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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |
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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama
con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi,
attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano
Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di
ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera
(Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime
di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il
purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati
da Einaudi Stile Libero). |
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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria,
si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata
alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice
emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre
Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato
a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus".
Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé,
conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo
libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio
Strega 2021. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |
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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Oltre l'ultima stazione
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Kya.
Perché sono dinanzi a voi, padrone? Strega, pazza, diversa... posseduta dal demonio. Sono la vittima che diventa colpevole, la preda calunniata, la schiava da curare perché si rifiuta di rispettare le regole e tramutarsi nel dettaglio di un'istantanea. Voi credete che io sia la venere nera sottomessa, quella che giace nuda sul letto, in attesa; la pelle scura come unico vestito, il sorriso ingenuo, accondiscendente, il solo ornamento. I miei capelli crespi, intrecciati in una complicata acconciatura non mi proteggono dal fiorire dei vostri desideri violenti. Sono una donna e certamente recito una parte, ma nella mia testa continua a nascere un vortice di colori che mi spinge a muovermi come un'ombra fra fotogrammi interrotti, in cerca dei miei simili, sulle tracce del mio uomo guerriero, per strappare l'immensa fotografia del mondo che mi vuole prigioniera della mia carnagione d'ebano ed essere finalmente me stessa. Non ho io, forse, diritti di nascita? Perché resto muta dinanzi alla vostra frusta, padrone? Ciò che voi non vedete sono le cicatrici della mia identità mutilata, rubata. È facile ignorare quella parte che disprezzate e avete sottomesso con le vostre istituzioni, quella parte che, umiliazione dopo umiliazione, mi avete insegnato a odiare. Sono solo una negra senza dignità e non avrò mai il coraggio di ribellarmi e sfidare l'ordine imposto, è questo che voi pensate? Torbida e perversa, non troverò mai la forza di cancellare il pregiudizio dalla vostra mente immacolata. Questo è il mio corpo: osservatelo e godetelo, punitelo e poi esibitelo. La donna che invece io sono non è di vostra proprietà. Appartengo a me sola. Ciò che non conoscerete mai è il battito che mi obbliga a vivere, un ritmo che nasce dal cuore e mi scuote l'anima come vento che strapazza gli alberi in autunno lasciandoli spogli. Così io canto, e la mia voce è alito di bosco, è brezza del mare che non ho mai visto. La mia canzone infonde energia al tamburo del mio cuore straziato, mentre i miei piedi nudi calcano la terra rossa d'Africa per raccontare una storia di catene. Il suono delle melodie che mi cantava mia madre da bambina mi è entrato nel corpo e, ora che anche la musica è proibita, posso solo lasciare che la mente danzi al ricordo, affinché il pianto si trasformi in soave risata e io possa librarmi sulle note di un mondo nuovo, diverso. “Canta Kya, canta, perché la schiava che canta ha la mente libera...” mi diceva. E io canto.
