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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Nat Hush
Titolo: Bianco carta da zucchero
Genere Narrativa
Lettori 2814 124 14
Bianco carta da zucchero
Focus su quattro e ... sei.

Il mio quarto compleanno, quello sì che era stato un giorno speciale.
Mamma si era svegliata canticchiando un allegro motivetto e a piedi nudi, roteando su sé stessa, era entrata in cucina. Papà, pochi istanti dopo, l'aveva raggiunta, aiutandola a preparare la colazione con un insolito entusiasmo.
C'era troppa intimità nei loro sguardi, un'intensità a cui non ero abituata. La cosa anche se inaspettata, mi piaceva tantissimo.
Prima di spegnere le candeline, il mio desiderio era già stato acceso.
La festicciola organizzata in mio onore era stata riservata ad un ristretto gruppo di persone. Dieci in tutto, fra adulti e bambini. C'erano ovviamente nonno Riccardo e nonna Ada, i genitori dei miei due amichetti del cuore e, con un po' di ritardo, si era unita a noi anche zia Gemma.
L'ora di arrivo era stata fissata per le sedici. La casa era letteralmente invasa da palloncini, da caramelle, matite colorate, gomme per cancellare e fogli da disegno sparsi un po' ovunque. Su un tavolino erano state posate numerose scatole di giocattoli: quella delle formine, quella delle perle da infilare nelle collanine, le pozioni magiche e le immancabili bolle di sapone.
Dal soffitto scendevano festoni colorati che, con le loro bandierine e le ghirlande in movimento, si intrecciavano armoniosamente.
Quel giorno impegnata com'ero a giocare, avevo addirittura saltato l'appuntamento con il sonnellino. Mamma infatti, aveva creato uno straordinario spazio morbido, con tappeti in velluto, cuscini in gomma piuma leggeri e vaporosi, tanto da farci immaginare di essere pirati o damigelle in pericolo e, quasi senza prendere fiato, noi saltando, facendo giravolte, avevamo compiuto i nostri più straordinari e fiabeschi assalti sui velieri, lottando senza tregua con spade di stoffa e scudi di cartoncino resistente.
La merenda era un tripudio di colori, un buffet ricco e vario: crostate alla nutella, biscotti alla vaniglia, muffin ai lamponi, spremute d'arancia e frullati alla frutta.
C'era anche l'angolo musicale con i nostri motivetti preferiti: l'orso Salvatore, il pennello Antonello, Uga la tartaruga.
Mamma non aveva lasciato nulla al caso, e zia Gemma non aveva tardato a farglielo notare «Marcella il tuo invito l'ho accolto con piacere, immaginavo che avresti organizzato tutto alla perfezione. Ci metti il cuore in tutto quello che fai e poi se si tratta di tua figlia non ne parliamo. Ma guardala come si sta divertendo!»
Ecco che i loro occhi orgogliosi, si erano spostati contemporaneamente su di me.«Sta crescendo in fretta e forse, io che la vedo così di rado, noto ogni suo minuscolo cambiamento più di quanto possa farlo tu!»
Zia faticava a parlare e, dopo ogni parola, faceva lunghe pause. Sembrava una donna molto infelice e triste, a pensarci bene non l'avevo mai vista con un compagno o con degli amici, visto che spesso, preceduta da quell'aura malinconica e desolata, si presentava alle nostre feste da sola.
Vestiva in modo bizzarro: pantaloni e camicie dal taglio maschile, capelli corti a spazzola, molto magra e senza un filo di trucco, era molto protettiva nei confronti di mamma, con lei aveva un'intesa speciale. Spesso parlando a bassa voce si facevano confidenze segrete, sembravano quasi isolarsi dal mondo ed entrare in una dimensione misteriosa e forse anche un po' proibita.
Zia Gemma aveva solo un paio di anni meno di papà, ma in realtà ne dimostrava molti di più.
Lui la guardava sempre con infinita tenerezza e si capiva che avrebbe voluto lenire il suo dolore, cancellando quell'espressione sconsolata dal suo volto.
«Lo sai, mi piacerebbe trascorrere più tempo con te. Per me non ci sarebbe alcun problema, te l'avrò ripetuto almeno un centinaio di volte.» mamma dicendole queste parole le aveva preso le mani accarezzandole delicatamente.
