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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama
con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi,
attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano
Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di
ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera
(Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime
di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il
purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati
da Einaudi Stile Libero). |
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria,
si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata
alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice
emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre
Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato
a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus".
Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé,
conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo
libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio
Strega 2021. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Sang Real Reloaded
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Ambergris Caye (Belize) 7 giugno.
Il gabbiano volava nel cielo terso dipingendo linee dalle rotondità perfette e aggraziate. Mollemente adagiato sulla schiena, con un asciugamano ripiegato a sostenergli la testa, Cesare Forti ne seguiva il volo. L'altezza e il piumaggio niveo che sfumava in toni grigi e azzurri rendevano l'uccello assai più simile a una macchia candida che seguiva i capricci del vento che non a un prodigio della natura e dell'evoluzione. Era un magnifico esemplare. Sembrava snobbare le centinaia di suoi consimili che, in paziente e pigra attesa sul molo, aspettavano il ritorno dei poveri pescherecci locali. Pochi sarebbero stati spinti da tossicchianti motori fuori bordo e proprio quei rumori, giungendo da molto lontano, avrebbero fatto levare in volo la moltitudine di lavativi in attesa. Non sarebbero stati delusi. Nell'isola di Ambergris Caye, la maggiore di circa 200 isolotti al largo delle coste del Belize, lunga 25 miglia e larga appena una, si pescava in flotta, con piccole reti rotonde, gettate instancabilmente in mare dalla mattina fino al momento in cui era stato raccolto il necessario al fabbisogno, personale e per i vari villaggi e ristoranti, poi si smetteva. Nessuno degli abitanti dell'isola che aveva conosciuto, i sanpedranos, pareva stare male, o fare caso se un giorno mancava una cosa, o il giorno seguente un'altra. Nessuno sembrava volere fare niente più di quanto necessitava e questo consentiva a quell'angolo di mondo di mantenersi ancora intatto nonostante la strepitosa bellezza. Al di fuori di San Pedro, l'unica vera città di Ambergris Caye, che offriva decine di complessi alberghieri con alloggi e servizi che si sarebbero rivelati davvero scarni anche per un viaggiatore adattabile, il turismo era praticamente inesistente. Forti si era calato con facilità in quel ritmo semplice. Era sufficiente un po' di pesce fresco, acqua da bere, pane appena sfornato e frutta ogni giorno, e magari una bottiglia di rum sempre piena, per apprezzare a dovere il luogo e i suoi sorprendenti abitanti, che puntualmente manifestavano tutta la loro verve ogni sera dopo ogni calar del sole. Le notti di Ambergris Caye erano veri eventi sociali che i sanpedranos condividevano coi turisti più avventurosi e sensibili. Il gabbiano individuò la sua preda perché cominciò a girare in circolo. Forti si rese conto di trattenere il respiro. Faceva il tifo per lui. Pur non avendo mai amato quella specie di uccello perché aveva disimparato a cacciare per nutrirsi degli scarti dei pescatori, non poteva non ammirare quell'esemplare indomito. Lo seguiva da mezz'ora e in quel breve lasso di tempo erano stati innumerevoli i tuffi a vuoto cui aveva assistito. I pesci sembravano irriderlo. Un impercettibile tremolio delle ali segnalò la tensione e anche la fatica e la strenua resistenza dell'animale che perseverava nella sua caccia da chissà quanto. Forti strizzò gli occhi nel momento in cui il gabbiano volteggiò vicino alla corona luminosa del sole prossimo al tramonto ma, nello stesso momento, il gabbiano sparì dietro un'ampia velatura color lino. Forti sollevò e allungò il collo di lato, per non