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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Autore: Claudio Rossi
Titolo: I veleni di Tebe
Genere Avventura Storico
Lettori 208 1
I veleni di Tebe
Da mesi il medico Svetonio era giunto a una definitiva e inevitabile conclusione: doveva cambiar vita. Tutti gli sforzi che aveva fatto per togliersi dalla modesta posizione di medico militare in un presidio legionario, e magari diventare medico di fiducia di ricchi possidenti o importanti funzionari, alla fine si erano ritorti contro di lui. Aveva perduto tutto ciò che poteva perdere: il figlio e la moglie, casa e denaro. Gli era rimasta appena la vita.
Mentre era immerso in queste nere riflessioni, e le acque torbide del Nilo scorrevano ai fianchi della feluca, venne distratto dal suo aiutante che come lui era appoggiato al corrimano della barca: «Ma sarà poi finita davvero, Svetonio? Come fai ad essere certo che non ci cercheranno più per metterci in carcere o per tagliarci la testa?»
«Me l'hai già chiesto venti volte, Onorazio! Se non godessi della protezione del Prefetto d'Egitto, non mi sarei mai arrischiato a mostrarmi di nuovo in giro.»
«Ma... quell'ufficiale importante che voleva farti la pelle... come facciamo ad essere sicuri che ci lascerà in pace?»»
«A noi ormai non può più fare nulla! Ho un lasciapassare rilasciato dall'ufficio del Prefetto, Onorazio! Non potrà più toccarci!»
L'aiutante lo guardava dubbioso, per nulla convinto.
Il medico scosse le spalle: «Abbiamo ordine di presentarci al presidio di Tebe. Chi vuoi che ci venga a cercare là?»
Aulo Svetonio e Onorazio erano ben vestiti e all'apparenza benestanti. Nessuno avrebbe potuto immaginare che solo qualche mese prima l'aiutante aveva rischiato dieci anni di lavori forzati; Onorazio era un trentenne d'aspetto simile a mille altri che senza un lavoro preciso popolavano le città del Nilo. Aveva seguito il medico in quella specie di esilio, per il momento privo di sudori e fatiche, dandosi da fare per somigliare il più possibile a un vero attendente. Parlava il greco e il latino come un romano per via di suo padre, un veterano di fanteria.
Svetonio invece, un quarantenne di bell'aspetto che chiunque avrebbe riconosciuto subito per romano, si era lasciato coinvolgere in faccende losche ed era scampato per miracolo alla morte. Ora, benché si fosse guadagnato la gratitudine del potente Prefetto d'Egitto curandogli il figlio, era stato costretto ad allontanarsi da Alexandria, o piuttosto era il caso di dire che aveva avuto la fortuna di riuscire ad andarsene con le proprie gambe.
Dopo un anno difficile e cosparso di pericoli, i due disponevano di un po' di denaro e avevano trovato il modo di viaggiare evitando quel popolino che non si fa mai gli affari propri ma osserva e chiacchiera di quelli altrui. Avevano preso a nolo solo per loro una feluca, simile a tante altre che lungo il Nilo trasportavano merci e persone.
«Speriamo che sia come dici tu» concluse Onorazio, ma il tono non nascondeva una certa sfiducia.
«Speriamo, certo! Voglio rifarmi una nuova vita a Tebe: è una grande città, non meno di Alexandria o Menfi, e mi attende il lavoro di medico militare nel presidio.»
Le cose nel tempo possono sempre cambiare, rifletté, e non è detto che un giorno non possa ritornare ad Alexandria a testa alta.
La feluca avanzava lentamente controcorrente, e Onorazio, i gomiti appoggiati sul corrimano, guardava senza nessun interesse la lussureggiante riva del fiume che scorreva davanti a lui. Non era per nulla convinto dalle rassicurazioni del padrone e non faceva il minimo sforzo per nascondere lo scetticismo.
Stavano risalendo il ramo di Canopo, uno dei corsi maggiori in cui il Nilo si divide, tra rigogliosi campi di grano, farro e lenticchie dell'immenso delta. Medico e aiutante si erano sistemati a prua parlando a bassa voce, per non farsi udire dai barcaioli, tre di quei morti di fame di cui l'Egitto è ricco, com'era facile dedurre dalle vesti consunte e piene di buchi.
