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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama
con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi,
attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano
Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di
ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera
(Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime
di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il
purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati
da Einaudi Stile Libero). |
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria,
si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata
alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice
emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre
Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato
a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus".
Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé,
conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo
libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio
Strega 2021. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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La pace cattiva
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1. Lasciate che vi racconti una storia. New York, agosto 1958
«Salute amico, come va? Anche questa sera ci vediamo, eccoci qui a bere un bicchierino. Ma non sei solo, vedo. Buonasera signorina, piacere mio. Mi chiamo Tadeusz, Tadeusz Ledermann. Taddy per gli amici. Sono straniero qui, vengo dall'Europa. Ho cominciato a fumare da poco, spero che non vi dia noia il fumo. E se volete sedervi accanto a me, aspettando che la pioggia finisca, vi racconterò cosa mi è successo solo pochi anni fa, se ne avete voglia. Il suo amico mi conosce già, ma anche lui sa ben poco di me. Non ci metterò molto. E non credo che vi annoierete, ne sentirete delle belle. Sicuro! Davvero delle belle. Comunque sempre meglio che andarsene in giro in una notte calda e umida come questa, no? Ecco, accomodatevi su questi sgabelli, al banco, vicino a me. Preferite sedervi a un tavolo, là dietro, accanto alla vetrina? No? Allora, se qui va bene, ordinate qualcosa da bere, un caffè o una birra se volete. Siete miei ospiti, sia chiaro. Voi due siete gente a posto, si vede subito. Due bravi newyorkers dalle speranze intatte, ho notato i vostri sguardi trasparenti e il vostro sorriso aperto e sincero. Non avete mai dovuto passare quello che è successo a noi, buon per voi! Spero che non pensiate che mi stia inventando tutto. Non è così, ve l'assicuro... L'atmosfera è proprio pesante stanotte, vero? Soffocante. Questi scrosci di pioggia bagnano le strade senza rinfrescare l'aria. Al contrario diventa sempre più afosa, non è così? Lampi che squarciano il buio e il brontolio dei tuoni che rimbalza fra le case e i grattacieli di questa città così verticale... sentite che roba da brividi! Ma non è il tempo che mi disturba in questa notte così inquietante. Edward Hopper starà di certo prendendo le misure della mia solitudine, tracciando schizzi veloci sul suo taccuino, per sbattere in faccia agli ingenui uno dei suoi dipinti sulla vacuità del sogno americano. Ma se fosse qui, accanto a me, al banco di questa tavola calda tutta plastica e linoleum, illuminata dal neon, a guardare l'espressione insonnolita dell'inserviente, peserebbe anche su di lui la profonda disperazione di un altro sogno infranto. Quale? Il mio. Quello di un ebreo perduto come me. Perduto e perdente, anche. Uno di quei giudei dallo sguardo vitreo, spalancato sul nulla delle sue illusioni svanite. O dei suoi incubi perenni. Un cavaliere di nubi d'esilio insomma, come disse qualcuno. Niente a che vedere con i tanti cavalieri dei romanzi cortesi. Solo un senzapatria. Uno che vive sotto cieli stranieri attraversati da grigie nubi cariche di pioggia come quelle di questa notte... E pensare che per un attimo c'è stata per noi, una patria. Poi è sparita. Svanita, annientata, distrutta. Una casa che ormai non c'è più. Cosa sia una “patria” è cosa ardua da definire, forse lo potete immaginare o forse no, non lo so. In fondo ognuno è un essere umano e niente più di questo, lo