perdersi il risultato finale della caccia. L'espressione intensa e interrogativa si congelò in un rictus di tensione. Forti imprecò e inviò muti accidenti al lungo veliero della cui presenza finalmente si avvide. Per la stizza e per l'attesa disattesa, solo con grave ritardo si accorse che era in rotta di lieve collisione con la poppa del suo Swan. Peggio ancora, quell'imbarcazione puntava diritto verso la testa di Stella che, ignara di tutto, appena oltre la poppa si godeva distesa sull'isola galleggiante gli ultimi raggi di sole del giorno. Non c'era tempo di provare ad avvertirla. Difficilmente l'avrebbe udito. Le onnipresenti cuffie del walkman erano ben calcate sulle sue orecchie, e Stella era solita tenere il volume altissimo. Cesare Forti scattò come una molla e in pochi passi si trovò catapultato in aria. Udì l'impatto tra gli scafi quando toccò il punto più alto della parabola, che doveva concludersi appena oltre l'isola galleggiante. Guardò in quella direzione e vide lo Swan spostarsi di un buon metro e mezzo. Avesse esitato, non avrebbe potuto contare sulla spinta salda e precisa di entrambi i piedi sul tek e non avrebbe potuto fare nulla per Stella. Forti riportò la figlia al centro della sua visuale sotto di lui. Era ancora completamene ignara del pericolo. Un istante dopo la prua dipinta di bianco comparve sul margine destro del suo campo visivo. Avanzava veloce e stranamente silenziosa. Forti calcolò che sarebbe giunto per primo su Stella, seppure di pochissimo. Il suo tuffo era stato più alto che lungo, una scelta fatta d'istinto, ma non avrebbe dovuto perdere nemmeno una frazione di tempo. Doveva tirarla subito sotto con sé sfruttando la spinta del tuffo e poi andare il più a fondo possibile se voleva che nessuno dei due si facesse male, molto male. Una beffarda onda anomala, nata e morta in un istante, spostò l'isola galleggiante e rese la parabola dell'uomo più corta. Forti indovinò con raccapriccio che stava per rimbalzare sul gonfiabile. L'adrenalina salì alle stelle e gli fece rizzare tutti i peli, dai polpacci alla nuca. Non avrebbe combinato nulla di buono. Con un colpo di reni, si dispose col proprio corpo in modo da fare da schermo a quello della figlia. Fu sopra di lei nello stesso istante in cui il ruvido angolo della prua toccò l'isola gonfiabile di gomma. Successe tutto in un attimo. L'aria uscì sibilando da un ampio squarcio, il rumore subito sovrastato dall'urlo scioccato che Stella Forti emise del tutto istintivamente, e del gonfiabile non rimase che un vuoto involucro senza resistenza sotto di lei, già semi ammollata mentre le cadeva sopra. Il tuffo risultò così perfetto. La spinta li portò sotto di un paio di metri, allontanandoli dalla prua affilata. Cesare Forti spinse con tutta la forza che aveva nelle gambe per andare ancora più a fondo. Nettamente sorpresa, Stella ingoiò la sua prima boccata d'acqua e cominciò immediatamente a tossire, peggiorando la situazione. Artigliò il padre con violenza. Egli sentì una per una sul collo, sulle spalle e sulle braccia le lunghe unghie affilate che Stella si era lasciata civettuosamente crescere. Per un attimo maledì l'adolescenza con annessi e connessi. Un dolore acuto gli attraversò la gamba destra per tutta la lunghezza, azzerando all'istante i suoi pensieri quando colpì duramente il fasciame del veliero alla fine di una veloce sforbiciata. Anche Forti espulse aria e gemette. S'impose di non ascoltare gli scoppi di dolore che gli raggiunsero il cervello simili ad accecanti lampi di luce e, pur con una gamba momentaneamente fuori uso, si concentrò unicamente nello spingere ancora più a fondo sé stesso e Stella. Folle di terrore, la ragazza artigliava e scalciava con la forza di una leonessa, ma Forti la ignorò. Era tutto focalizzato sulla nuova minaccia. Un'ombra bianca si muoveva velocissima alla sua stessa profondità, e ormai vicina. Il veliero, solo in apparenza antico, era dotato di un'opera viva degna di uno scafo da competizione. La sua lunga chiglia aveva l'aspetto di un candido artiglio e terminava con un bulbo piombato simile a un siluro dotato di affilate alette laterali, ed era questo che si stava avventando su di loro. Quella innovazione da America's Cup rendeva il veliero veloce come una nave tre volte più snella, e stabile come una petroliera, in qualsiasi condizione di mare, ma