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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Giuseppe Saglimbeni
Titolo: Il barone di Palagonia
Genere Romanzo Storico
Lettori 1099 12 13
Il barone di Palagonia
Il Feudo.

Maggio 1906 ovvero L'ingresso al Feudo.


I. La morte di Mastro Carmelo
Erano trascorsi quindici giorni dalla morte di mastro Carmelo, morte improvvisa, subitanea, infarto aveva sentenziato il dottore. Concettina era ancora stordita, la sua mente si era fermata a quando un picciotto che lavorava con suo marito, era corso a casa sua e le aveva detto che il principale aveva avuto un sintomo mentre stavano impastando cimento e quacina . E Concettina non poteva pensare che quel suo marito così forte, energico, che non si stancava mai, potesse in una votata d'uocchi lasciarla sola con una figlia di dodici anni e un masculo di nove. In tanti erano corsi a sapere, a vedere e la casa si era riempita di gente che pareva una festa. Le femmine piangevano, pregavano, cucinavano e pulivano; i maschi chiacchieravano, fumavano, mangiavano; picciriddi grandi e piccoli correvano, giocavano, ridevano, piangevano, litigavano fino a quando qualche uomo dava una voce e tutti si azzittivano. Insomma, pareva che nella casa di mastro Carmelo ci fosse una festa grande dove tutti erano impegnati mentre lui se ne stava solo dentro un tabbuto con a lato quattro candele oramai consumate e spente. E dopo c'era stato il funerale con tanta gente che vasava e abbracciava Concettina e i suoi figli che ancora non si facevano capaci di come il loro padre così forte da caricarseli tutti e due sopra le spalle non ci fosse più.
Per una decina di giorni pareva che la festa con nonni, zii, cugini, compari, comari, amici non dovesse finire mai, anche se ogni giorno mancava qualcuno che c'era stato il giorno avanti. Dopo quindici giorni, Concettina se ne stava sola a piangere nella stanza da mangiare pensando per quanto tempo doveva portare il lutto. A lei il nero non piaceva, anzi le dava come una sensazione di soffocamento. Pensava pure come fare a campare visto che tra funerale, ultima settimana di paga ai due picciotti del marito e altre spese le erano rimasti manco la metà dei soldi che la buonanima di Carmelo le aveva lasciato. E per fortuna che i vestiti glieli aveva dati la cognata di una comare di sua cugina Mariuccia che siccome si era ingrassata era sicuro che quei vestiti non poteva portarli per un altro lutto. Adesso era sola e doveva pensare ai suoi figli. E piangeva Concetta mentre sentiva ancora le mani forti e callose del marito che se la stringeva, quando la vasava e quando le faceva capire che appena scurava voleva fare l'amore. Si meravigliava come dopo una lunga giornata di lavoro avesse la forza per prenderla; pareva sempre affamato, capace che se ne andava a ficcare con le buttane . Ma poi rimosse questo pensiero cattivo chiedendo scusa all'anima del marito. Concettina pensava che, forse adesso era una fortuna che non fossero arrivati altri figli, che il dottore aveva ragione a dirle, dopo che ne aveva perso due di fila appresso a Ciccino, che non poteva averne più. Carmelo, al dottore non ci aveva creduto e continuava a ficcare come quando si erano sposati che era rimasta subito prena di sua figlia Margherita. A Carmelo sarebbe piaciuto avere tanti figli come suo padre e sua madre che ne avevano avuti undici. Invece, pensava Concettina, i suoi genitori ne avevano avuto solo quattro, segno che forse nella sua famiglia si figliava di meno. Intanto si asciugò le lacrime, si prese un bicchiere d'acqua ma neppure il tempo di finire di bere che riprese a piangere pensando al futuro che l'attendeva. Margherita poteva aiutarla a cucire, avrebbe imparato presto e magari, crescendo, poteva fare la criata , tanto era brava e abbissata questa sua figlia. Il problema era Ciccio. Era bravo assai a scuola e sarebbe stato un vero peccato non farlo continuare; ma come poteva permetterselo di mantenerlo a scuola? Doveva mandarlo a travagghiare ma, che poteva fare lui a nove anni? Sicuramente qualcuno, per pietà, se lo sarebbe preso come manovale ma, era siccu siccu , delicato, come avrebbe potuto fare il mestiere di suo padre che era una vera forza della natura?