sappiamo. Tutta la terra è patria per ogni uomo, senza confini. E tuttavia ognuno di noi sa cosa voglia dire stare al sicuro fra le mura della sua patria. Un poeta palestinese disse molto acutamente che “la patria è un'idea stupida, a parte per chi non ne ha una...” . Molto arguto, vero?... Si sa, patria è un'invenzione dalle forme mutevoli, che si sono trasformate nel corso dei secoli e dei millenni. Ma di volta in volta voleva dire casa. Niente di più e niente di meno. Starsene al sicuro dentro casa, al riparo delle sue mura. Al di là delle quali c'è l'ignoto. Buono, cattivo, non si sa. Ma di sicuro ignoto. Però noi, noi ebrei, che una patria non l'abbiamo avuta per millenni, e nemmeno l'abbiamo cercata, dell'ignoto non avevamo tanta paura, giusto un po'. Eravamo abituati. Anche se a volte è stato davvero crudele. Ma quando quell'ignoto si è manifestato con la sua faccia più feroce, be' allora... Eh! Lo capite anche voi... No, non aveva una bella faccia, proprio per niente. Per questo abbiamo cercato di tirare su quattro mura dietro le quali sentirci protetti. Ma quelle mura non sono più nostre ormai, quelle strade non ci vedranno più passeggiare spensierati. E in quei cortili grigi non giocano più i nostri ragazzini. Quel tempo e quei luoghi fanno ormai parte di un passato smarrito, evaporato, dissolto come la foschia d'estate. E brividi di freddo mi scorrono lungo la schiena, mentre fingo di occuparmi d'altro, quando ci penso, ve l'assicuro... L'ebreo errante, di nuovo, controvoglia. Se siete pronti inizio a raccontarvi. Ecco qui... Io sono nato trentasette anni fa in una città araba. Haifa si chiama. Anzi, si chiamava così quando era ebraica. Adesso sono sicuro che le abbiano cambiato il nome, ma non so quale sia. È in Palestina. Una città di mare, con lunghe spiagge e un bel porto. Be' non grande come i porti che avete qui, s'intende. Un porto modesto, anche se mi hanno detto che i russi lo hanno molto ingrandito qualche anno fa. In quella città noi ebrei eravamo la maggioranza. Perlopiù fuggiti dall'Europa. Avete saputo quello che ci è successo laggiù in Europa anni fa, non è vero? Eh, sì. Una cosa davvero molto triste, molto. Ma anche prima della guerra e di tutto quel disastro, molti di noi erano già fuggiti, anche verso la Palestina. Per questo io ci sono nato. E laggiù avevamo cominciato a costruire il nostro Stato, la nostra casa. Ero giovane allora, ma lo Stato, quella nostra casa, era ormai prossimo a realizzarsi quando – sentite qui – il nostro presidente si fece venire un'idea davvero strana, balzana, fantasiosa. O forse proprio folle... Un'idea che, devo dire, lì per lì ci stupì e ci lasciò senza parole. Ma poi ci convinse della sua bontà. Sembrava proprio una cosa grandiosa, un gran bel progetto. E giusta, soprattutto. Quella di andarsene da lì. Tutti quanti. Via da quella terra, lasciandola agli arabi per sempre, mentre noi tornavamo a vivere di nuovo a casa nostra, in Europa... E ci sembrava chiaro il motivo. Quella era la nostra terra. Anche nostra. Forse che gli europei avevano mai pagato un penny per quello che ci avevano fatto? No, vero? È così, non hanno mai pagato niente per tutto quello che ci hanno fatto. Mai... E allora era giusto che noi ci prendessimo la loro terra, una parte almeno, per farci la nostra casa, no? Pensate che storia! Tutti quanti imbarcati e trasferiti per ricominciare tutto da capo. Solo degli ebrei lo potevano concepire e poi metter in pratica davvero una cosa del genere. Non eravamo andati via proprio così dall'Egitto per stabilirci nella Terra promessa a piantarci le nostre tende? Vecchia storia, no? Magari inventata, ma che importa? Fa parte della nostra mentalità fin da allora. Tuttavia qualche anno fa noi avevamo deciso che la nostra terra promessa, quella vera, non stava là in Oriente, ma da un'altra parte. Ecco, è tutto qui. Non in Galilea o in Giudea o in comesichiama... Magari la Bibbia si era sbagliata, vai a sapere. O Dio stesso si era confuso. Macché! Casa per noi era l'Europa, ecco tutto! E insomma... adesso vi racconto come andò, passo per passo, nei minimi dettagli. Tanto la notte è ancora giovane. La storia cominciò che io ero ancora piccolo, un bimbetto...»