era anche un'arma impropria per gli incauti che si fossero trovati sott'acqua al suo passaggio. A quella velocità, molto probabilmente la chiglia li avrebbe uccisi sul colpo. Forti smise di andare verso il fondo, tragitto che richiedeva uno sforzo e un tempo maggiore. Sfruttando la spinta dell'acqua, si spostò dietro Stella e col pollice della mano sinistra cercò e trovò un punto preciso alla base posteriore del suo collo sottile. Vi premette brevemente e intensamente. La ragazza si accasciò come un cencio e smise di opporre resistenza. La lunga pinna era già su di loro ma, facendolo passare sopra la spalla di Stella, Forti aveva già sporto il braccio destro e opposto tutta la lunghezza e spessore del suo arto tra loro e la parte mediana della chiglia. La strinse saldamente nella mano. Se solo avesse resistito per un secondo, al massimo due, avrebbero evitato il colpo più violento. Con Stella priva di sensi, Forti concentrò tutto il suo essere in quell'unico punto. Ci mise tutta la sua forza. Sentì muscoli, cartilagini, tendini e ossa opporre la massima resistenza mentre venivano entrambi afferrati nella corsa dello scafo. Forti gridò nell'assorbire l'impatto. Il suo ruggito occupò tutto lo spazio tanto vibrò contro i timpani, ma anche contro tutti i tessuti, simile a un ribollire violento. Lo sforzo si trasmise dal braccio a tutta la sua anima, ma l'urlo aggiunse determinazione a determinazione. La spalla, slogata e ferita solo due anni addietro, resistette. Forti si segnò mentalmente di mandare un ringraziamento al chirurgo turco che l'aveva operato. Dopo avere guadagnato la stessa velocità del veliero, il carico di forze si fece meno violento, ma era ancora alto e impossibile da sopportare a lungo. Forti si preparò a staccarsi col minor danno possibile. Si spostò lievemente sulla sinistra e, inarcandosi, trasformò il proprio corpo in un timone naturale. Con una specie di volteggio ginnico, ma eseguito a velocità molto minore per la resistenza dell'acqua, sfruttò a proprio tornaconto la velocità del veliero ed entrambi finirono un po' più lontano e un po' più basso, ma al di fuori dalla portata della chiglia, e del letale bulbo. Ora dovevano solo risalire al più presto perché più tempo rimanevano sotto e maggiori sarebbero state le probabilità che il cervello di Stella rimanesse danneggiato dalla mancanza di ossigeno. Inoltre, lui stesso anelava a una boccata d'aria. Forti non ebbe il tempo di gioire, di tirare l'atteso sospiro di sollievo. “Tutti a me i pazzi oggi!", pensò spalancando ancora una volta gli occhi per il terrore, nel rendersi conto cosa provocava il rumore rutilante che da qualche secondo gli mugghiava nelle orecchie, che erroneamente aveva attribuito al suo sforzo prolungato ed estremo, al suo urlo di determinazione. Un motoscafo stava sopraggiungendo a manetta. Una lunga scia schiumosa seguiva il letale proietto che stava avventandosi su di loro simile a uno shuttle Columbia che si arrampica nel cielo terso. Era una beffa che la morte stesse tentando di coglierli per ben due volte nel breve volgere di un momento in una delle più rilassanti baie del Mar dei Caraibi. Una fine atroce li attendeva se Forti non si fosse subito inventato qualcosa. Non esisteva il minimo spazio di manovra. Non c'era il tempo per spingersi più in profondità e nemmeno per spostarsi. Con lucidità, Forti espirò completamente la pochissima aria che ancora conservava nei polmoni. Guadagnati pochissimi, ma preziosi centimetri di profondità, si dispose parallelo alla superficie del mare, in quel momento poco più di un metro sopra la sua testa e allargò al massimo le gambe e il braccio libero, come se cadesse dal cielo, per offrire la maggiore resistenza possibile a qualsiasi spostamento verticale. Desiderò piantarsi nel liquido come un mammut ibernato nella morsa del ghiaccio. Non ci fu nemmeno il tempo di avere paura. Il motoscafo era già sopra di loro. “Fra un secondo sarò squarciato dal collo al buco del culo”, concluse quando avvertì primi violenti rollii e beccheggi. Sapeva di avere fatto tutto quanto era nelle sue possibilità. Se andava male, almeno avrebbe protetto le giovani membra di Stella. Forti chiuse gli occhi mentre il rombo del motore unito a quello della turbolenza liquida lo assordò come se si fosse improvvisamente trovato dentro il reattore di un jet. Non li avrebbe