A scuoterla dai suoi pensieri la voce di Margherita che le diceva dell'arrivo di don Michele che voleva parlare con lei. Michele Benintende, che oramai da qualche anno quasi tutti appellavano con il don, perché era riuscito a crearsi una posizione di tutto rispetto, era un cugino di Concettina, figlio di sua zia Adelaide la sorella più grande di sua madre. Zia Adelaide con la sua famiglia era emigrata in America quando Michele aveva quindici anni. Lui che lavorava nel podere dei baroni Zappulla non era voluto partire perché lì si trovava bene e stava imparando un mestiere. Da lì a poco sarebbe passato nel Feudo dei Palagonia dove con impegno, fatica e tenacia era diventato campiere . Alla morte del vecchio barone, non solo era rimasto campiere, ma ne era diventato anche uno degli uomini di fiducia del figlio Saverio che, tornato dal continente, aveva preso le redini del Feudo gestendolo con mentalità imprenditoriale del tutto nuova in quella zona. Così Michele si era creato una posizione importante che gli aveva fatto guadagnare la stima di mezzo paese che aveva preso a chiamarlo don Michele. E in cambio di questa riverenza, don Michele cercava di elargire favori, rimanendo creditore di tanta gente.
La visita del cugino fece destare Concettina dallo sconforto in cui i pensieri l'avevano portata. Si asciugò le lacrime, si sistemò i capelli, diede una passata con le mani ai vestiti e si presentò al cugino cercando di capire cosa volesse da lei e pensando a come anche lui fosse stato sfortunato dato che la moglie era morta di parto e il figlio che era riuscito a nascere era morto dopo tre giorni. Don Michele non si era voluto risposare; secondo le male lingue faceva la bella vita con le buttanazze ma Concettina a quelle voci non aveva mai voluto credere. “Buongiorno Michele, che fu, che successe?” si erano visti il giorno del funerale e le sue visite a casa di mastro Carmelo erano state sempre scarse. “E' da un paio di giorni che ti penso cugina, sono venuto a parlarti di una cosa: hai tempo per me?” ma si capiva dal tono della voce che il tempo dalla cugina lo pretendeva. “Vieni nella camera di mangiare che stiamo più comodi, così ti posso offrire un caffè o un goccio di rosolio buono che mi portarono per il consolo .” “No Concettina non voglio niente, assittamuni e parramu ”. Così Michele si sedette per primo e appresso a lui la cugina. “La faccio corta” iniziò Michele. “Il barone di Palagonia sta continuando a potenziare le sue attività nel Feudo ed ha comprato tante pecore, vacche e maiali” disse facendole segno di passarle un bicchiere così che si poteva prendere un po' d'acqua dal bummulo che c'era sopra la tavola. “Negli ultimi sei mesi tanti picciotti ranni e nichi sono venuti a travagghiare nel Feudo” Si bevve un sorso d'acqua. “E' quella del tuo pozzo?” “Si, l'aveva scavato Carmelo, qui l'acqua non manca mai ed è sempre frisca e bona .” “Doveva venire a fare dei lavori nel Feudo, come minimo tre mesi di travagghiu .” Si fermò bevendo un altro sorso d'acqua. “E se il lavoro fosse stato buono, come io penso, il barone l'avrebbe chiamato sempre ogni volta che ci sarebbero stati lavori di muratura da fare”. Concettina si rabbuiò, una lacrima le scese, don Michele noncurante proseguì. “Come ti stavo dicendo ancora c'è posto per qualche altro picciotto, e io ho pensato a te cara cugina.” Si fermò, fece una pausa come a sistemarsi i pensieri e riprese: “Adesso che sei vedova come fai a campare? Ho pensato a tuo figlio Ciccio che potrebbe venire a travagghiare al Feudo. La paga per uno che è picciriddu è buona specie se ha il mangiare assicurato tre volte al giorno. Crescendo, se è bravo, può avere qualche responsabilità e la paga aumenta.” “Che dovrebbe fare?” lo interruppe Concettina. “Stare appresso alle pecore insieme a qualche altro picciriddu come lui e ad un picciotto più grande.” “Ma tu ce lo vedi Ciccino in mezzo agli animali, tutto il giorno all'aperto, così delicato com'è? Suo padre voleva che dovesse studiare e manco con lui se lo portava d'estate quando era libero dalla scuola. Non gli faceva fare niente! La maestra gli aveva detto che era bravissimo, il più bravo della classe, che poteva fare le scuole iaute . Lui voleva che suo figlio diventasse dottore, avvocato, oppure ingegnere.” Concettina si interruppe singhiozzando dalla commozione. Si prese anche lei un bicchiere d'acqua. “Pensa che si faceva controllare i conti dal picciriddu e che si faceva scrivere da lui le lettere di pagamento.” Si fermò assorta dai pensieri. “Mi sembra di farci un torto