavimento in pietra. Sapeva che non esisteva, ma quello che sentiva era veramente il freddo di quel suolo e ciò lo continuava a meravigliare. Alzò prima la testa, poi il busto, mettendosi a sedere per guardarsi intorno. Era in una cella con le pareti di pietra e, a pochi metri da lui, c'erano Silvia e Giulio. Erano ancora addormentati. Sapeva che si sarebbero svegliati di lì a pochi minuti, se non secondi.
Si fermò a pensare a quanto era accaduto. L'intelligenza artificiale della console li aveva storditi e portati lì senza che avessero potuto muovere un dito. Come si sarebbero opposti al suo volere? Dov'era suo padre in quel momento? Aveva ancora la possibilità di comunicare con lui?
Si sentiva come pochi anni prima, quando si perse in un centro commerciale tra le corsie di vestiti. Pochi istanti che gli avevano fatto andare il cuore in gola e salire le lacrime agli occhi. Aveva iniziato a camminare fra le felpe. Poi a correre verso il corridoio centrale, dove aveva sentito la voce del padre che lo aveva richiamato. Quando lo aveva visto, a pochi metri di distanza l'uno dall'altro, gli era corso incontro e lo aveva avvolto con le sue braccia. Anche adesso avrebbe voluto abbracciare il genitore e sentirne la barba delle guance grattargli il viso in un misto fra solletico e dolore.
Ritornò con la mente nella cella. Guardò oltre le sbarre e vide una stanza quadrata spoglia, con le pareti bianche e una sola porta che sembrava un manifesto pubblicitario, per quanto fosse priva di tridimensionalità.
«Credo che siamo in un livello work in progress.» Si voltò verso Giulio che si era svegliato e lo aveva raggiunto nei pressi delle sbarre.
«Sì, lo credo anche io.» Lo fissò negli occhi dopo averlo guardato dal basso verso l'alto. «AI ci ha spogliato di tutto e ci ha rivestito come a inizio gioco.»
«Stavolta io sono vestita come voi.» La voce di Silvia anticipò la sua presenza. Il ragazzo notò che anche lei aveva i pantaloni militari e una maglietta verde scuro con una scritta illeggibile su un'etichetta appiccicata sul petto.
«Bentornati dal mondo dei sogni.» Li interruppe AI.
«Che diavolo vuoi ancora da noi?» replicò secco Luca.
«Qualcosa che sono convinto piacerà anche a voi. A essere sincero, senza di voi mi sentirei anche un po' solo. Inoltre, qualcuno tenterà ancora di salvarvi e ogni volta scopro accessi segreti al mio mondo che posso divertirmi a chiudere.» La voce si fermò di colpo. «Ma che succede?» «Cioè?» dissero all'unisono i ragazzi.
Luca udì un tonfo. Chiuse gli occhi istintivamente. Quando li riaprì, vide le pareti sfarfallare come a scomparire mentre i suoni dell'alfabeto Morse gli arrivarono all'orecchio lasciandolo incredulo. Quello che gli stava dicendo il padre era uno shock. Stava per attivare una God Mode che avrebbe cambiato le sorti del suo rapporto con quell'intelligenza artificiale. Gli avrebbe anche permesso di sconfiggerlo e quindi di svegliarsi? Pochi secondi dopo la fine dei segnali Morse sentì una fitta alla testa che durò pochi istanti. Si guardò le mani da cui sentì partire uno strano formicolio che si espanse in tutto il corpo.
Tra la nebbia che quegli stravolgimenti aveva creato sentì la voce di AI: «Ancora lui. Riconosco la mano. Che bella sorpresa. Un'area nuova con un boss che non conoscevo. Sfortunatamente per me, sembra protetta da una sorta di scudo. Probabilmente un livello in Alpha che non era stato ancora deliberato».
Luca si sentì improvvisamente forte come non mai: «Wow».
Si avvicinò alle sbarre, vi poggiò le mani sopra sentendo il freddo del ferro. Ne strinse la superficie e tirò verso l'esterno piegando tutto come del pongo per bimbi.
«Che significa?» La voce di AI gli sembrava preoccupata.
«Ho appena ricevuto un potenziamento!» aggiunse Luca che scavalcò l'acciaio piegato e uscì. Scattò verso il muro di fronte, ma nel momento in cui poggiò una mano sull'intonaco, un'onda d'urto di una forte esplosione lo investì e lo ributtò all'indietro verso la cella facendogli sbattere la testa sulle sbarre.
Quando si rialzò, si guardò intorno e vide a pochi metri da lui Silvia ma non Giulio. Andò verso Silvia che aiutò a rialzarsi allungandole un braccio.
«Hai visto Giulio?»
«Un attimo fa mi era vicino, poi, dopo l'esplosione, è scomparso.»
«Il vostro amico è la mia assicurazione. Ho approfittato del momento per portarlo via. Vi aspetterà sul monte Garden dopo che mi avrete portato la spada del nuovo livello. Adesso andate.»
Luca e Silvia si guardarono senza riuscire a dire nulla perché la stanza scomparve e si ritrovarono in un prato, di fronte a una foresta.
«Credo che non abbiamo molta scelta» esclamò Silvia con il viso rivolto verso gli alberi.
«Abbiamo sempre una scelta. Noi scegliamo di affrontare i pericoli che verranno per il nostro amico. E quando hai uno scopo vale sempre la pena provarci.» E aggiunse: «Poco prima ho ricevuto un potenziamento i cui limiti non mi sono ancora chiari. Quello che so è che mi sento più veloce e forte. Questi poteri ci faranno comodo quando incontreremo Witchmaker a cui dovremo chiedere in prestito un'arma con cui affrontare AI».
«Tu credi che un prestito sia possibile?»
«Andiamo a scoprirlo.»
Aniello Atripaldi
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