«Ci hanno dato persino i tetradrammi per il viaggio! Cosa vorresti di più?» disse il medico con un sorriso.
«Sì, certo, è una cosa ottima, lo riconosco, e il denaro è indispensabile, ma... non lo so, quando uno pensa che le cose siano facili, è la volta che spuntano i guai.»
«Riesci solo a immaginare che qualcuno osi disturbarci mentre viaggiamo verso Tebe? E perché mai, poi?» lo rassicurò il medico con lo sguardo sicuro e la parola rasserenante che è caratteristica di chi tratta ogni giorno con la vita e la morte, quelle altrui, naturalmente.

Raramente ai viaggiatori che si spostavano sul Nilo capitava di essere disturbati, ma il medico era benvestito, e la cassetta di legno dei farmaci, caratteristica del suo lavoro, era a colori vivaci e istoriata. Un medico ha sempre con sé del denaro. I viaggiatori erano in due, i barcaioli in tre.
La prima randellata fu sufficiente. Piovve sul capo di Svetonio a tradimento, senza nessuna avvisaglia. Senza un gemito si accasciò sul tavolato della feluca e rimase riverso nelle due dita d'acqua che filtravano dalle connessioni del fasciame, tra i cordami di manovra della vela.
Con Onorazio la cosa fu più complicata: era giovane e agile, e aveva avuto sentore del voltafaccia da uno sguardo in tralice che si erano scambiati i tre barcaioli. Ma soprattutto aveva visto colpire Svetonio un istante prima d'essere a sua volta aggredito.
L'attacco era stato ben studiato: grazie al timone solidamente bloccato con due funicelle, e alla vela in parte imbrogliata, l'imbarcazione si muoveva appena senza correre il rischio di mettersi di traverso al vento.
Onorazio, mentre il compagno di viaggio cadeva come un sasso, ricevette un paio di pugni che agilmente restituì. Riuscì a schivare una pericolosa bastonata grazie a uno scatto repentino.
Non poteva far fronte a tre uomini, ma la feluca distava sì e no trenta passi dalla riva e si gettò nelle acque del Nilo. O perlomeno tentò di gettarsi: i furfanti non aspettavano altro e uno di loro fu lesto ad abbrancargli un piede, cosicché rimase a penzoloni, immerso a rovescio in acqua fino alla cintola e trattenuto per le gambe. Per quanto tentasse di divincolarsi fu costretto ad arrendersi per non affogare.
«Cosa volevi fare?» lo motteggiò uno dei furfanti, quello tarchiato con il folto pelame che gli aveva invaso perfino la faccia; il naso rotto testimoniava quanto fosse esperto in liti da ubriachi. «Volevi forse imparare a nuotare come un pesce? Ti calmi subito o vuoi una bella randellata?»
Onorazio capì che era inutile protestare; si lasciò tirare a bordo e legare le mani dietro la schiena. I tre barcaioli con cui si erano accordati per farsi condurre a Menfi non erano altro che banditi da strada, o da fiume per essere precisi, specialità peraltro poco dissimile.
A conferma di ciò, il peloso col naso rotto si mise a rovistare nei bagagli di Svetonio. Era il medico che interessava loro, avevano capito benissimo chi comandasse dei due e chi facesse da aiutante o da servo. Stava cercando denaro o qualcosa di valore.
La curiosità dei furfanti era stata attratta dalla cassetta costruita con assicelle di legno leggero ben piallate, dotata di una larga fascia per essere portata a tracolla. Aprendo il fianco si presentava un ripiano adatto a scrivere e si scopriva una dozzina di cassettini che contenevano i medicamenti d'uso più comune, conservati in minuscoli barattoli o buste ottenute ripiegando fogli di papiro. In uno scomparto stavano i ferri da chirurgo: lancette affilate adatte a tagliare le carni, aghi, e quelle cordicelle sottili che si usano per cucire le ferite.