al povero marito mio mandando Francesco a lavorare con l'animali.” E scoppiò a piangere. Nella camera accanto Francesco e Margherita spiavano quello che i due adulti si dicevano. “Non lo faccio il pecoraio io, non vado a lavorare con gli animali.” Disse Francesco mentre la sorella con il dito indice sul naso gli faceva segno di non parlare. “Cugina te ne devi fare una ragione. I quattro soldi che Carmelo ti ha lasciato finiscono presto e non puoi vivere dell'elemosina dei to frati e di quelli di Carmelo, né puoi campare buona e darci un futuro ai tuoi figli cucendo ogni tanto qualche vestito. Purtroppo, è capitato sta disgrazia e la tua vita non sarà più quella di prima. Se Ciccio è sperto come dici tu, allora stai tranquilla che si farà strada nel Feudo e comunque, alla prima occasione, te lo prometto sull'anima dei nostri morti” e si mise la mano sul petto con fare solenne, “gli trovo un posto migliore”. Concetta Vaiasicca si mise a piangere consapevole del destino amaro che l'attendeva e del fatto che Francesco per forza doveva andarsene a lavorare, fosse anche per lui stesso e il suo avvenire. Era convinta che il cugino avesse veramente intenzione di sistemarlo bene, glielo aveva giurato sull'anima di sua moglie e lei sapeva quanto le voleva bene e quanto disperato fosse stato quando lei morì. Sentì uno strazio nel pensare che sarebbe rimasta senza masculi in casa: dapprima l'amato marito morto d'infarto, poi il figlio, un pezzo del suo cuore, costretto ad andarsene a travagghiare lontano, ancora così nicu, ancora bisognoso di sua madre specialmente adesso che suo padre non c'era più. Don Michele lasciò che la cugina piangesse e si sfogasse. Portarle via il figlio sarebbe stato un gran colpo ma sapeva che prima o poi doveva succedere e meglio che a farlo fosse stato lui che poteva vigilare sul bambino. E poi nel Feudo aveva bisogno di picciotti che gli erano fedeli e che crescendo diventavano suoi uomini fidati. Nel Feudo i campieri erano tre; don Michele sapeva benissimo che bastava un niente per far girare la fortuna ed allora meglio sapersela tenere buona, fare in modo che il barone lo avesse sempre in grande considerazione. Ciccio faceva proprio al caso suo perché il debito di riconoscenza che avrebbe avuto nei suoi confronti sarebbe stato grande, come quello della cugina che a tempo debito si sarebbe sdebitata come avrebbe voluto lui. Don Michele al pensiero fece un sorrisetto, si lisciò i baffi, poi con fare serio strinse le mani della cugina che continuava a piangere. “Concettina me lo prepari un caffè che mi è venuto pititto ?”. “Si Michè te lo faccio subito”. Si alzo e ancora in lacrime iniziò a trafficare con la macchinetta.
La tenuta dei baroni di Palagonia era chiamata da tutti il Feudo, sia perché era grande come un feudo sia perché si dice fosse un possedimento dei Palagonia fin dal 1200, anche se i primi documenti che ne attestavano la proprietà risalivano al 1600. Con il tempo i vari baroni succedutosi l'avevano ingrandito acquistando terre da altri nobili in difficoltà, oppure modificando nottetempo confini che poi spuntavano dal nulla in documenti che ne attestavano la proprietà. Così dal mare lungo la foce del San Leonardo le terre si estendevano nella piana di Catania, abbeverati per un lungo tratto dal Simeto e poi continuavano verso le colline circostanti nei territori di Francofone, Palagonia e Mineo. Il vecchio barone aveva consolidato tutti i possedimenti facendo registrare certificati di proprietà veri o presunti tali, presso il regio catasto subito dopo l'annessione del Regno delle due Sicilie al Regno d'Italia, cosicché nessuno potesse vantarne alcun diritto. Oltre al Feudo i baroni possedevano una grande casa nobiliare in centro a Catania e una villa al mare di Acitrezza con tanto di porticciolo in cui potevano attraccare piccole imbarcazioni. A dire il vero la villa al mare apparteneva esclusivamente al baronello Giovanni Maria come lascito avuto dal nonno materno e visto la sua giovane età, veniva amministrata dal padre che la considerava un tutt'uno con il resto delle proprietà. Il barone Saverio che per anni era vissuto in continente e all'estero, alla morte del padre era tornato in Sicilia ed aveva deciso di far fruttare le sue terre che fino ad allora erano rimaste per la maggior parte incolte. Nel giro di una decina d'anni, grazie anche alla liquidità della dote della moglie, investendo nelle sue terre, era diventato un importante imprenditore agricolo capace di vendere i propri prodotti nel resto d'Italia e all'estero.