IRIS VIOLA
In principio era stata una debole speranza, uno di quei sogni fugaci che come foschia del mattino scompare al sorgere del sole, rivelando le forme di sempre. Poi, aveva deciso di dar corpo a quella nebbia, fino a farla diventare un chiodo fisso, un appiglio a cui si era aggrappata con tutta se stessa, come un naufrago approdato disperatamente all'ultimo relitto. Il corpo era stato scoperto in periferia da un turista e forse, proprio per quel motivo, la notizia aveva iniziato a circolare prima di essere insabbiata dal governo. La pelle era chiara, caucasica. Ciò non aveva destato particolare meraviglia, nonostante fosse raro trovare cadavere quello che poteva essere solo un membro della classe governativa, visto che ormai tutte le altre etnie erano asservite al potere bianco dominante. La stranezza era che nel pugno stringeva un fiore. Il poliziotto aveva aperto con cautela la mano, notando una macchia scura e umida. “Meglio non toccare” lo aveva avvertito il collega, ma la curiosità aveva avuto la meglio. Sul palmo era appiccicato un iris dai sinuosi petali viola. I colori intensi e vivi avevano per un attimo stordito entrambi gli uomini in divisa, non certo abituati alla crudezza violenta della vita vegetale. “E questo da dove diavolo viene?” aveva sbottato quello che presumibilmente aveva il comando dell'operazione. L'altro non aveva capito se si riferisse al fiore o all'uomo disteso a terra in posizione innaturale, ma aveva comunque risposto: “Da un luogo dove crescono piante, evidentemente... e chissà cos'altro... non qui dunque, non sulla Terra.” “E se fosse... dal... passato?” aveva aggiunto dopo un attimo di esitazione. Sarebbe incredibile avevano probabilmente pensato entrambi, senza osare proferir parola, i volti contratti in una smorfia di paura. L'idea di poter viaggiare nel tempo si era diffusa come la peggiore delle teorie cospirazioniste che il sistema mirava a sradicare dalla fantasia umana. E questo, di certo non era il primo episodio che aveva dato adito alle voci. Erano stati ritrovati altri tipi di fiori, perfino una ninfea in una zona remota e disabitata dell'Asia, appoggiata su uno specchio d'acqua artificiale, come una nuvola di vapore posata sul nulla, inconsistente al pari dell'ambiente da cui era misteriosamente scaturita, eppure vera. L'angoscia che ispiravano tali sporadici ritrovamenti era uguale al dolore intollerabile di una creatura che muore, decisamente inaccettabile da parte di una società che proibiva qualsiasi forma di emozione legata a inutili ricordi. Ormai non ci si poteva nascondere nemmeno da se stessi e la tecnologia si era sviluppata al punto da assumere una percezione che più di qualcuno definiva divina, o diabolica. Questione di prospettive. “C'è forse differenza?” si era chiesta la donna. Il passaggio esisteva. Di questo era certa. Si trattava solo di trovarlo. Forse conduceva a un'altra dimensione spaziale, non necessariamente temporale, forse apriva una finestra su un altro pianeta simile alla Terra di un tempo, con una fauna e una flora precedenti all'apocalisse che aveva dato origine alla civiltà delle macchine e degli umanoidi. Qualsiasi cosa fosse, Kya lo avrebbe trovato. Quel fiore viola e carnoso, sbocciato da un altrove nascosto, era la chiave della porta verso la libertà.
VENDETTA
Trovò il coraggio di avvicinarlo la sera che li portarono tutti via sulla chiatta. Kyros era in piedi, proprio davanti a lei. Sofferente per le botte subite, a malapena si reggeva sulle gambe. Lo aveva avvicinato di spalle fra i corpi sudati degli altri e aveva premuto forte il petto sulla sua schiena in una muta dichiarazione di passione. Gli aveva preso una mano e lui aveva ricambiato la stretta, evitando di girarsi per non farsi scoprire. I brividi caldi che correvano sulla pelle non potevano mentire. Più tardi, li avevano spinti in una costruzione di bambù dal soffitto talmente basso che avevano dovuto chinarsi per trovare un posto e ripararsi per la notte. C'erano altri uomini e donne che riposavano come potevano accanto a loro, ma Kya non aveva esitato a infilarsi sotto la sua coperta, forse con l'intenzione di spiegargli come evitare la frusta dei sorveglianti o per consolare il dolore e l'umiliazione subiti come avrebbe fatto un'amorevole madre. Tuttavia, ciò che accadde fu molto diverso. Una carezza aveva guidato quella successiva e, quasi senza accorgersi, i corpi si erano fusi in un'unica onda, danzando a un ritmo marino di andate e ritorni, bevendo il respiro l'uno dell'altra fino a infrangersi su una spiaggia sconosciuta a entrambi. Per lui avrebbe ballato ancora e ancora. Avrebbe indossato solo bracciali e collane per adornare il suo corpo nudo da gatta, avrebbe inchiodato gli occhi scuri alla sua pelle speziata, ipnotizzandolo in giochi di luce