«Quanto potrebbe valere questa roba?» chiese naso rotto agli altri due, un indolente grassone e uno smilzo pieno di croste.
«Questa è attrezzatura da medico» rispose lo smilzo, «dovrebbe valere almeno duecento tetradrammi! Che ci sia anche l'unguento per curare le mie croste?»
«Non possiamo toccare nulla di questa roba! Sai che dobbiamo portare tutto al capo. Io sto solo dando un'occhiata... tanto per sapere.»
E infilò lesto la mano nella sacca da viaggio di Svetonio che, steso tra il cordame, cominciava proprio in quell'istante a muoversi con un flebile lamento.
«Questi due vanno legati all'albero, che non possano fare fesserie!» ordinò il capo, il peloso, cercando di distrarre i suoi due soci: dovevano ben esserci delle monete nella sacca del medico, e non voleva farsi vedere mentre vi metteva le mani sopra.
«Non possono andare da nessuna parte, Nepherou» disse lo smilzo, tenendogli gli occhi fissi sulle mani. «Sono legati, se tentassero di scivolare in acqua annegherebbero!»
«Fai quello che t'ho detto, Ammonios! Controlla se hanno qualcosa addosso.»
Ammonios li perquisì accuratamente; col medico impiegò più tempo, perché giaceva stordito sul fondo della barca.
«Dagli una mano, Sìmaris!» ordinò il capo al terzo furfante. La perquisizione si rivelò fruttuosa: sotto la veste Svetonio portava un sacchetto che gli passava intorno al collo con una strisciolina di cuoio.
Un sacchetto pesante.
«È qui, Nepherou!» disse lo smilzo che aveva già tastato le monete.
«Dammelo e non toccate nulla, dobbiamo consegnare tutto al capo, farà lui le parti.»
La feluca continuò la quieta navigazione per un'altra mezza giornata, e sul far della sera gli sguardi dei tre barcaioli e la preparazione delle manovre segnalarono che si stava per prendere terra.

«Come va, medico?» scherzò Nepherou.
Naturalmente Svetonio, sul cui capo era spuntato un bozzo sanguigno grande come mezzo uovo che aveva fatto crosta insieme ai capelli, si guardò bene dal rispondere.
La feluca venne condotta presso una sponda deserta dove un sentiero a malapena tracciato tra le erbacce della riva indicava il passaggio sporadico di qualcuno; venne legata contro la sponda e i due prigionieri furono fatti sbarcare. Dopo alcuni fischi, evidentemente segnali convenuti, vennero all'approdo altri due uomini, sicuramente colleghi dei furfanti a giudicare dalla sporcizia e dagli stracci che avevano indosso. Li accompagnavano cinque ragazzi di varie età, curiosi di vedere i nuovi arrivati.
I prigionieri, con le mani legate dietro la schiena, percorsero duecento o trecento passi in mezzo alle erbacce e a qualche orto di fave e lenticchie. La zona doveva essere malfamata: incrociarono un paio di contadini dalle facce sinistre che non mostrarono nessuna meraviglia nel vedere i due prigionieri guidati come animali.
Le coltivazioni erano misere e piene di gramigna, i ragazzi sporchi e con le vesti piene di buchi; tre magre vacche che pascolavano nei pressi erano coperte di mosche.
Onorazio, la fronte aggrottata, osservava i deprimenti dettagli del luogo, ma prima ancora che potesse aprire bocca per chiedere qualcosa ricevette un calcio che lo convinse a guardare davanti a sé senza rallentare il passo.
Finalmente giunsero a quello che doveva essere il nascondiglio dei furfanti: tre casupole di fango con i consueti tetti di stuoia di palma intrecciata.
Senza una parola vennero spinti dentro il primo tugurio: un omaccione grande e grosso con una cicatrice che gli andava da un lato all'altro della faccia li squadrò senza commentare. Doveva essere il capo della banda.
Ammonios, lo smilzo con le croste, appoggiò a terra la cassetta da medico e consegnò all'omaccione i lasciapassare e la borsa del denaro.