Dal sangue nasce un'idea balzana
2. La prima volta. Hebron, agosto 1929
L'aria della notte era calda e profumata. Un'immensa tranquillità avvolgeva la città e la vasta campagna collinosa che si stendeva attorno ad essa come un soffice manto di lana. Eppure una incomprensibile agitazione squassava, tenendola sveglia, la giovane donna che vegliava sui sogni del suo bambino. Irrequieta, si affacciava alla finestra ogni pochi minuti a scrutare nel buio. Non aspettava nessuno e nessuno, pensava, sarebbe venuto da lei. Ma nonostante tutto non poteva fare a meno di osservare con attenzione ossessiva le ombre della stretta strada che si snodava sinuosa giù, fino alla porta orientale della città. Come se lì, in quelle ombre, vivessero i fantasmi minacciosi del suo passato. L'aria era dolce e il profumo di gelsomino si diffondeva inebriante nella notte, ma Raymond Oswald Cafferata, sovrintendente di polizia, non riusciva a dormire. “Sarà il caldo” pensava “Questo maledetto agosto non finisce mai...” Ma più che il caldo era quella indefinibile corrente elettrica che gli scorreva nei nervi a impedirgli di chiudere gli occhi. Sdraiato sul letto, da ore guardava il soffitto illuminato dalla luce fredda della luna e da quella, fioca, della lampadina appesa a un palo di legno storto sulla strada. Su quel soffitto si disegnavano le ombre dei rami del sicomoro cresciuto nel piccolo giardino antistante la stazione di polizia, ombre che si muovevano un poco sotto rare folate di brezza, sul finire della notte. Ricordava ancora quando da bambino, a Liverpool, passava un tempo infinito a controllare che nessun mostro entrasse dalla finestra socchiusa nelle serate estive, proiettando la sua ombra terrorizzante su un soffitto simile. Aveva ormai superato quell'età e quelle angosce, eppure in quelle ore interminabili vi si era sentito risucchiato come se gli anni fossero trascorsi invano. L'aria della notte era carezzevole e odorosa di erbe aromatiche e tuttavia Eliezer Dan Slonim, la cui famiglia si era trasferita in quella città nel 1845, sentiva nella bocca il sapore acido e greve della paura mentre si girava e rigirava per l'ennesima volta nel grande letto padronale, disturbando ancora la moglie addormentata. Era figlio del rabbino della città, membro del consiglio comunale e direttore della filiale locale della AngloPalestine Bank, un personaggio rilevante in ottimi rapporti con i maggiorenti locali e con i funzionari britannici. Un uomo alla cui autorità tanti si sarebbero rivolti con rispetto in attesa di una parola saggia e compassionevole. Ma vivevano in tempi oscuri, lo sapeva, anche se nulla di particolare sembrava giustificare quella imprevista angoscia che lo aveva attanagliato già nel momento in cui si era infilato sotto il bianco lenzuolo ricamato, stirato di fresco. Ma forse l'intera città era insonne e agitata come lui. Il rumore assordante della motocicletta irruppe improvviso nell'aria della notte umida e fragrante, facendo sussultare di spavento la giovane donna, imprecare il sovrintendente Cafferata, solitamente così morigerato, e balzare Eliezer Slonim giù da quel letto impregnato di sudore e di ansia. Il rombo di quel motore aveva stracciato il buio e dato corpo a spettri funesti, portatori di sventura. All'alba un sole pallido, già velato dall'afa, illuminò una massa di gente furiosa e armata che irrompeva urlando nella sua abitazione per sgozzare lui, la moglie, due dei suoi figli, gli anziani suoceri e altri della sua famiglia. E anche estranei a cui aveva dato ospitalità in quei giorni pericolosi. In pochi minuti di puro terrore i cadaveri si accatastarono uno sull'altro nella casa di Eliezer Slonim, mentre i pochi superstiti fuggivano terrorizzati con occhi sbarrati dall'orrore. Il sovrintendente Cafferata, sceso in strada già alle prime avvisaglie di un'aurora che si preannunciava fosca, sentendo delle urla provenire dalla casa della giovane donna, salì di corsa la ripida scala di legno che portava all'angusto appartamento del primo piano. Appena entrato vide un uomo nell'atto di mozzare