«Piccola cara, non vorrei aggiungere altri pensieri alle tue interminabili e faticose giornate. Hai una bambina piccola, molto dinamica da crescere, una casa a cui badare e poi, so che finalmente sei riuscita a ritagliarti un piccolo spazio personale.» le aveva risposto lei, ricambiando quel gesto così affettuoso.
«La rinuncia agli studi è stata una decisione sofferta ma inevitabile e dire che ero a un passo dal diploma, come vedi però, quegli insegnamenti ora mi stanno tornando utili. Eh già, il liceo artistico di Dubbiano mi manca ancora oggi.» mamma scivolando in quei ricordi si stava rattristando ed ecco la ragione per cui zia si era affrettata a interromperla «Non pensarci più Marcella, dopotutto proprio grazie a quel liceo ci siamo incontrate, mamma in quel periodo stava bene...» anche se mordendosi un labbro era sbiancata all'istante. «Perdonami, non so nemmeno io perché l'ho detto.» si era scusata abbassando lo sguardo.
Mai come in quel momento l'intervento di nonna Ada era stato così azzeccato
«Marcella, volevo dirti che siamo pronti per la torta, ma, tutto bene?» e come di consueto a lei non sfuggiva nulla.
«Sì, sì certo. Stavo dicendo a Gemma del mio nuovo passatempo.» anche se mamma non si faceva mai cogliere impreparata, soprattutto da lei.
«Be' per me un recupero scolastico sarebbe stato un passatempo migliore.» aveva replicato nonna con vivo disappunto, spegnendo per un attimo il suo entusiasmo.
«Capirai, stare tutto il giorno chinata a decorare pezzetti di legno, rischi di farti venire una spiacevole e quanto mai fastidiosa cervicale.» aveva proseguito, minimizzando la questione.
«Meglio che stare tutto il giorno a criticare gli altri, almeno sua figlia fa ciò che le piace senza infastidire nessuno» zia Gemma, con quella sua inconfondibile voce roca, non riuscendo a tollerare l'atteggiamento distruttivo della nonna, girandosi sullo sgabello, l'aveva fronteggiata con coraggio.
«Certo cara, tutte le persone normali dovrebbero fare ciò che a loro piace.» e nonna alle provocazioni rispondeva forse un po' troppo istintivamente. E mentre si allontanava, dirigendosi verso gli ospiti, ancora non completamente appagata «Quelle normali.» era tornata a ripetere lasciando intendere qualcosa.
Zia Gemma, ignorandola completamente, focalizzando tutta la sua attenzione su mamma, si era precipitata a dire «Decorare bomboniere per la cooperativa sociale Zollette e Pennelli la trovo una scelta davvero nobile. Aiutare i bambini di strada, offrire un'opportunità alle persone disabili, sostenere gli anziani, sono azioni importanti che annullano del tutto le differenze.» una breve riflessione e poi «Sono creazioni molto raffinate, esprimono l'innata capacità che hai di amare gli altri più di te stessa e di sicuro queste sono qualità che non hai ereditato da tua madre!»
Quella precisazione, inevitabilmente, aveva innescato una sonora risata, reazione emotiva colta dalla diretta interessata che, a qualche passo da loro, per nulla divertita, le aveva squadrate con disapprovazione, ma quella loro ilarità presto si era trasformata in vivo stupore, visto che papà avvicinandosi a me, per la prima volta da quando ero venuta al mondo, mi aveva presa tra le sue poderose braccia.
«Marcella, c'è forse qualcosa che non mi hai ancora detto?» impaziente come non mai, esattamente in quel momento, gli occhi di zia brillavano di trepidante attesa.
«Sì Gemma, avrei voluto farlo appena sei arrivata. Stanotte siamo stati così vicini. Stanotte per la prima volta mi sono lasciata andare, ho cancellato tutto, sono stata sua moglie.» era stata la risposta di mamma persa in un sussurro delicato.
Che cosa nascondeva quella confidenza di così emozionante, cosa aveva di così eccezionale? Perché loro pazze di gioia, improvvisamente sembravano una coppia di donne ubriache?
