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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
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Writer Officina
Autore: Various Artists
Titolo: Racconti Strani di un'Epoca fa
Genere Horror Soprannaturale
Lettori 455 8 7
Racconti Strani di un'Epoca fa
Il Racconto di un Uomo Morto di Willard E. Hawkins

Il curioso racconto che segue è stato trovato tra i documenti del defunto Dr. John Pedric, noto investigatore del paranormale e autore di opere sull'occulto. Secondo alcuni indizi, sembra che sia stato ottenuto tramite scrittura automatica, come diverse delle sue pubblicazioni. Sfortunatamente, non ci sono registrazioni che confermino questa ipotesi, e nessuno dei medium o degli assistenti che lavorarono con lui nelle sue ricerche ammette di averne conoscenza. È possibile, dato che si diceva che il dottore possedesse alcuni poteri psichici, che sia stato ricevuto da lui stesso. In ogni caso, la mancanza di dati rende il racconto un documento privo di utilità per la “Società per le Ricerche Psichiche”. Viene pubblicato per l'interesse intrinseco o il significato che possa avere. Per quanto riguarda i nomi citati, si può aggiungere che non trovano riscontro negli archivi del Dipartimento della Guerra. Tuttavia, si potrebbe sostenere che siano stati usati intenzionalmente nomi fittizi, sia dal dottore che dall'entità comunicante.

***

Mi chiamavano, quando camminavo sulla terra in un corpo di densa materia, Richard Devaney. Sebbene la mia storia abbia poco a che fare con la guerra, fui ucciso nella seconda battaglia della Marna, il 24 luglio del 1918.

Molte volte, come succedeva spesso a coloro che sentivano l'imminenza quotidiana della morte nelle trincee, avevo immaginato quell'evento nella mia mente e mi ero chiesto come sarebbe stato. Tendevo principalmente a credere nell'estinzione totale dell'essere umano, sia la parte fisica che spirituale. L'idea che io potessi continuare a esistere come creatura separata dal mio corpo vigoroso, ormai privato delle sue facoltà, mi sembrava inconcepibile. Il ciclo della vita attraverso la macchina umana lo avevo paragonato al flusso della benzina nel motore di un'automobile: spegnendo quel flusso, il motore diventava inerte, morto, mentre il fluido che gli aveva dato potenza era di per sé nulla.
E così, devo confessare, fu una sorpresa scoprire che ero morto e, tuttavia, non morto. Non me ne accorsi subito. C'era stato un lampo accecante, poi un attimo di oscurità, la sensazione di cadere... di cadere dentro un abisso profondo.
Dopo un tempo indefinito, mi ritrovai stordito su una collina, verso la cui cresta stavamo avanzando contro il nemico. Pensai di aver perso conoscenza. Eppure, in quel momento, mi sentivo stranamente libero da qualsiasi disagio fisico. Cosa stavo facendo quando quell'istante di oscurità aveva cancellato tutto? Avevo uno scopo, un bersaglio...
All'improvviso, il ricordo mi colpì come un fulmine, e con esso, giunse una fiammata di odio, non verso i cannonieri tedeschi, nascosti nel bosco sopra di noi, ma verso il nemico personale che, ricordai, stavo per uccidere. Era l'opportunità che avevo atteso per giorni e notti interminabili.
Nella formazione aperta, lui stava qualche passo davanti a me. Avanzavamo correndo, poi ci gettavamo a terra e sparavamo. Avevo osservato attentamente, aspettando il momento giusto. Nessuno avrebbe sospettato, con le decine di uomini che cadevano ogni istante sotto il fuoco nemico, che il proiettile che avrebbe posto fine alla vita di Louis Winston provenisse dal fucile di un compagno.
Due volte avevo mirato, ma trattenuto il colpo. Non per esitazione, ma per paura che, nel mio furioso desiderio di vendetta, potessi mancare il colpo letale. Quando sollevai il fucile per la terza volta, lui mi offrì un bersaglio perfetto.
Dio! Quanto lo odiavo! Con le dita impazienti di scagliare l'acciaio verso il suo cuore, mi costrinsi a restare calmo, ad aspettare quel frammento di secondo che mi avrebbe assicurato una mira precisa. Poi, mentre il mio dito premeva con forza il grilletto, arrivò il lampo accecante, quell'attimo di oscurità.