riflessa dai suoi gioielli, intrecciando i desideri dell'amante passo dopo passo. Come un'onda sinuosa lo avrebbe condotto in un mondo fatto solo di sospiri e contorcimenti, di carezze morbide e profumi proibiti, avvolgendolo in una cascata di treccine fluttuanti. Quella notte Kya non aveva potuto dirgli che era la prima volta che conosceva l'amore, poiché i baci che le avevano risvegliato la pelle, le mani strette ai fianchi non erano quelle sporche e vergognose del sorvegliante. Con quell'essere spregevole la sua anima emigrava dal corpo inerte e volava in un altrove nascosto e protetto, abbandonando sul letto una marionetta di legno senza vita, un pezzo di carne privo di valore. I sorveglianti erano diversi dai padroni bianchi che si stancavano presto delle schiave, passando annoiati dall'una all'altra e rivolgendo la loro perenne insoddisfazione ad accumulare sudditi come fossero oggetti, più che ad accanirsi col singolo. I neri a servizio dei padroni avevano dei privilegi, ma erano di gran lunga peggiori di coloro a cui dovevano rendere conto: uccidevano e torturavano, non tanto per soldi, quanto per frustrazione e sì, anche per passione. Com'era già accaduto in un lontano passato gli schiavi erano costretti a vivere in comunità poligame per fornire manovalanza alla casta bianca dominante, solo che non si trattava più di coltivare la terra o di ridurre la canna da zucchero in sciroppo per accontentare i piantatori, dal momento che fauna e flora avevano lasciato il posto a una desolazione desertica, ma di depredare la Terra della sua ultima ricchezza: l'oro. La tecnologia ingegnerizzata di cui ora si disponeva aveva finito per soggiogare le ultime miti comunità rimaste dopo l'apocalisse nucleare e la seduzione carnale, pratica ributtante ma accettata come prassi, faceva parte del disegno perverso dei dominatori bianchi per destabilizzare quel che restava della popolazione terrestre. Si trattava di una manipolazione che aveva come fine quello di bloccare il potenziale creativo dell'essere umano in modo da monitorare costantemente le scelte e ridurre all'accondiscendenza e alla rassegnazione. Una volta convinti della loro inferiorità, i neri avrebbero finito per chiedere spontaneamente delle leggi per la propria organizzazione e sicurezza, diventando docile materia su cui imprimere il sigillo della schiavitù. Lo scopo finale era quello di ridurre la popolazione a esseri organici che non mettessero in discussione la narrativa ufficiale e non si ponessero alcun tipo di domanda esistenziale, ma che accettassero tutto senza un pensiero critico. Per quel che era dato sapere questa razza era l'unica sopravvissuta alla sete insaziabile di controllo degli usurpatori del potere e, pian piano, si era adattata più o meno consapevolmente al loro sistema oppressivo. Fuori dagli agglomerati urbani si estendeva uno sconfinato deserto di rovine e, forse, in quelle zone remote, i sopravvissuti erano riusciti a organizzarsi, ma non c'erano testimonianze. Dopo gli sconvolgimenti che avevano deturpato il pianeta blu di tutta la sua bellezza erano stati scoperti i resti di una metropoli in una regione dell'Africa meridionale. Migliaia di miglia quadrate di rovine risalenti a un passato di centinaia di migliaia di anni. Gli edifici avevano una forma circolare e indubbiamente erano appartenuti a una comunità altamente sviluppata. Inoltre, la zona presentava grande quantità di miniere d'oro, ma ai padroni contemporanei del pianeta non interessava chiarire il mistero dell'estrazione dell'oro che la storia comunemente accettata non voleva collocare in epoca antecedente al 5000 a.C. Ai nuovi colonialisti l'enigma di questa civiltà avanti di migliaia di anni rispetto a quella che aveva preceduto la fine del mondo non incuriosiva affatto. Ciò che desideravano era l'oro e uomini resistenti al pesante lavoro di estrazione. Per arrivare allo scopo avevano corrotto con droghe, alcol e ogni sorta di miseria umana la volontà dei superstiti. “Siamo esseri umani, non schiavi minatori” avevano protestato più volte i neri, ma ogni rivolta era stata sedata nel sangue. In seguito, il governo aveva deciso di optare per provvedimenti più subdoli: annullare le capacità mentali della popolazione a quel che doveva bastare per eseguire gli ordini. Una spinta sleale e segreta verso obiettivi utili a soddisfare il proprio malvagio tornaconto. Alcuni pezzi grossi si erano dimostrati contrari, ma poi la convenienza e l'ingordigia avevano avuto la meglio e, di recente, erano iniziati gli interventi di ingegneria genetica per sostituire almeno una parte dell'umanità, quella appunto destinata alla forza lavoro. D'altronde, l'oro era di fondamentale importanza per la tecnologia avanzata e le catene parevano l'unico modo di gestire la popolazione mondiale.