Nel frattempo, papà aveva interrotto quel piacevole momento, ed io ancora sprofondata dentro le sue braccia, intuivo che presto l'atmosfera sarebbe cambiata. Infatti, dopo essersi avvicinato all'orecchio di mamma, le aveva bisbigliato che da lì a poco, tutt'intorno si sarebbe fatto buio.
Che incredibile sorpresa ogni cosa era stata organizzata in mio onore e gli occhi di tutti puntati su di me, mi facevano sentire come una principessa che si apprestava ad andare a un ballo Viennese.
La torta che era apparsa dal buio con le sue piccole candeline rosa anche se non illuminava del tutto la stanza, lasciava supporre che quello era un prodotto di alta pasticceria e, non appena la luce era tornata, quell'ovazione generale l'aveva ampiamente confermato.
Tutti sembravano incantati da quella dolcissima opera d'arte composta da tre piani di pan di spagna con strati di crema pasticcera alternati a quelli con polpa di lamponi, con quei bordi legati da una striscia spessa di pasta di mandorle, fermata da un magnifico ed elegante fiocco, la cui superficie sommersa da piccoli lamponi rossi mescolati a deliziosi ciuffetti di panna montata, ricordava la schiuma del latte confusa in mezzo ai frutti rossi liofilizzati.
Ahimè... con l'acquolina mi era stato chiesto di fare ancora un piccolo sacrificio, cioè quello di spegnere con un solo soffio quelle quattro tremolanti candeline. Il mio visino non riusciva davvero a concentrarsi su quel compito così difficile, fermare gli occhi smaniosi che non smettevano un solo istante di vagare da un punto all'altro della torta, era stata una prova difficilissima di autocontrollo. Ma ecco, finalmente, avevo messo a fuoco quel bersaglio luminoso e, dopo aver riempito i polmoni di aria, con tutte le mie energie, avevo letteralmente alitato su quel succulento, morbido e delizioso dolce che tutti, già da svariati minuti, sognavano di assaporare.
Le risate si erano fatte contagiose, riempiendo in pochi istanti l'intera stanza. Sicuramente in quella situazione ero apparsa molto buffa. In fondo vedere tutti così felici e spensierati era la cosa che più importava ed io, consapevole di aver contribuito alla buona riuscita di quella festa, mi sentivo davvero fiera di me stessa.
Pochi attimi dopo la confusione era diventata religioso silenzio, le bocche di tutti erano in movimento e le papille gustative, letteralmente in solluchero.
Dopo quel celestiale momento, un riordino sbrigativo: bicchieri di plastica e piatti di carta a turno erano stati depositati dentro un sacco nero che mamma, smaniosa di chiudere al più presto, teneva aperto, porgendolo con frenesia a tutti gli invitati.
Terminata quella concitata processione, la mia attenzione era stata rapita dalla pila di regali che via via si andavano formando sul tavolo davanti a me. Ognuno posava il suo pacco infiocchettato con la sola gioia negli occhi di donarlo, perché un regalo fatto con il cuore è piacere per chi lo fa, prima ancora di chi lo riceve. Si pensa alla persona a cui è destinato e se si realizza un desiderio, un senso di calore invade il cuore. Questo lo avevo letto nei loro occhi, di fronte ai miei che si erano illuminati di gioia e dilatati di gratitudine.
Ormai più che dai regali ero sommersa dalla carta, dai loro nastri e dai cordoncini. Quelli ben confezionati, in particolare a forma di caramella, avevano aumentato a dismisura la mia curiosità.
Quante sorprese inaspettate!
La mia amichetta Nina e i suoi genitori mi avevano comprato delle pantofole giganti dove i miei piccoli piedini sarebbero scivolati nientepopodimeno che dentro la testa di Minnie. La famiglia di Paolino, una simpatica tenda da gioco contenente cento palline di gomma colorate. I nonni, una deliziosa borsetta in tessuto rosa trapuntato, dove finalmente avrei potuto riporre la mia ormai consunta e sbiadita Poppa.