***

A quanto pare, ero rimasto privo di sensi più a lungo di quanto avessi pensato.
Tranne alcune figure che giacevano immobili o si contorcevano in agonia sul campo, il reggimento era avanzato ed era ormai scomparso tra gli alberi in cima alla collina. Con un senso di delusione, mi resi conto che Louis sarebbe stato tra loro.
Frustrato, mi incamminai, spinto ancora da quell'impulso di odio ardente, quando a un certo punto sentii pronunciare il mio nome. Mi voltai, sorpreso, e vidi un uomo con l'elmetto, accovacciato accanto a qualcuno accasciato nell'erba alta. Non mi servì una seconda occhiata per capire che quel qualcuno era il corpo di un soldato. Ma i miei occhi erano puntati solo sull'uomo chinato su di lui. Il destino era stato generoso con me. Era Louis.
All'apparenza, nella sua concentrazione, sembrava non essersi accorto di me. Ed io ne approfittai: con calma, sollevai il fucile e sparai. Il risultato fu sconcertante. Louis non cadde in avanti né alzò lo sguardo al rumore dello sparo. Vagamente, mi chiesi se ci fosse stato davvero un colpo. Avvilito, sentii il desiderio di ucciderlo montare dentro di me con una furia ancor più accentuata. Con il fucile sollevato, corsi verso di lui e, con violenza, colpii la sua testa con il calcio dell'arma. Il colpo gli passò attraverso e Louis rimase immobile; sembrava non lo avessi nemmeno sfiorato. Incredulo e rabbioso, gettai via l'inutile arma e mi avventai su di lui a mani nude, con le dita che si sforzavano di afferrare, strappare e soffocare, ma invece di incontrare carne e ossa solide, anche le mie mani passarono attraverso di lui.
Era un miraggio? Un sogno? Ero impazzito? Sgomento, dimenticando per un momento la mia furia, mi tirai indietro e cercai di affrontare la situazione in modo razionale. Louis era solo una proiezione della mia mente? Un fantasma?
Il mio sguardo cadde sulla figura accanto a lui, alla quale stava singhiozzando parole incoerenti di supplica. Sobbalzai, poi guardai più da vicino. Il corpo senza vita, (perché non c'era dubbio sulla sua condizione, con una ferita sanguinante sul lato della testa, causata da una scheggia) era il mio!
Pian piano, il significato di ciò penetrò nella mia coscienza. Realizzai, allora, che era stato Louis a chiamare il mio nome, che ancora adesso lo stava singhiozzando ripetutamente.
L'ironia della situazione mi colpì nel momento stesso in cui la comprendevo. Io ero morto, ero il fantasma che aveva avuto intenzione di uccidere Louis! Guardai le mie mani, la mia uniforme... mi toccai il corpo. A prima vista, ero altrettanto solido quanto prima che la scheggia mi si conficcasse nella testa. Eppure, quando avevo cercato di afferrare Louis, la mia mano sembrava attraversare solo il vuoto.
Louis era vivo, ed io ero morto!
Questa scoperta, per un po', spense i miei sentimenti verso di lui. Con curiosità distaccata, lo osservai chiudere gli occhi del cadavere, quel corpo che, in qualche modo, era appartenuto a me. Lo vidi cercare nelle tasche e tirare fuori una lettera che avevo scritto proprio quella mattina, una lettera indirizzata a...
Con un'ondata improvvisa di sgomento, mi fiondai in avanti per strappargliela di mano. Non doveva leggere quella lettera! Ancora una volta, mi fu ricordata la mia impalpabilità. Ma Louis non aprì la busta, anche se era sigillata male. Lesse l'indirizzo, la baciò mentre i singhiozzi lo scuotevano e infilò la lettera dentro la sua giacca color kaki.
«Dick! Amico!» esclamò, con voce spezzata. «Il miglior compagno che un uomo possa avere. Come farò a portarle questa notizia?»
Le mie labbra si incurvarono in un sorriso beffardo. Per Louis, ero il suo amico, il suo compagno. Non sospettava minimamente l'odio che nutrivo nei suoi confronti, un odio che covavo sin da quando avevo scoperto in lui un rivale per Velma Roth.
Oh, ero stato astuto! Era la nostra “amicizia disinteressata” che ci rendeva entrambi cari a lei. Un segno di gelosia o di cattiva natura, e avrei perso il paradiso della sua stima, che a quanto pare condividevo con Louis.
Non mi ero mai sentito sicuro del mio posto in quel paradiso. Certo, riuscivo sempre a suscitare una risposta in lei, ma dovevo fare uno sforzo per farlo. Lui, invece, sembrava ottenere il suo interesse senza nemmeno provarci. Erano felici l'una con l'altro e... l'uno nell'altra.
Il nostro rapporto si potrebbe descrivere paragonando lei all'acqua placida di uno stagno, Louis al bacino che la conteneva, e me come il vento che ne increspava la superficie. Sforzandomi, potevo agitare la superficie della sua natura, dando vita a increspature di piacevole eccitazione. Potevo persino scatenare una tempesta nelle sue emozioni. Lei rispondeva allo stimolo del mio desiderio, eppure, in mia assenza, si sistemava comodamente nel conforto pacifico dell'amore costante di Louis.
Sentivo vagamente allora, e ne sono certo ora, con una prospettiva più ampia verso la realtà, che Velma riconoscesse istintivamente Louis come il suo vero compagno, ma temeva di concedersi a lui in tutto e per tutto per via della mia influenza sulla sua natura emotiva. Pensavamo entrambi, ne sono convinto, che la Grande Guerra avrebbe assolto Velma dall'obbligo di scegliere tra noi due. Se l'angoscia scaturita dalla profondità violacea dei suoi occhi, al momento del nostro addio, fosse per lo più per Louis o per me, non potevo dirlo. Dubito che lei stessa avrebbe potuto. Ma nella mia mente c'era la determinazione che solo uno di noi due sarebbe tornato, e non sarebbe stato Louis.
Provavo ripugnanza all'idea di uccidere l'uomo che si frapponeva tra me e ciò che desideravo? Ben poca. Ero un selvaggio nell'animo, un barbaro, il cui desiderio superava qualunque cosa potesse frapporsi al raggiungimento del suo obiettivo. Dal mio punto di vista, sarei stato uno sciocco a lasciar perdere l'occasione.
Perché lo odiassi così tanto? Un semplice ostacolo sulla mia strada, non lo so. Forse era dovuto all'intangibile barriera che la sua presenza avrebbe sempre innalzato tra me e Velma, o forse a un latente senso di amarezza. Ma, al di là delle supposizioni, eccomi qui, in uno stato che il mondo chiama morte, mentre Louis era vivo, libero di tornare a casa, di reclamare Velma, di ostentare il possesso di tutto ciò che per me era prezioso. Era esasperante! Dovevo davvero restare lì, inerte, senza poter fare nulla per impedirlo?