di netto la testa di un bambino con una lama. Lo aveva già colpito e gli stava vibrando un altro colpo ma, vedendolo, tentò di colpire anche lui. Il sovrintendente alzò con calma la canna del fucile d'ordinanza e gli sparò al basso ventre. Dietro di lui la giovane donna era a terra, violentata e agonizzante nel suo stesso sangue. Un altro uomo, un poliziotto arabo, le stava sopra con un pugnale in mano. Vide il sovrintendente e tentò di fuggire, ma Cafferata fu più veloce e sparò uccidendo anche lui . Era il 24 agosto di quel funesto 1929 e nei giorni successivi tutti i giornali del mondo scrissero in prima pagina del massacro di Hebron dove centinaia di ebrei residenti in città, alcune famiglie da secoli, furono uccisi o feriti da una folla inferocita e incontrollabile di nazionalisti arabi. Fu la prima strage di massa in quella terra. Per la prima volta un massacro di popolazione inerme fu usato come strumento di lotta politica. E fu anche la prima pulizia etnica dei sopravvissuti costretti a fuggire dalla città. I nazionalisti arabi inaugurarono una prassi cruenta che lasciò un sentimento diffuso di terrore e di odio nella popolazione ebraica. In una settimana di disordini circa l'uno per mille degli ebrei del Mandato britannico di Palestina perse la vita e tutto ciò che aveva. Non fu diverso dai fatti di Kishinev o di Odessa o di Vilna. O da uno degli innumerevoli altri pogrom della storia. Alcuni lo definirono un turning point, un punto di svolta nei rapporti fra i due popoli. Nonostante molti ebrei fossero stati salvati e messi al sicuro dai loro vicini arabi, l'azione dei nazionalisti palestinesi stabilì un punto di non ritorno: mai più sarebbe stata possibile una convivenza pacifica. Due mesi più tardi il martedì nero della borsa di New York innestò una drammatica crisi economica globale che travolse il mondo investendolo come un tornado. Tutti si dimenticarono degli ebrei massacrati in quella terra lontana e selvaggia. Avevano altro di cui preoccuparsi. Ma non se ne dimenticarono gli ebrei di Palestina. Tadeusz Ledermann aveva otto anni in quel 1929 e non capiva molto di quello che succedeva nel mondo. Anzi, per la verità non ne poteva capire assolutamente niente. Ma aveva orecchie per sentire e occhi per vedere. E fu in quel momento che cominciò anche a capire.
3. Ben Gurion e il pensiero accennato. Gerusalemme, maggio 1945
Sono passati sedici anni da allora e le cose sono andate sempre peggio. Anche oggi spari risuonano in lontananza, dalle parti della Città Vecchia. Da settimane ormai a Gerusalemme si va avanti così. E nulla fa pensare che le cose potrebbero migliorare a breve. Tuttavia il segretario del movimento nazionalista Ritorno a Sion lo guarda dritto negli occhi senza mutare espressione. È serio, anche se le labbra lasciano intravedere un sorriso appena accennato. Il giovane inviato della Egyptian Press Agency però non abbassa lo sguardo. In fondo gli ha rivolto solo una semplice domanda. Che è la domanda più ovvia, sulla bocca e nella mente di tutti, nel suo paese e nell'intero mondo arabo: «Perché mai proprio qui?» Eppure ognuno dei suoi interlocutori ha preso tempo mentre cercava la risposta da dare. “Per loro deve essere una domanda proprio complicata” aveva pensato il cronista “ogni volta si arrampicano sugli specchi cercando cosa dire. Semplicemente non hanno risposte”. L'anziano segretario generale del movimento e Presidente in pectore dello Stato che Ancora Non C'è invece lo guarda intensamente, senza sottrarsi alla provocazione. Poi si alza, prende un libro, lo sfoglia con cura cercando e infine comincia a leggere, scandendo le parole: «Il Signore disse ad Abramo: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”...» Si ferma, scorre in silenzio qualche riga, e riprende a leggere lentamente: «E poi ancora, dopo che Abramo raggiunse la terra di Canaan, il Signore apparve ad Abramo e gli disse: “Alla tua discendenza io do questo paese”.» Appoggia il libro sul tavolo e guarda di nuovo il giovane, con un'espressione che sembra di simpatia. Ripete ancora: «Io