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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Claudio Rossi
Titolo: Missione in Attica
Genere Avventura Storico
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Missione in Attica
I. Roma.

Nell'anno del consolato di Gaio Giulio Cesare e di Servilio Vatia Isaurico, il 706, la vita nell'Urbe poteva essere piena di pericoli.
Infatti, in una fredda sera di dicembre, il gruppetto che stava camminando lungo la via con il senatore Clodio Menennio e le sue guardie del corpo finì nel bel mezzo di una rissa da strada.
Cinque o sei facinorosi se le stavano dando di santa ragione urlandosi l'un l'altro epiteti ingiuriosi che facevano capire come la causa della rissa fosse legata alle corse dei cocchi.
Mentre i sei uomini della scorta cercavano di farsi strada tra gli attaccabrighe, tre di questi, sbandando per gli spintoni che si davano l'un l'altro, urtarono pesantemente il senatore Menennio che finì a terra urlando di dolore.
Gli uomini della scorta si affrettarono a dargli soccorso, e solo in quell'istante si accorsero della macchia di sangue che stava allargandosi sulla sua veste.
Nella rissa il senatore era stato accoltellato al ventre.
I facinorosi si erano già dileguati. Si era trattato di un agguato preordinato, e non di una rissa tra fazioni avversarie alle corse ippiche.
Il senatore Menennio fu portato alla propria casa, in cui spirò la notte stessa per la grave ferita.
L'attentato era stato quasi sicuramente organizzato dagli ottimati, che avevano così eliminato uno dei loro maggiori avversari in senato.
Nonostante la morte di Pompeo, infatti, la guerra civile era tutt'altro che terminata. Gli ottimati, i conservatori, la fazione contraria a Cesare, non erano sconfitti, e la guerra civile sarebbe continuata.

II.

Alle none di dicembre il grigiore e la nebbia fredda dell'inverno gravavano sull'Urbe, ma per chi non era povero la vita poteva offrire piacevoli comodità.
Il liberto Hicesius non era certamente povero e, ospite nel tepore della lussuosa villa romana che era appartenuta all'architetto Sestilio, stava gustando certi dolcetti al miele che la sedicenne Regilla, con l'aiuto delle serve di casa, aveva provato per la prima volta a cucinare.
Erano i giorni dei tradizionali Faunalia Rustica, le festività in onore di Faunus, il protettore della fecondità di uomini e animali.
Era l'ora settima, e la ragazza portando ogni volta un dolce nuovo chiedeva di continuo: «Hicesius, cosa te ne sembra di questo? È troppo cotto? Forse è un po' bruciato? E la pasta? Ti sembra che sia venuta bene o è ancora un po' dura?».
«No, Regilla, sono buonissimi» rispose Hicesius. «Non devi dare troppo ascolto a quello che dicono le serve. È vero, Rusonio? A te come sembrano questi dolci?».
«Mah... io direi che sono buoni, solo che sai, io ho già perso parecchi denti, faccio un po' fatica a mangiarli. Però mi sembra che siano proprio buoni!» rispose quieto Rusonio.