***

Mi sono chiesto, da allora, come ho potuto restare così a lungo in contatto con il mondo materiale. Perché, mi sono chiesto, non mi sono ritrovato subito, o quasi subito, separato dalle visioni e dai suoni terreni, allo stesso modo di come i vivi sono separati dall'aldilà? La questione sembra sia stata determinata dalla mia volontà. Come pesi di piombo, l'invidia per Louis e il desiderio appassionato per Velma trattenevano i miei passi nel mondo della densa materia.
Vendicativo, disperato, ero accanto a Louis e osservavo. Quando infine si allontanò dal mio corpo e, con le lacrime che gli rigavano il viso, cominciò a trascinarsi verso le trincee che avevamo abbandonato, compresi perché non era andato avanti con gli altri fino alla vetta della collina. Anche lui era stato colpito dai cannoni tedeschi.
Camminai accanto ai barellieri quando lo sollevarono e lo trasportarono verso l'ospedale da campo. Durante le settimane che seguirono, rimasi vicino alla sua brandina, osservando i medici che bendavano i tendini lacerati della sua coscia e la sua battaglia estenuante contro la febbre.
Adagiato alle sue spalle, lessi la prima lettera che scrisse a casa per Velma, in cui esprimeva un resoconto tardivo della mia morte, soffermandosi sulla gloria del mio sacrificio.

“Ho spesso pensato che voi due foste fatti l'uno per l'altra,” scrisse, “e che, se non fosse stato per il timore di ferire me, saresti stata sua moglie già da tempo. È stato il miglior amico che un uomo possa mai avere. Se solo fossi morto io!”