potuti tenere aperti nemmeno se l'avesse voluto. Era al di fuori della portata di qualsiasi uomo guardare in faccia a una morte di tale violenza e brutalità. Tenne gli occhi serrati e il tempo sembrò dilatarsi all'infinito. “Ancora un po'”, si disse, senza attendersi davvero nulla, né in un senso, né nell'altro, ma disponendosi a lottare oltre ogni strazio, oltre ogni indicibile e insopportabile sofferenza e dolore, e oltre la morte, se necessario, pur di essere utile a Stella fino alla fine. Il tempo sembrò non passare mai. La turbolenza passò da una scarruffata nei capelli alla scarica di un violento turbogetto, alla risacca rotante di una immane centrifuga. Gli spostamenti e le percussioni lo strattonarono come una marionetta senza peso e senza forza finita dentro un uragano. Forti batté violentemente i denti. Avvertì le ossa cozzare all'interno delle giunture, le membra vibrare come se un tirapugni non gli risparmiasse nemmeno il più piccolo centimetro di pelle, ma lo stesso continuò ad affidarsi alla forza turbolenta. Semplicemente, non poteva opporsi al destino. Forti non capì più dove era l'alto e dove il basso. Un senso di estremo gelo lo colse al piede già contuso e gli si trasmise a tutta la gamba, paralizzandogliela di nuovo. Si aspettò il peggio, ma all'improvviso avvertì nel naso le solleticanti bollicine della schiuma candida frammista ad aria della scia prodotta dal turbinare delle eliche. Il risucchio finale l'aveva sparato fuori dal liquido prima ancora che l'accumulo di anidride carbonica nei polmoni gli causasse una sincope. Tutto finì improvvisamente, come era iniziato. Incredulo per la fortuna di essere rimasti ai margini della turbolenza, anche se solo Dio sapeva quanto l'avessero meritata, Forti respirò e, aperti gli occhi, non fissò che per un attimo il motoscafo, la pilotina della Guardia Costiera, che si stava allontanando a tutta velocità verso la piccola marina turistica - di fatto un grossolano molo di legno basculante in quel momento desolatamente vuoto - e la banchina di massi e cemento. Stella galleggiava inerte accanto a lui. La girò a pancia in su e le sostenne delicatamente la testa con l'incavo del gomito mentre con la mano libera le mollava un ceffone alla meno peggio. Stella si riebbe all'istante e riprese a lottare forsennatamente come in precedenza, come se non fosse mai stata priva di sensi. Cesare fu immediatamente sollevato nel sentirla reattiva e vitale. Le tenne con fermezza la testa fuori dell'acqua, lievemente riversa su un lato, mentre tossiva e sputava acqua salata, bile e i resti della merenda pomeridiana. Forti avvertì sulla coscia il fiotto tiepido dell'involontaria eiezione della vescica, ma il peggio sembrava ormai passato. Mano a mano che l'ossigeno le entrava nei polmoni e in circolo, Stella iniziò a vomitare in quattro lingue diverse imprecazioni e oscenità di una verbosità e pesantezza tale che Cesare non le aveva mai conosciuto, e sorrise per la prima volta dall'inizio del pericolo. Non appena Stella comprese che andava tutto bene, e di nuovo svenne, Forti poté osservare la scena che si svolgeva verso riva. Il motoscafo della Guardia Costiera aveva affiancato il veliero. Il suo odio verso entrambi svaporò non appena si rese conto, dai movimenti sincopati degli uomini, che qualcosa non andava. Il veliero non doveva avere più nessuno alla guida perché correva senza rallentare verso gli scogli. Si sarebbe rovinosamente schiantato nel giro di trenta secondi se la Guardia Costiera non fosse riuscita a imporre fisicamente un freno alla sua corsa incontrollata, ma il diavolo lo portasse se lui avesse saputo come fare. C'era ben poco tempo e ancora meno spazio, ormai. Quasi gli avessero letto nel pensiero, la pilotina accostò e un marinaio saltò a bordo mentre l'altro, rimasto alla guida, toglieva tutta la manetta. Senza più spinta, la pilotina si appollaiò sulle proprie onde. Forti intuì il motivo della manovra e osservò con maggiore attenzione. Il marinaio a bordo del veliero incastrò il braccio dell'ancora che reggeva in mano attorno a un robusto candelotto della battagliola di poppa, poi la lama di un coltello luccicò sinistra nella sua mano mentre piombava sulle vele. Faceva tutto da solo. A bordo doveva essere successo qualcosa di grave. Di fatto, egli nemmeno si interessò della cima dell'ancora che a momenti si sarebbe