I due, il liberto greco e Rusonio, il tutore della ragazza, come in altre giornate di quel pacifico inverno se ne stavano tranquilli al caldo raccontandosi quelle chiacchiere che sono comuni tra coloro che hanno raggiunto una certa agiatezza.
Il greco mostrava non meno di una cinquantina d'anni, era un magrolino asciutto come un pesce secco, e la carnagione olivastra ne tradiva la provenienza dal caldo Mediterraneo. Era abbigliato in vesti dai colori sgargianti, e aveva i capelli neri impomatati come si usava in Oriente. Aveva conseguito solo da pochi mesi la manumissio.
Il suo interlocutore, Nevio Rusonio, il tutore di Regilla, era un quieto vecchietto più che sessantenne, che sembrava appena uscito da un casolare di campagna.
Aveva proprio l'aspetto d'un ortolano, magari un po' ripulito, ma pur sempre un ortolano: la carnagione arrossata dal sole, le braccia quasi annerite dal lavoro nei campi, la pelle del viso tesa e lucida, con l'incipiente calvizie e il segno più chiaro del cappello che gli orlava la fronte. Anche le mani con i calli e i grossi groppi alle falangi delle dita tradivano una vita trascorsa a lavorare la terra. In definitiva, ben vestito e in questa villa signorile, sembrava un po' fuori dal suo ambiente naturale.
I due, immersi nel tepore dei bracieri e allietati dal buon vino, ragionavano delle loro fortune.
«Certo che Regilla ed io non potevamo crederci quando il magistrato ci ha detto che avevamo ereditato la villa di suo nonno, l'architetto Sestilio» stava raccontando Rusonio. «Devi sapere Hicesius, che la vita nel casale di Fidenae era proprio diventata difficile. Negli ultimi tempi lavoravo il podere più per orgoglio che per convenienza. Ormai dalla terra si tira fuori ben poco, vedi che tutti corrono a stiparsi nell'Urbe, e ormai la terra la lavorano solo gli schiavi, i padroni non sanno nemmeno più dove si trovino i loro poderi!».
«Sì, sono al corrente che la situazione per i piccoli proprietari è diventata complicata» gli rispose Hicesius. «Immagina, Rusonio, che quando abbiamo finito i lavori alla limitatio della città di Mantua, nella Cisalpina, si parlava di dare a ciascun veterano un podere di cinquanta actus proprio perché si sa che da appezzamenti troppo piccoli non si può più trarre da vivere.»
«Per nostra fortuna gli dèi hanno voluto essere benigni con questa ragazza, Regilla, e non abbiamo esitato un istante a venire nell'Urbe» annuì Rusonio. «Anche se ti devo dire che questa vita un po' mi spaventa. Solo il frastuono la mattina all'alba quando i carri entrano in città, per uno che non ci sia abituato, non è affatto piacevole, come questo andare e venire di gente di tutte le razze. Appena metti fuori il naso dalla porta, col primo che incontri non sai nemmeno se puoi parlare nella nostra lingua! Ma lo sai qual è la cosa più tragica? Qui nell'Urbe c'è un mucchio di gente che non lavora! Nel mio podere se volevo il formaggio dovevo mungere le capre, e per mangiare le fave dovevo seminarle, irrigarle con secchiate d'acqua di fosso, sarchiarle, e c'era sempre qualcosa di faticoso da fare! Ma questa gente qui, tu sai cosa fanno? Se non lavorano come fanno a mangiare? Questo mi chiedo: chi dà loro da mangiare? Rubano? Me lo sai dire tu?».
«Rusonio, la situazione nell'Urbe è molto complicata, ma sai che abbiamo enormi ricchezze, e le nostre province mandano in questa città granaglie e altri prodotti da luoghi lontanissimi, e ferro, oro, argento. La repubblica è potente sia sulle terre che sui mari. Siamo ben governati, e la sciagurata guerra che ha opposto Cesare a Pompeo è ormai finita con la morte di Pompeo in Egitto».
«Sì, hai un bel dire, ma ascolta quello che ti dico: quando siamo venuti via da Fidenae ho dato in affitto sia il casolare che il podere a un mio vicino di casa. Se avessi potuto l'avrei venduto, ma da quelle parti sono tutti così poveri che non hanno denari per acquistare poderi, e allora io l'ho affittato. Ma ti devo dire che sono molto preoccupato, perché l'accordo era che mi avrebbero dato venticinque denari l'anno. Ma te pensi che quelli lì, morti di fame come sono, riescano a mettere insieme in un anno venticinque denari da pagare a me? Questo adesso è un bel problema! Appena sarà la bella stagione mi piacerebbe andarci a fare un giro».
Fu interrotto dall'entrata di Regilla che portava dei bicchieri fumanti: «Bevi zio che ti passa la malinconia! E anche tu, Hicesius, bevi un po' di vino caldo che fa bene in queste giornate fredde!».