Se solo l'avessi saputo, avrei potuto seguire quella lettera attraverso i mari, anzi, avrei potuto perfino superarla e, con un semplice atto di volontà, essere accanto a Velma in un batter d'occhio. Ma la mia ignoranza sulle leggi del nuovo piano era totale. Tutti i miei pensieri erano concentrati su un problema di tutt'altro genere.
Mai attaccamento a un tesoro terreno fu lasciato più a malincuore della mia speranza di possedere Velma. Di certo, la morte non poteva erigere una barriera così assoluta. Doveva esistere un modo, un varco per comunicare, una possibilità per un uomo disincarnato di competere con il suo rivale in carne e ossa per l'amore di una donna.
Lentamente, molto lentamente, cominciò a delinearsi la luce di uno schema. Così flebile era questo barlume che avrebbe a stento confortato qualcuno meno disperato di me, ma ai miei occhi sembrava offrire una speranza possibile. Mi misi quindi a lavorarci metodicamente, con infinita pazienza, sviluppando qualcosa di tangibile, pur avendo solo un'idea molto approssimativa di quale sarebbe stato il risultato.
La prima intuizione mi arrivò quando Louis si era ormai quasi del tutto ristabilito e la febbre ormai passata. Un pomeriggio, mentre dormiva, l'addetto alla posta consegnò una lettera all'infermiera, che si trovava accanto alla sua brandina. Lei la guardò e poi la infilò sotto il suo cuscino.
La lettera era di Velma, ed io ero affamato di conoscere il suo contenuto. Non sapevo allora che avrei potuto leggerla facilmente, anche se sigillata. In preda a un impaziente furore, esclamai: «Ma svegliati, accidenti, e leggi la tua lettera!»
Lui sobbalzò, aprendo gli occhi; si guardò intorno con un'espressione smarrita.
«Sotto il cuscino!» sbuffai. «Guarda sotto il cuscino!»
Con un'espressione confusa, infilò la mano sotto il cuscino e tirò fuori la lettera.
Poche ore dopo, lo sentii raccontare l'accaduto all'infermiera.
«È stato come se qualcosa mi avesse svegliato», disse, «e ho avuto un impulso strano di cercare sotto al cuscino. Era come se sapessi che lì avrei trovato la lettera.»
L'episodio mi colpì tanto quanto aveva colpito lui. Poteva essere una coincidenza, ma decisi di fare un altro tentativo. Dopo una serie di esperimenti, mi convinsi che potevo, anche se in minima parte, imprimere i miei pensieri e la mia volontà su Louis, soprattutto quando era stanco o al confine tra la veglia e il sonno. A volte riuscivo persino a influenzare i suoi pensieri mentre scriveva a Velma.
Una volta, le stava descrivendo una buffa signora francese che visitava l'ospedale con un cesto sempre pieno di sigarette e caramelle.
“L'ultima volta”, scrisse, “è venuta con un ragazzino che si chiamava...”
Si fermò, con la matita sospesa, cercando di ricordare il nome. Un attimo dopo, abbassò lo sguardo sulla pagina e fissò con stupore ciò che c'era scritto. Le parole “che si chiamava Maurice” erano apparse sotto il suo sguardo basito.
«Sto impazzendo», mormorò. «Giurerei di non averlo scritto.»
Alle sue spalle, stavo sfregandomi le mani in trionfo. Era il mio primo tentativo, il mio primo successo, in cui ero riuscito a guidare la matita mentre i suoi pensieri vagavano altrove.
Un'altra volta: “Ultimamente ho la strana sensazione che il caro vecchio Dick sia vicino”, scrisse a Velma. “A volte, quando mi sveglio, mi sembra di ricordare vagamente di averlo visto nei miei sogni. È come se i suoi lineamenti stessero via via svanendo da come lo ricordavo”.
Si fermò su quel punto così a lungo che tentai di nuovo di approfittare della sua distrazione. Con uno sforzo di volontà difficile da spiegare, guidai la sua mano nello scrivere: “Con una caraffa di baci per Winkie, come sempre suo...”
Proprio in quell'attimo, Louis abbassò lo sguardo. «Buon Dio!» esclamò, come se avesse visto un fantasma.