«Non c'è altro? Siamo sicuri che non ci sia proprio altro?» chiese il capo guardandolo torvo.
«È tutto qui, Heraclas. Le tavolette di legno sono i lasciapassare.»
«Vai a chiamare Didymos, digli che c'è da leggere una cosa» ordinò l'omaccione a uno dei ragazzi allungandogli un calcio con familiarità, senza nessun intento di far male.
Il capo, che si era capito chiamarsi Heraclas, uscì all'aperto e quando giunse colui che sapeva leggere, parlottò con lui per un po'.
La conclusione, recitata ad alta voce, fu udita da tutti.
«Io dico che se anche quello è un medico, tra tutti e due non valgono granché.»
«Costui sarà forse un medico» sbottò pronto Onorazio, «ma io sono solo un servo e non c'entro nulla con quello che ha fatto. Mi trovavo per caso sulla feluca, quando i tuoi uomini mi hanno aggredito senza che nemmeno li avessi provocati.»
«Un servo, eh?» annuì il capo dei banditi togliendosi col mignolo un grosso bolo dal naso. «Forse sei davvero solo un servo e non vali nulla, per quanto abbia la chiacchiera pronta. Ma sei un servo ben strano: il mio uomo ti ha guardato le mani e dice che tu non hai mai lavorato in vita tua! Perché ti fai chiamare “Tessitore” dal tuo padrone? Hanno l'udito fino i miei uomini!»
«Ho sempre fatto il tessitore» rispose Onorazio ostentando sicurezza. «Il padrone presso cui lavoravo fino a un paio d'anni fa mi aveva messo a controllare il lavoro degli altri e a tenere i conti dei piedi di tela di lino prodotti da ciascun lavorante, per questo non ho più sulle mani i calli da tessitore.»
Svetonio, pur udendo le chiacchiere del suo aiutante, non riuscì a spiaccicare nemmeno una parola a causa del gran mal di capo.
«Dalla chiacchiera sembri un ciarlatano di strada» sorrise Heraclas, «o un sensale di pecore. Non ho bisogno di intendenti che sorveglino dei tessitori. Io ho una banda da portare avanti. Questi uomini mi costano oro solo per il mangiare! E credo che tu non valga nulla. Forse farei meglio a gettarti nel fiume con una pietra al collo.»
Onorazio, uomo del popolo cresciuto sulle rive del Nilo, sapeva benissimo che in mancanza di tetradrammi d'argento nemmeno gli oboli di rame si gettavano via. Pur valendo poco, secondo il metro di questi predoni, non sarebbe mai finito nel fiume. Deglutì e preferì non ribattere.
Il capo dei banditi diede un calcio a Svetonio per vedere se era sveglio: «Saresti tu il medico?»
«Ah... sì, sono io il medico» rispose Svetonio, ancora stordito dalla randellata.
«Vali qualcosa? O devo buttare anche te nel fiume?»
«No, no! Sono un uomo di valore!» si svegliò prontamente. «Nell'esercito ho un grado equivalente a quello di un centurione.»
L'omaccione sorrise soddisfatto: «Uno dei miei sa leggere e ha visto che sul tuo permesso c'è scritto che tu sei un medico, e che stai andando a Tebe. E la tua cassetta è quella dei medici.» Diede un largo sguardo intorno, ammiccando ai suoi uomini in cerca di consensi, prima di concludere: «Vedrai che qualcosa ci renderai!»
«Capo, e del ciarlatano, quello giovane, cosa ne facciamo?»
L'omaccione sembrò riflettere per un istante, infine scosse il capo: «Il tessitore? Non saprei a chi venderlo. Si vede subito che non è capace di fare nulla, chi vuoi che sia disposto a pagare qualcosa per un chiacchierone?»
«Potremmo forse venderlo a un bordello?»
«No... è troppo avanti con gli anni. Tu ci andresti con uno del genere?»
«No... io no, ma qualcuno che ha poca moneta da spendere forse si potrebbe contentare.»