Malik aveva coltivato la sua indole alla crudeltà sin da bambino, quando si divertiva a seviziare i criceti da laboratorio del padre. Crescendo aveva sfogato la sua rabbia contro i compagni di scuola, coloro che più si sforzavano di mantenere la loro identità nera in un mondo bianco. Avrebbe voluto avere una pelle diversa, quella che identificava la casta dominante. Avere la certezza di essere nato dalla parte sbagliata della società lo faceva ribollire d'invidia. Altro non poteva fare se non sfogarla contro i suoi simili. Solo quando ebbe la possibilità di entrare in servizio presso il corpo di polizia speciale che catturava i dissidenti, riuscì a fare della violenza la sua unica abilità, la sola ragione di vita. Godendo di una posizione di prestigio aveva potuto scegliere delle schiave per sé, proprio come i bianchi. I loro corpi sempre uguali e arrendevoli sembravano scolpiti nella perfezione e solo la sofferenza che riusciva a infliggere nelle sue vittime gli dava conferma di essere vivo. Tuttavia, quelle donne placide e sottomesse che miagolavano lamentele, non facevano che accrescere la sua collera e aumentare la propensione all'alcol. Si attaccava alla bottiglia con voracità come al seno florido di una madre, così i demoni nella sua testa impazzivano fino a fargli desiderare di strapparsi la sua stessa pelle scura. Tuttavia, non potendo violentare se stesso, si accaniva con le domestiche sventurate che gli capitavano fra le mani. Far pace col suo animo tormentato era praticamente impossibile, tale era l'ombra di devastazione interiore che lo opprimeva. L'incontro con Kya aveva peggiorato la situazione: per la prima volta una donna dimostrava di non temerlo. Non abbassava lo sguardo e sopportava la sofferenza come se il corpo non le appartenesse. Sgomento, a tratti bramava di distruggerla per non doversi confrontare quotidianamente con la sensazione di disagio e inferiorità che lo sguardo fiero di lei gli provocava, altre si lasciava prendere dal desiderio di essere ricambiato, in una forma rudimentale di accettazione, di reverenza. Ma ciò che trovava era un'indifferenza indomita che lo irritava costringendolo a farle violenza, prima colpendola con la frusta, poi sottomettendola da bestia qual era. Infine, beveva e si buttava esausto dove capitava, cercando di dimenticare. Spesso le ordinava di denudarsi e sfilare per lui allo scopo di umiliarla. Lei gli appariva in tutta la sua freschezza di frutto maturo, pronto da assaggiare. Svestita era vulnerabile, esibita senza protezione alcuna. Slanciata, morbida, regale come una regina. Lo sguardo fiero, diretto nel vuoto non concedeva nulla di sé, la sua dignità restava un mistero insoluto. La carnagione scura profumava di spezie, la figura simile a una Venere intagliata nell'ebano non aveva certo la grazia frigida delle padrone bianche. Era una preda senza possibilità di fuga, trattenuta da catene invisibili, ma reali quanto la vita stessa in cui si trascinava. Il fatto che fosse consapevole del suo fascino lo inaspriva fino a farlo imbestialire e la rendeva colpevole. Il desiderio folle che aveva di lei la trasformava in un oggetto privo di personalità. Eppure, restava un mistero insondabile e il potere che aveva di scompigliare i sensi gli risultava intollerabile. “Guardami!” le comandava in quelle occasioni, irritato dai suoi occhi sfuggenti. Poteva godere del suo corpo, bearsi fra i seni e violare la sua carne, ma non avrebbe mai posseduto la donna che era. Quella apparteneva solo a se stessa. Un giorno aveva bevuto più del solito, tanto da scordarsi la presenza felina della schiava nella sontuosa abitazione. Nell'aria