ti darò questo paese.» E picchietta con l'indice sul libro. «Ecco la mia risposta. La terra di Canaan è questa terra. Questa terra è la terra che Dio promise ad Abramo» dice guardandolo. «E come sa bene, la discendenza di Abramo siete voi arabi, discendenti di Ismaele... ma lo siamo anche noi! Noi ebrei» aggiunge con un sorrisetto. «Noi che siamo i figli di Isacco.» Poi, dopo un lungo, intenso attimo di silenzio, si piega leggermente verso il giovane che è rimasto seduto a osservarlo e riprende a parlare. «Molti hanno citato questa frase dal nostro libro più sacro interpretandola nel modo che forse conosce già. Come se il nostro diritto su questa terra ci fosse stato dato dal Signore in persona...» dice sorridendo. «E se questo diritto viene addirittura da lassù, dall'Altissimo, lei capirà che non esistono al mondo controargomentazioni possibili.» Diventa serio fissandolo. Prende la poltroncina foderata e la sposta più vicina al cronista. Poi si siede sbuffando. “Comincio a sentire gli anni” pensa. Dopo un attimo riprende. «Ma sappiamo bene tutti e due che è una sciocchezza. Una palese sciocchezza. Non è stato certo il Signore a chiederci di lasciare la nostra patria e la casa di nostro padre. Forse capitò ad Abramo, così come è scritto. Noi non lo sappiamo davvero. Nessuno di noi c'era a quei tempi. Ma sicuramente non è successo a noi. Questo glielo posso garantire. Non è stato Dio a parlarci. Non è stato lui a suggerirci di abbandonare la nostra casa. Sono stati degli uomini a cacciarci dalle nostre tante patrie. Con la forza e con la violenza delle armi. Dopo aver deciso che non eravamo più cittadini di quelle patrie in cui vivevamo da secoli, in cui eravamo nati e cresciuti e diventati adulti e dove ci eravamo sposati e messo su famiglia e diventati padri e nonni. E poi sepolti anche, in quelle patrie...» Fa una lunga pausa, sospirando. «Quindi, per andare al punto, il nostro è un diritto umano, non divino. È il superiore diritto di ogni uomo. Quello di cercare di sfuggire alla morte. Superiore a ogni altro diritto. Senza alcun dubbio. Non c'è niente al mondo di superiore a questo. E voi arabi non avete mai avuto alcun diritto di opporvi al nostro diritto di sopravvivere. Di sfuggire alla morte. Ma il diritto che accampiamo su questo territorio non lo deduciamo da questo testo sacro. Questa è molto più semplicemente una forzatura, un'argomentazione di fantasia. Il nostro diritto certamente non ha alcuna giustificazione millenaristica o religiosa. Noi non siamo Abramo. Non vivevamo nella terra di Ur. E questa terra non ci è stata data da Dio. Anche se una piccola minoranza del nostro popolo ha sempre vissuto qui, noi siamo gente che perlopiù viveva in Europa e che dall'Europa è dovuta fuggire. Dall'Europa è stata cacciata...» «Ma non siamo stati noi arabi a cacciarvi dalle vostre case!» lo interrompe il giovane con veemenza. «No certo, non siete stati voi. Non l'ho mai detto infatti. Né mi permetterei di farlo, sarebbe falso. Al contrario ho detto che ci sono stati l'antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma voi, in tutto questo, cosa c'entravate? Voi capite una sola cosa: che siamo venuti e abbiamo rubato il vostro paese . Perché dovreste accettarlo, vi chiedete. Non è così che dicono i vostri leader?» Tace, guardando fuori dalla finestra. Poi si gira di nuovo verso l'interlocutore agitando la pipa spenta verso di lui. «Anche se qualcuno di loro è stato complice e connivente con i nostri oppressori, non nascondetevelo. Complicità che ci è costata sangue...» Tace di nuovo. È incerto se dire al giovane cronista tutto quello che pensa sul rapporto con gli arabi, ma poi decide di soprassedere. Si accende la pipa e tira una boccata di fumo. «Qualsiasi cosa sosteniate, questa terra in realtà non è vostra. Semplicemente non lo è mai stata. Era ottomana casomai, ma non lo è più. Perché la proprietà personale o collettiva di case e terreni, che nessuno vi contesta, non determina la sovranità su un territorio. E voi avevate la proprietà delle vostre case e dei vostri campi, ma non