«Questo medico ci renderà qualcosa. Portali via e legali bene, che non fuggano! Se tentano di scappare da' loro una randellata, se anche li ammazzi è lo stesso, non voglio dover sudare per ogni obolo che ci possono fruttare. Anzi, tieni pronto il coltello: se fanno i furbi da' loro una coltellata nella pancia, ce ne liberiamo e non perdiamo altro tempo! Hai udito, medicastro? Che hai il grado equivalente a quello di un centurione? Te lo devo spiegare meglio? E anche tu, Tessitore?»
La minaccia della randellata e quella del coltello erano state inscenate in modo atroce. Perfino un ragazzino avrebbe capito che era solo una farsa, e che questa era una banda di accattoni morti di fame, furfanti che più poveri non avrebbero potuto diventare. Onorazio se n'era accorto subito e infatti, appena furono condotti in un pollaio il cui terreno era tappezzato da escrementi di galline, e legati a un palo che spuntava da terra, sussurrò al medico: «Questi non sono nemmeno dei banditi, sono degli accattoni che si fingono furfanti. Sono bucolici del delta!»
«Questo dovrebbe farmi contento, Onorazio?»
«Medico, capisco che sei di malumore perché hai preso una randellata, ma io non ci posso fare nulla! Forse con un po' di chiacchiera riusciamo...»
«Tu dici? Hanno in mano i nostri permessi, per quanto siano talmente ignoranti da non capirne il valore. Credi che si possa tentare di convincerli a liberarci?»
«No, non ci molleranno, vogliono dell'argento. Sai cosa stavo pensando? Quello smilzo pieno di croste credo volesse cercare tra le tue medicine qualcosa di adatto per guarirlo. Non credi che potremmo tentare di curarlo per tirarlo dalla nostra parte?»
«Curarlo? E come?»
«Sei tu il medico! Però se non sei capace di curarlo puoi sempre raccontargli una balla! Non mi sembra tanto sveglio.»
Un paio di ragazzi erano rimasti attorno al pollaio a guardare i romani ingabbiati, spettacolo di sicuro poco frequente. Ad essi si rivolse Onorazio: «Andate a prenderci dell'acqua, giovani. Noi siamo prigionieri importanti, non vorrete farci patire la sete?»
«Heraclas dice che non valete niente!» rispose il più sveglio. «Domani vi butteranno nel fiume con una pietra al collo!»
Qualche parola del dialogo fu udita dallo smilzo, quello delle croste, che si trovava nei pressi per sorvegliare i prigionieri: «Vi controllo, voi due, non sognatevi di avviare delle storie coi ragazzi del villaggio.»
«Senti, barcaiolo» gli bisbigliò Onorazio, «dacci da bere! Non ti hanno ordinato di farci morire di sete!»
Forse aveva davvero avuto la consegna di mantenere in salute i prigionieri: infatti da lì a poco si presentò con un orcio d'acqua di pozzo, e fece bere entrambi senza fidarsi a slegarli.
«Bastava che lo dicessi al medico quand'eravamo ancora sulla barca» gli sussurrò Onorazio all'orecchio. «Lui ti avrebbe dato la medicina per guarirti dalle croste. L'anno scorso uno che era nelle tue condizioni non ha voluto prendere le medicine, ed è morto.»
Lo smilzo lo guardò male, la fronte corrugata. Però a qualcosa doveva aver creduto, tant'è che si mise davanti a Svetonio: «È vero? Tu sai cos'è questa malattia? Sapresti curarla?»
«So curarla sì, è scabbia. Qualunque medico sa curarla» gli rispose Svetonio.
«Digli di quel tizio dell'anno scorso, quello che è morto!» suggerì Onorazio in modo alquanto maldestro. «Spiegagli che il primo segno è quando uno si sente un po' strano quando si sveglia la mattina.»
Era solo teatro per convincere lo smilzo, che non essendo un gigante d'intelligenza dimostrò d'aver abboccato: «Cosa vorresti insinuare? Che io sono strano? Stai sprecando il tuo tempo, e forse mi vuoi solo prendere in giro!»
«Si può curare» disse categorico il medico.
«Ah sì? Spiegami un po' come faresti.»
Claudio Rossi
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