aleggiava un sentore di disgrazia, una carezza incerta che si infilava fra le pieghe del cuore, un presentimento ambiguo che non bastava a spiegare il peso che la serva sentiva dalla mattina. L'odore della paura le entrava prepotente dalle narici, sapeva di alcol e tabacco e nemmeno la fragranza di pulito dell'abitazione riusciva a attenuarlo. Kya si strofinò il naso come se volesse togliere quel fastidioso fetore che le si era appiccicato e non le dava pace. La cuoca le aveva domandato se si sentisse male. Lavoravano per lo stesso padrone da anni e non le era mai capitato di vederla così agitata. “Mi fa male la testa, niente di che” le aveva risposto senza dare troppa importanza all'impressione che aveva suscitato. Il cielo aveva assunto quella tonalità violacea che preludeva a una pioggia acida e fortunatamente non l'avrebbe sorpresa senza riparo. Spazzò il pavimento, passò lo straccio e pulì accuratamente il vetro della porta d'entrata, strofinandolo col solito panno. Malik non sopportava gli aloni sulle superfici, era capace di andare fuori di testa per una piccola macchia. Assolse tutti i doveri con espressione impassibile, volgendo lo sguardo a terra ogni volta che il compito lo permetteva, come se portasse sulle spalle il peso di tutta una vita di sofferenza. Proprio quella mattina nella comunità di schiavi era circolata la voce di vari arresti cui sarebbero seguite punizioni esemplari. Immaginò quegli sfortunati sfilare in manette fra gli applausi della folla compiaciuta. Era sempre così: a ogni castigo il senso di angoscia si rafforzava e con esso l'umiliazione e la rabbia. I bianchi trionfavano e imponevano il controllo assoluto, un dominio che si fondava sul terrore. Aveva la fortuna di essere una donna con i piedi per terra, per nulla incline a fantasticare sventure che potessero coinvolgerla, eppure ultimamente riusciva ad affrontare le giornate e placare l'ansia che la paralizzava col solo aiuto di un tranquillante di contrabbando. Naturalmente doveva dosare la quantità per assolvere i compiti in modo impeccabile. Anche quella mattina aveva curato ogni dettaglio: tovaglia elegante, piatti dai motivi dorati, bicchieri di cristallo, candele profumate. Tutto inutile, visto che il sorvegliante era tornato a casa ubriaco e non aveva notato nulla, nemmeno lei. L'indifferenza fu un dono inaspettato, abituata com'era a vedere la sua dignità regolarmente calpestata. In passato aveva cercato di illudersi che l'isteria razzista si sarebbe prima o dopo placata, poi aveva capito che il senso di inferiorità suggerito dall'ideologia dominante aveva attecchito nel cuore della sua gente e piantato radici così salde che estirparle era energia sprecata. Il suo popolo, i suoi antenati avevano subito talmente tanto da non poter più credere di essere capaci di risollevarsi e addirittura fiorire. Quasi senza accorgersene aveva maturato l'idea della fuga, un modo per ripararsi dalla tempesta scatenata dall'odio e dall'intolleranza. Si sedette su una sedia e si infilò una pillola in bocca, sperando che il calmante facesse rapidamente effetto. Inghiottì la compressa con fatica, senza nemmeno preoccuparsi di bere un sorso d'acqua. Fu in quel preciso momento che notò la pistola laser dimenticata sul pavimento. Non ne aveva mai presa in mano una, non aveva idea di come funzionasse, ma ricordò di averglielo visto fare tante volte. Al pensiero delle torture e delle violenze a cui era stata costretta a testimoniare e che lei stessa aveva patito, il cuore accelerò il suo battito. La raccolse e accarezzò dolcemente il pulsante d'accensione, mentre una goccia di sudore le imperlò la fronte, rigando