Don Michele si gustò il caffè un sorso alla volta, non perché fosse particolarmente buono ma per pensare a come dire alla cugina che lui partiva nel pomeriggio per il Feudo e che pertanto Francesco lo doveva portare subito con lui. Poi doveva discutere della paga e dirle che comunque una parte di essa spettava a lui stesso così come per tutti quelli che faceva assumere al Feudo. Fu la stessa donna a fargli capitare i discorsi a proposito. “Allora Michele, appena Francesco finisce la scuola te lo vieni a prendere così magari lo puoi provare per l'estate e se non va bene per quel lavoro lo riporti qua a settembre.” “Nonsi cugina, Francesco me lo porto subito, ora c'è bisogno, non fra un mese. Io nel pomeriggio passo con il carretto e me lo fai trovare pronto con le sue cose.” “No, no, no ora no. U figghiù mio, ora no.” Concettina si mise a piangere disperata. Protestò che era troppo presto e che così, avrebbe perso l'anno scolastico, e poi lo doveva preparare bene al distacco, era ancora troppo scosso dalla morte del padre. Don Michele si alzò di scatto dalla sedia e con fare duro guardò fisso negli occhi la cugina: “Concetta io sono venuto qua per darti una mano per riguardo tuo e della buonanima di tuo marito che stimavo come uomo e come mastro muratore.” Fece una pausa poi, prima che la cugina potesse parlare riprese: “Ho la fila di gente che vogliono che mi porti i loro figli a travagghiare al Feudo. Ho voluto dare la precedenza a te cugina ma evidentemente ho fatto male. Tra qualche mese a chi chiedi aiuto? Ai tuoi frati che fanno la fame in mezzo al mare o ai tuoi cognati che sono ancora più scarsi di loro? Oppure ti sposi per procura e te ne vai in America? Sempre che trovi qualcuno che si accolli una vedova con due figli!” Concettina riprese a piangere, dallo sconforto, le cedettero le gambe e si dovette sedere. Don Michele riprese. “Io ora me lo posso prendere, perché ora c'è bisogno; quando ti decidi tu o quando ne hai bisogno forse non ci posso fare più niente e non mi va proprio di farti l'elemosina a te che ti ho sempre tenuta in considerazione visto che eri attaccata alla buonanima di mia mugghieri .” Dicendo questo si fece il segno della croce baciandosi le dita chiuse a cacuocciola della mano destra. Concetta si sentì disperata. Sapeva di non poter fare niente, che doveva rassegnarsi all'idea di dare suo figlio al cugino per il bene del figlio stesso. “Ogni quanto me lo fai vedere?” “Mica è carcerato tuo figlio?” “Quando posso e il lavoro lo consente scendo qua e te lo porto così può stare con te due o tre giorni. E poi quando le pecore stanno dentro le stalle, se non c'è niente da fare te lo lascio qui anche più giorni pagandolo come se stesse travagghiannu.” “Aggiuralo ” e piangeva che manco per la morte del marito Carmelo. Don Michele se l'abbracciò forte. Sentiva di essere stato un po' fituso con lei ma ormai era andata così e forse era la cosa migliore per tutti. “Di tutti i picciotti e picciriddi mi prendo un quarto della paga, di Ciccio mi prenderò solo un quinto il resto te lo farò avere ogni inizio mese quando io scendo e, se non posso venire, te lo faccio avere da qualche persona fidata.” “Michele fai quello che è giusto fare, però lascia a Francesco qualcosa di soldi che se li tiene lui.” “Allora facciamo un quinto per me, un altro per Francesco e il resto te lo vengo a portare a te.” Dicendo questo strinse la mano a sua cugina come a suggellare un accordo. “Verso le due, oggi pomeriggio, vengo a prenderlo. Fammelo trovare pronto. Devo arrivare al Feudo prima di sera e la strada è lunga”. Concetta continuava a piangere disperata e rassegnata. “Adesso il dolore è tanto cugina, vedrai che con il tempo capirai che hai fatto la cosa giusta. E poi capace che Francesco fra qualche anno ti darà grosse soddisfazioni”. Disse questo riabbracciandosi la cugina, non facendosi scrupolo di stringerla oltremodo a sé in modo da poterne sentirne le fattezze. Nella stanza accanto Francesco piangeva abbracciato a sua sorella che lo accarezzava e lo baciava cercando di consolarlo. Non riusciva a capire perché la madre volesse mandarlo via a lavorare, proprio lui che il padre non l'aveva mai fatto lavorare perché doveva diventare uno importante. Si abbracciò ancora più stretto alla sorella, disperato. Voleva che suo padre fosse lì per dire a tutti che non doveva muoversi di casa, che doveva andare ancora a scuola. Perché era morto suo padre, perché?
Giuseppe Saglimbeni
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