Sorseggiando il buon vino Rusonio continuò: «No, ti dicevo, voglio andare a fare un giro a Fidenae a vedere cosa combinano. E se poi alla fine non avessero i denari per pagarmi cosa potrei mai fare? Li caccio via? E metto nel podere degli altri come loro? Non ci sono denari, questo è il problema. E non so proprio come fai tu a prestare denaro a degli sconosciuti. Io non ci dormirei la notte. Certo sarà un lavoro da signori, ma se poi non te lo restituiscono, cosa fai?».
«Vedi Rusonio, in ogni lavoro ci sono dei rischi. Se tu allevi le galline corri il rischio che la volpe te ne porti via qualcuna, ma non per questo tu smetti di mangiare, di tanto in tanto, un pollo arrosto, e di gustarti qualche uovo. Tutti i lavori sono così, ci sono sempre dei rischi. E il nostro dovere è di limitarli. Così tu rinforzi il pollaio o ci metti un paio di cani perché la volpe se ne vada da qualche altra parte».
«Beh, se è per quello le galline posso anche tirarmele in casa la notte! A me non danno mica fastidio. Ma te a prestare del denaro come fai? Quando il denaro è fuori di casa tua ti devi fidare di quello che ti raccontano».
«No, non è così. Devi sapere Rusonio, che quando prestiamo del denaro, specialmente se si tratta di una grossa cifra, ci devono dare delle garanzie, che so, della terra, degli schiavi. Se il prestito non sarà restituito quei beni diventeranno di mia proprietà, sicché io potrò venderli e rifarmi del mio capitale. E poi noi facciamo parte di un collegium di argentari e tanti rischi li ripartiamo fra di noi. Sarebbe come se tu avessi un pollaio in comune con i tuoi vicini, e se per caso la volpe ti ruba tre o quattro galline è una perdita che viene ripartita».
«Guarda Hicesius, potresti anche cambiare esempio perché neanche a fare apposta i miei vicini sono tutti dei veri ladri di galline, li conoscono in tutta Fidenae!».
«Comunque, per molte cose ti do atto che hai ragione Rusonio, e bisogna veramente stare attenti. Oggi il mio aiutante Nestor mi ha detto che sta studiando un sistema per ridurre il rischio di perdere il capitale che diamo a prestito. Sai che Quintilio ed io, che abbiamo insieme il banco, non siamo inclini a fare prestiti a privati cittadini. I privati sono pieni di problemi quando c'è da restituire il denaro: spesso muoiono, e altre volte fuggono».
Era costato caro quel banco: era stato messo in piedi con la ricompensa che il liberto e l'agrimensore Quintilio avevano strappato all'Erario di Stato per la restituzione del tesoro appartenuto all'assassino dell'architetto Sestilio, ma avevano rischiato la vita per quel denaro, e il greco aveva riportato una grave ferita a una gamba scampando alla morte per miracolo. Camminava ancora zoppo.
Mentre ragionavano di queste cose Regilla si sedette a fianco dello zio e del liberto, in attesa.
«Vieni, Hicesius, andiamo?» disse infine la ragazza. «Dobbiamo mettere mano a quel papiro che racconta di come gli egizi guariscono le febbri del fiume Nilo».
Hicesius in questa casa aveva ritrovato il suo focolare: aveva trascorso la maggior parte della sua vita in giro per le province della repubblica insieme al suo padrone, l'architetto Sestilio, impegnati in progetti di strade o di idraulica, o nella direzione dei lavori di qualche centuriazione, e ora finalmente rintanato nella lussuosa villa del suo ex padrone aveva ripreso l'attività giovanile di precettore insegnando a leggere e scrivere come si deve a Regilla, la nipote dell'architetto.

La sera Nestor, l'aiutante di Hicesius, rientrò alla villa con una grave notizia: il senatore Menennio, loro amico e protettore, era stato gravemente ferito e stava morendo. Nestor era di casa dal senatore visto che in precedenza era alle sue dipendenze, ed era stato dato in prestito a Hicesius per il lavoro del banco proprio dal senatore stesso.
Nere nubi si stavano addensando sull'Urbe. La morte di Gneo Pompeo Magno, avvenuta tre mesi prima, forse non era stata sufficiente a fermare i conservatori che mal sopportavano le riforme di Cesare che li stava privando di molti dei loro privilegi.
Così mentre la vita scorreva tranquilla nella villa di Sestilio, e la giovane Regilla procedeva con la sua istruzione sotto la guida del greco, riprendevano vigore sospetti, congiure e macchinazioni.
Claudio Rossi
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