tesa. Temendo di assistere al peggio, Forti s'irrigidì. Ricordava bene la volta che aveva dovuto soccorrere due inetti marinai vittime della rottura di una cima, ed era solo la drizza della randa di un piccolo cabinato. Sotto la violenta forza della trazione, la cima poteva allungarsi e poi lacerarsi, creando due pericolosi scudisci capaci di spezzare un albero spesso come un braccio. Se avessero trovato membra umane sulle loro strade, le avrebbe recise di netto come un'affilata katana manovrata da un esperto samurai, forse anche più velocemente. Egli temette per la vita del marinaio. Molto magistralmente, il collega rimasto alla guida della pilotina aspettò che la cima fosse ben tesa tra le due barche prima di cominciare gradualmente, ma velocemente, a portare la manetta dei potenti motori fuori bordo su indietro tutta, cosa che gli riuscì alla perfezione e senza tempi morti nel breve volgere di un lungo sospiro. Forti si attese comunque un violento contraccolpo, ma era chiaro che il marinaio sapeva il fatto suo. La battagliola di dura quercia tenne e fu la dimostrazione migliore di quanto quel veliero fosse stato costruito con progetti e tecniche vecchie quanto solide, ma ancora parve non accadere nulla. Il veliero stazzava oltre 20 volte il peso della pilotina e se la trascinava dietro alla maniera di un tender di gommapiuma. Nello stesso istante in cui le eliche della pilotina artigliarono furiosamente l'acqua al massimo di giri-motore, e questa affondò pericolosamente di prua, altri schianti si propagarono nell'aria: il marinaio salito a bordo del veliero aveva istantaneamente ammainato tutte le vele con pochi tagli. Gli schiocchi e i colpi di frusta delle drizze e delle scotte recise di netto giunsero chiaramente sino a lui. Senza più l'azione stabilizzatrice del vento, il veliero sbandò, da destra a sinistra, ma quel giorno gli dèi sembrarono parteggiare per quella magnifica opera dell'ingegneria navale di inizio '900 e per il coraggio dei due marinai. Nulla si ruppe e, anzi, persino la sbandata del veliero - voluta o meno - concesse alla pilotina quei pochi metri di manovra in più che si rivelarono fondamentali a evitare l'impatto con gli scogli. Quando il veliero finalmente invertì la direzione, Forti si rese conto che non era l'unico a osservare la scena. «Basta perderti d'occhio un momento e ti cacci subito nei guai!» «Sai come sono fatto» grugnì Forti, nuotando ampie bracciate di rana con l'unico braccio disponibile in direzione dello Swan mentre con l'altro continuava a sostenere Stella. «I guai mi si attaccano addosso come amanti soddisfatte.» «Immagino il tipo» infierì Boudois, perfettamente a conoscenza delle voci parevano precedere l'amico in ogni porto. «Che ne dite di lasciare perdere le stupidaggini e aiutare Stella?» intervenne Berfin alle spalle del massiccio francese, più pratica. Pur nella situazione critica, Forti non poté impedirsi di ammirare la giovane donna che da due anni si accompagnava al suo migliore amico. Berfin aveva quell'indefinibile bellezza che non era solo fisica, ma che poteva nascere solo da un animo gentile, da intelligenza, intuito e dinamismo come vedeva nella sua espressione determinata. Berfin era straordinaria sotto ogni punto di vista. «Sta bene?» Boudois si preoccupò finalmente per la ragazza, vedendola trascinata in salvo dall'amico. Non erano passati che 30, al massimo 40 secondi tra il momento in cui il veliero aveva colpito lo Swan e il loro arrivo in coperta. Non avevano vedere nulla di quanto era successo, se non il salvataggio del veliero. «Sì, per fortuna sì. Ha solo bevuto un po' e preso un paio di scapaccioni, ma il peggio sembra passato» lo tranquillizzò, passandogliela. Stella era ancora priva di sensi quando Boudois l'afferrò per le ascelle e sollevò come un leggero fuscello e, aiutato da Berfin, la distese delicatamente sul tek. «Sarà meglio che tiri su anche te. Il tuo colorito mi dice che non te la sei vista bella» fece Boudois afferrandolo ed estraendolo dall'acqua con la stessa poca delicatezza che avrebbe usato con un pesante sacco pieno di patate. «Ma che caz...» imprecò Forti. La parte finale se ne andò in un accesso di tosse causato dalla strapazzata. «Persino un rimorchiatore di Valencia sarebbe stato più delicato di te» concluse non appena recuperò un po' di fiato, ricordando come in quel porto per