***

Winkie era un nomignolo che avevo dato a Velma quando eravamo bambini. Louis sosteneva sempre che non avesse senso e si rifiutava di usarlo, anche se io continuai a chiamarla così negli anni a venire. E di sua iniziativa, Louis non avrebbe mai usato un'espressione conviviale come una caraffa di baci.
Così, nei lunghi mesi prima che fosse rimandato a casa come invalido, mi tenni occupato.
Quando lasciò la Francia al porto d'imbarco, ancora camminava con le stampelle, ma con la promessa di riacquistare presto l'uso completo della gamba. Durante tutto il viaggio, rimasi vicino a lui, condividendo la sua impazienza e il suo desiderio di rivedere la persona che entrambi amavamo più di ogni altra.
Descriverò brevemente l'esquisito dolore dell'incontro, al quale ero presente, eppure non presente. Più bella che mai, ancor più affascinante con i suoi colori vividi e profondi, Velma, in carne e ossa, era una visione che accendeva il mio desiderio in una fiamma intensa.

Louis zoppicava dolorante giù per la passerella. Quando si incontrarono, lei posò la testa in silenzio sulla sua spalla per un momento; poi, con gli occhi pieni di lacrime, lo aiutò con la tenerezza di una madre a raggiungere l'auto che era in attesa.
Due mesi dopo, si sposarono. Ho sofferto meno di quanto avrei creduto, se ciò non fosse stato essenziale per il mio piano.
Qualunque vaga speranza potrei aver avuto, tuttavia, di godere vicariamente dei piaceri dell'amore, fu delusa. Non potrei spiegare il perché, sapevo solo che qualcosa mi impediva di intrufolarmi nelle sacre intimità della loro vita, come se una parete difensiva fosse stata eretta tra me e loro. Era frustrante, ma una realtà molto presente, alla quale fu inutile oppormi. Ne presi atto da allora, ma poco importava. Questo non influiva sul mio scopo, che dipendeva dalla capacità che stavo acquisendo di influenzare i pensieri e le azioni di Louis, di prendere parzialmente il controllo delle sue facoltà.

La sua nuova occupazione lavorativa, limitata nella scelta a causa della gamba irrigidita, mi aiutava decisamente. Spesso, dopo un turno interminabile in banca, tornava a casa la sera con il cervello così stanco e intorpidito che mi era facile imprimere la mia volontà su di lui. Ogni tentativo riuscito, inoltre, rendeva il prossimo ancora più facile.
L'inevitabile conseguenza fu che, col tempo, Velma cominciò a notare le sue aberrazioni e a manifestare preoccupazione. Una mattina gli chiese: «Perché ieri sera, quando sei rientrato, mi hai detto “C'è un caprone blu sulle scale, vorrei che lo cacciassero via”?»
Lui abbassò lo sguardo sulla la tovaglia, vergognandosi.
«Non so cosa mi abbia spinto a dirlo. Sembrava come se volessi dirlo a tutti i costi, e quello era l'unico modo per togliermelo dalla testa. Pensavo che l'avresti preso come uno scherzo.» Si mosse, come se cercasse di scrollarsi di dosso un peso scomodo.
«Ed è stata la stessa cosa che ti ha fatto indossare una cravatta a letto?» chiese lei, ironica.
Lui annuì. «Sapevo che era una stupidaggine, ma l'idea continuava a frullarmi in testa. Sembrava che l'unico modo per riuscire a dormire fosse cedere a quest'idea. Non ho queste stranezze a meno che non sia molto stanco.»
Lei non disse più nulla al momento, ma quella sera affrontò l'argomento di cercare un impiego meno sedentario, un argomento a cui tornò sempre più spesso. Poi ci fu uno sviluppo che mi sorprese e mi eccitò al tempo stesso.
Una sera, esausto, prosciugato fino all'ultima goccia della sua energia, Louis stava tornando dal lavoro, piuttosto tardi, dopo il solito straordinario di fine mese. Mentre si dirigeva alla fermata del tram, incombevo su di lui, domando la sua personalità, tenendola sotto controllo, con lo sforzo di volontà che avevo imparato a padroneggiare. Il processo può essere spiegato in modo rozzo: era come se mi azzuffassi con lui, a volte con successo, per il possesso del volante dell'auto umana che lui guidava.
Velma lo stava aspettando e lo sentì arrivare. Quando i piedi di Louis varcarono la soglia del loro appartamento, lei aprì la porta, afferrò le sue mani e lo trascinò dentro. A quel gesto, provai un'emozione inspiegabile. Era come se qualche cambiamento straordinario fosse avvenuto in me. E poi, quando incrociai il suo sguardo, capii cos'era realmente successo.
Tenevo le sue mani in un contatto reale di carne e sangue. La stavo guardando con gli occhi di Louis!