lentamente la sua espressione stupita e corrucciata. Sapeva di non aver il tempo di riflettere, così puntò la canna contro il viso dell'uomo addormentato e premette il grilletto, ma l'arma restò silenziosa e nessuna luce folgorante dilaniò il volto del suo carceriere. A quel punto, con un movimento nel sonno, l'ubriaco rovesciò la bottiglia vuota. Un rumore sordo lasciò che uno sprazzo di realtà penetrasse nella nebbia alcolica in cui era sprofondato. Tutto il suo corpo si irrigidì mentre spalancava gli occhi terrorizzato, incapace di muoversi e proferir parola. Come risvegliato da un incubo in procinto di precipitare in un altro, si sollevò goffamente, farfugliando insensatezze e gridando e cercando di afferrare la ragazza, la pistola o il fantasma che credeva di vedere. Kya indietreggiò, inciampò e sbatté violentemente contro uno specchio alle sue spalle. Il vetro andò in pezzi che schizzarono ovunque come schegge impazzite di vita propria e, rovinando a terra, schiacciò finalmente l'accensione corretta. Lo colpì al ventre. Chiuse gli occhi per un istante, mentre gli spiriti degli antenati la sorreggevano per ammorbidirle la caduta. In seguito, lo lasciò agonizzare a lungo sotto i loro sguardi invisibili e comprensivi, finché l'odore del sangue non le provocò un senso di nausea. Solo allora si alzò e tolse una stola di seta appesa a un gancio della parete dietro al letto. Era un dono tramandato da generazioni, ma lui se n'era appropriato per divertirsi a provocarla. Le sue mani si imbrattarono di sangue. Restò immobile, statica a fissarle. La bocca serrata, una ciocca sudata scese a coprirle l'occhio sinistro. Il colore del sangue era vivo, squillante. L'espressione accigliata raccontava una nuova colpevolezza: aveva commesso un'azione riprovevole, ma non ne era affatto pentita. I suoi occhi si rabbuiarono in uno sguardo accusatorio, irriverente. Guardava quelle mani e poi l'uomo, tuttavia non si sentiva smarrita, solo tremendamente a disagio. Infine, il suo sguardo vagò come ubriaco intorno alla stanza e osservò i mobili e le suppellettili come se le vedesse per la prima volta. Quadri, tappeti, vasi e tendaggi raffinati, un lusso mal assortito, un'eleganza sfacciata che stonava con la miseria interiore di quell'uomo tanto abietto. In una preziosa bacheca di mogano il violino attirò la sua attenzione. Un reperto antico che valeva una fortuna e che ormai nessuno sapeva suonare. La musica d'altronde era proibita. La colse un'immensa tristezza. Fino a quel momento aveva concesso a quell'uomo di usarla come capro espiatorio per tutte le sue nefandezze giustificate dal sistema schiavista. All'improvviso udì degli schiamazzi provenire dall'esterno. Sbirciò dalla finestra facendo attenzione a non farsi scorgere e vide un gruppo di uomini trascinare un ragazzo di colore. Gridavano come ossessi e qualcuno prendeva a calci il poveretto, altri a sassate. Attratti dalle urla, vicini e passanti si unirono alla calca fino a formare un'unica bestia assassina che si spostava simultaneamente. D'istinto Kya si nascose in un angolo anche se nessuno avrebbe potuto accorgersi della sua presenza nell'abitazione. Si tappò le orecchie con le mani per attutire il chiasso esterno. Quando finalmente l'orda inferocita girò l'angolo si udì ancora qualche applauso e poi più nulla. Allora la ragazza vide i primi insetti posarsi sugli occhi sbarrati del corpo del suo aguzzino indurito in una posa innaturale, si mosse e decise di aprire la porta su una nuova vita. E i cardini non scricchiolarono, poiché tutto ciò che vide fu l'inizio della libertà. |
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