poco non gli avessero spaccato lo Swan in due. «Appena in tempo» lo tacitò con un'espressione rilassata Boudois. «Piccole sono piccole, ma non credo che ti avrebbe fatto piacere fare la loro conoscenza.» L'indice era puntato in acqua. Una mezza dozzina di verdesche dal caratteristico colore dorsale di un vivo blu cobalto che sfumava in blu-medio metallico sui fianchi, si avventarono fameliche contro la nuvola più scura del sangue che Forti aveva appena perso, finendo col piantare l'una nel corpo dell'altra aguzzi denti incurvati e triangolari. Erano presenze insolite in rada, forse lì giunte al seguito di qualche nave da crociera nutrendosi voracemente dei rifiuti delle cucine. Questo spiegava il piccolo branco, e la vicinanza allo Swan, di squali solitamente solitari. L'acqua era tutto un brulicare e riprese velocemente il suo solito intenso colore azzurro. «Sembra proprio che mi sono tagliato per bene» ammise Forti guardando grato nella direzione dell'amico. Non si era ancora avveduto di perdere copiosamente sangue. Un'elica gli aveva tagliato di netto la parte inferiore dell'alluce in senso longitudinale, fin quasi all'osso. Per come si erano messe le cose, era un taglietto anche se richiese sette punti che Berfin - assunta con naturalezza al ruolo di medico di bordo - applicò con inappuntabile perizia, aggiungendovi un'antitetanica dopo che Forti le disse cosa l'aveva ferito. Lui la considerò uno spreco, e non lo mandò a dire, ma lo fece solo per una innata avversione alle iniezioni. Era capace di affrontare qualsiasi cosa, non un ago. La parola esatta era “subdolo”, specie quando lo colpiva alle spalle. «Minimo le eliche di quella carretta sono arrugginite da decenni» lo zittì lei senza rendersi conto di quanto si sbagliasse. Cesare Forti la perdonò. Del resto, anche lui aveva commesso lo stesso errore. La pilotina non dava bella mostra di sé, ma a vedere da come avevano manovrato, Forti era ragionevolmente sicuro che la “carretta” avrebbe facilmente dato la paga a molte se non a tutte le più nuove pilotine delle più moderne e attrezzate capitanerie di porto. «Ecco fatto» concluse Berfin. Forti guardò dubbioso la fasciatura. Nella pesante penombra del tramonto avanzato risaltava contro lo scuro tek simile a un candido pallone aerostatico, ma quando provò a fare cautamente alcuni passi sentì con estrema soddisfazione che la ferita non gli dava praticamente fastidio. Berfin doveva avere usato uno dei trucchi imparati quando combatteva nelle montagne del Kurdistan. «Bene, proprio bene. Grazie Berfin» si affrettò a dirle, sorridendole grato. Ella abbassò lo sguardo per una naturale tendenza alla modestia e si allontanò mormorando qualcosa d'incomprensibile. A vedere come Boudois stava incollato all'amico immaginava che i due uomini volessero parlare da soli di quanto era successo. A volte l'infastidiva essere considerata una bambina. Non era mai successo in tutto il tempo passato tra i rudi pastori e guerriglieri curdi, in mezzo alle montagne, ma non poteva fare altro che accettare di buon grado quell'antipatico gap culturale ancora tipico in occidente. «Beh, è andata bene» lo stuzzicò Boudois visto che lui non si decideva a parlare. «No, è andata molto, ma molto bene!» rincarò la dose Forti. Non aggiunse nulla. Passato lo spavento, egli covava anzitutto l'unico desiderio di sapere cosa fosse davvero successo. Voltava le spalle alla riva e al veliero, ma le poche volte che si era azzardato a sbirciare senza incorrere nelle ire di Berfin che lo voleva completamente immobile al fine di non intaccare il suo capolavoro di punti e croci sull'alluce, aveva visto che la luce di fonda della pilotina era ancora accostata a quelle del veliero che con l'avanzare delle tenebre assomigliava sempre più a un transatlantico. Doveva essere dotato di un generatore potente quanto silenzioso. «Scusami papà» si inserì Stella spuntando dalla scaletta. Forti sentì la felicità invaderlo, come sempre quando vedeva sua figlia. Un sorriso si allargò con naturalezza sul suo volto abbronzato. Ritrovare Stella e il rapporto intatto come quando cause di forza maggiore l'avevano interrotto, forse addirittura più forte, lo costringeva a ripetersi spesso che finché ci fosse stata lei più nessun'altra donna sarebbe entrata stabilmente nella sua vita. |
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