***

Lo shock mi fece perdere ciò che avevo conquistato; sentii la personalità che avevo sottomesso riprendere il controllo. Un istante dopo, Louis fissava Velma con aria smarrita e, al contempo, vedeva il suo sguardo allarmato.
Lei ritrasse le mani che io avevo quasi schiacciato. «Mi... mi hai spaventata!» sussurrò. «Louis, caro... non guardarmi mai più in quel modo!»
Posso solo immaginare l'intensità divorante dello sguardo che dev'essere esploso da quei tratti, in quell'attimo in cui mi appartenevano. Da quel momento, i miei piani presero rapidamente forma. Si prospettavano due vie d'azione. Alla prima, la più allettante, tuttavia, fui costretto a rinunciarci. Non era altro che il folle sogno di ottenere il possesso esclusivo del corpo di Louis, renderlo inerme, costringerlo a ritirarsi e prendere il posto secondario che io avevo occupato.
Nonostante i progressi fatti, questo si rivelò estremamente difficile. Da un lato, sembrava che esistesse un'affinità tra il corpo di Louis e la sua personalità, che mi costringeva a uscire quando era moderatamente riposato. Questa condizione avrei forse potuto indebolirla, ma c'erano altri fattori. Uno di questi era la crescente convinzione da parte sua che qualcosa fosse radicalmente sbagliato. Grazie alla facoltà che avevo scoperto di mettermi in relazione con lui e di leggere i suoi pensieri, sapevo che a volte temeva di impazzire.
Una volta ebbi l'esperienza di accompagnarlo da uno psicanalista, e lì, come la proverbiale mosca sul muro, udii il medico assegnare ai miei sforzi termini scientifici come “doppia personalità”, “amnesia” e “mente subconscia”, mentre io ridevo, per così dire, sotto i miei spettrali baffi. Consigliò a Louis di prendersi un periodo di riposo e, se possibile, di andare in campagna per ristabilirsi fisicamente, cosa che io avrei voluto invece evitare a tutti i costi. Non avrei potuto fare la parte di Mr. Hyde contro il suo Dr. Jekyll se Louis avesse mantenuto la sua normale vitalità.
Anche i timori di Velma, sapevo, si stavano facendo sempre più acuti. Con tutta l'insistenza possibile, senza tradire troppo apertamente la sua preoccupazione, lo spinse a lasciare il posto in banca e a cercare un lavoro all'aria aperta, un lavoro che si sarebbe rivelato meno debilitante per una persona con il suo peculiare temperamento.
L'affaticamento per eccessivo lavoro, a quanto pare, porta la vittima a privarsi della sua iniziativa, rendendola insicura a lasciare la scarsa fonte di sostentamento a cui è aggrappata, per paura di non riuscire a trovarne un'altra. Louis era indebitato, guadagnava a malapena abbastanza per coprire le spese, ed era troppo orgoglioso per permettere a Velma di aiutarlo, come lei avrebbe voluto. La gamba malandata lo metteva in una posizione di svantaggio nel mondo del lavoro. In effetti, si trovava proprio nella situazione che desideravo, ma sapevo che, col tempo, i desideri di lei avrebbero prevalso.
Tuttavia, le circostanze che mi privarono di ogni speranza di usurpare completamente il suo posto furono queste: non potevo, per lungo tempo, sostenere lo sguardo di Velma. La verità personificata, la purezza che vi dimorava, sembrava dissolvere il mio potere, ricacciandomi nella dimensione secondaria che avevo assunto nei confronti di Louis.
A volte era tentato di dirle: “Tu sei il mio unico appiglio alla sanità mentale”.
Sentivo il panico di Louis al pensiero di perderla, all'idea che un giorno lei avrebbe potuto abbandonarlo, disgustata per le sue stranezze, lasciandolo in balìa della cosa informe che lo tormentava.
È curioso... essere del mondo e non esserlo, godere di una prospettiva che rivela il lato nascosto delle cose, così misteriose invece dal lato materiale. Ma avrei dato volentieri tutti i privilegi del mio stato disincarnato per un'ora di compagnia in carne e ossa con Velma. Il mio piano alternativo era questo: se non potevo entrare nel suo mondo, cosa mi impediva di portare Velma nel mio?
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