avevate la sovranità su questo territorio. Ce l'avevano i turchi. Ma poi l'hanno perduta. E se una sovranità va ripristinata perché quella di prima non esiste più, ne ha diritto chi abita su questa terra, chi ha qui le sue proprietà... e allora è anche nostra! Perché anche noi abitiamo qui. Anche noi abbiamo qui le nostre case, i nostri campi, le nostre città e villaggi. O lo volete negare?» Il cronista vorrebbe replicare, ma poi preferisce che sia il vecchio leader a continuare il suo discorso. È un giornalista dopotutto. E il suo dovere è ascoltare, non polemizzare. «Se la sovranità deve essere di chi vive su questa terra – continua il politico sionista – allora anche noi ne abbiamo diritto, non solo voi. Qualcuno da tanto, qualcuno da poco, qualcuno solo da ieri, ma anche noi viviamo qui. E non abbiamo altri posti dove andare.» Tira ancora qualche boccata di fumo, pensieroso. Poi riprende a parlare. «Tuttavia, come ho già detto, è indiscutibile che non siete stati voi, voi arabi, a cacciarci dalle nostre case. Dalle nostre patrie precedenti. Su questo avete ragione. Ma questa è l'unica ragione che avete. Voi semplicemente vi siete opposti al fatto che noi siamo arrivati qui non sapendo dove altro andare. Là non potevamo più restare, chi è rimasto in Europa è morto, lo sa, o è scampato solo per caso alla morte, perdendo tutto, parenti, affetti, lavoro, casa... E altrove non aveva alcun senso nemmeno provarci. Qui era più facile arrivare dall'Europa dei pogrom e dello sterminio, qui c'era già una nostra secolare comunità. E poi c'erano quelli che accampano diritti di provenienza divina. Dovevamo accontentare anche loro. Abbiamo un legame storico con questa terra, lo sa anche lei. E tuttavia in precedenza avevamo valutato anche altre soluzioni altrove, in altri luoghi. Che però non erano adatti...» Il cronista lo guarda scettico, ma lui non si fa innervosire da quella che considera istintivamente una banale negazione. «In poche parole era l'unica strada percorribile per noi. Che vi piaccia o no, che piaccia o no a chiunque, non avevamo molte altre possibilità. Soprattutto dopo che ogni altro paese al mondo ha deciso di chiuderci le porte in faccia . Erano porte non diverse da quelle dei lager e delle camere a gas. Se i colpevoli erano quelli che materialmente ci massacravano, furono responsabili anche tutti quelli che ci respinsero mentre cercavamo salvezza, o non è così?! Tutti, tutti loro. E quindi anche voi. Anche voi arabi per aver contrastato la nostra via di fuga verso questa terra, avete la vostra parte di responsabilità.» Lo sguardo del giovane egiziano si fa scuro a queste parole. «Ma la nostra strada verso la salvezza, una strada obbligata per noi e così difficile da accettare per voi, era in qualche misura ingiusta. L'ho già detto, voi avete avuto dei torti, ma anche una ragione: non siete stati voi a voler distruggere la nostra vita precedente...» «Un'ingiustizia che ha fatto scorrere molto sangue...» «In realtà abbiamo cercato solo un accordo sulla spartizione di questa terra. Come dice un nostro proverbio, una pace cattiva è meglio di una guerra buona... Siete stati voi a non volere un accordo, a impedire ogni trattativa, a boicottare ogni proposta.» «Ma se voi avevate bisogno solo di un porto sicuro – insiste il giovane giornalista – adesso che la guerra è finita e il pericolo per il vostro popolo non esiste più, perché allora pretendete di rimanere ancora qui?» Il leader sionista sorride dando un'occhiata alla sua giovane assistente che è rimasta in silenzio, in piedi, nell'angolo più lontano della stanza. La ragazza annuisce impercettibilmente. Altre incombenze lo attendono. Allora lui si alza con un altro sospiro profondo per congedare il giovane cronista egiziano. Gli stringe la mano a lungo, con affetto, mentre in silenzio lo accompagna alla porta. Sulla soglia, tenendogli ancora stretta la mano fra le sue, lo guarda di nuovo intensamente negli occhi. Poi scandisce lentamente: «E chi le ha detto che rimarremo qui?» |
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