Mamma e papà, conoscendo bene la mia predilezione per l'acqua, il galeone dei pirati e, infine, il curioso, ma assai originale dono di zia Gemma, un fagotto di stoffa con i colori e la forma di un arcobaleno «Guarda piccola mia, dietro a questo arcobaleno c'è una cernierina. Solo tu con la tua mano puoi entrare in questa fessura. Qui troverai tutto il materiale necessario per inventare il gioco che piace a te. È l'arcobaleno dei desideri. È semplice, tocchi l'oggetto, lo percepisci al tatto e, senza guardarlo, pronunci il suo nome a voce alta. Se è quello giusto, l'arcobaleno ti ricompenserà realizzando il tuo desiderio.» mi aveva spiegato chinandosi lentamente sopra di me.
Improvvisamente il silenzio era calato. Forse ogni presente, avrebbe desiderato mettere alla prova all'istante le potenzialità di quel fagotto colorato, ma nessuno, alla fine, si era azzardato a dichiararlo apertamente, anche perché se non avesse funzionato, chissà cosa avrebbe comportato.
Una cosa era certa, come se quell'oggetto avesse realizzato il mio primo desiderio, gli ospiti avevano iniziato a rivolgerle qualche sorriso.
E così senza neppure averlo sfiorato quel magico sacco variopinto aveva fatto dell'indifferenza la differenza.
Papà, nel frattempo, si era assentato ma, pochi minuti dopo, quando era tornato, in mano, l'ennesimo pacco. Bene le sorprese non erano ancora terminate.
«Questo è da parte degli altri nonni.» si era affrettato a spiegare.
Eh già perché loro erano gli altri nonni, quelli che non vedevo mai, quelli che non erano mai presenti, quelli di cui non sapevo mai nulla.
L'imbarazzo tra i presenti che, nel frattempo si erano lanciati delle occhiatacce eloquenti, era davvero palpabile e, anche se l'intenzione di papà era stata quella di non far sfigurare i suoi genitori, mettendo a tacere in qualche modo le malelingue, l'espressione di mamma diceva tutt'altro.
Ecco perché cambiando intonazione, papà aveva provato in qualche modo a rimediare «Oggi avrebbero voluto esserci, ma sapete, la salute di mamma e le incombenze lavorative di papà. Ma vediamo cosa nasconde questo scatolone, speriamo non sia un altro galeone.» aveva azzardato scuotendolo leggermente.
Quella possibilità era totalmente da escludere, ovviamente papà l'aveva utilizzata per poter cambiare discorso.
«Noo» e il boato che aveva provocato quella supposizione, indicava che in qualche modo ci fosse riuscito.
Piano piano mi aveva aiutata a scartocciarlo. Era davvero stato imballato a regola d'arte e da quella confezione sembrava non smettessero mai d'uscire pezzi di plasticai e adesivi di ogni forma e colore.
«Cara marmotta, i nonni hanno pensato bene di farmi lavorare. Credo sia un gioco che faccia proprio al caso tuo, a te che piace arrampicarti ovunque. Guarda Marcella, è una piccola casa dei giochi con scivolo e altalena incorporata. Credi che troveremo ancora spazio nella sua cameretta?» le aveva domandato per coinvolgerla, ma fors'anche per cancellare quell'espressione contrariata dal suo volto.
E sì, devo ammetterlo, era stata una giornata davvero meravigliosa.
La stanza svuotata da quei sorrisi e da quelle grida festose, non sembrava essere neppure la stessa di poco prima.
Qualcosa di strano aveva pervaso il mio stato d'animo, insinuandosi nel profondo del mio cuore. Sapevo che quello che avevo appena vissuto si era già infilato nel corridoio del passato. Nulla sarebbe tornato perché tutto era già stato.
Quel giorno avevamo saltato la cena, quel miscuglio di cibi e bevande, era bastato a far tacere la fame che puntualmente bussava dentro il nostro stomaco e poi papà sembrava aver tutt'altro per la testa. «Cara, lascia stare, riordineremo domani. Questa notte vorrei regalarti una stella, il frutto del nostro amore che, se solo Dio volesse, coronerebbe tutte le nostre speranze.»
Anch'io ero sfinita ecco perché dopo il loro bacio della buonanotte, avevo stretto forte al petto Poppa, chiedendole con un filo di voce «Poppa, quando papà prenderà la stella per la mamma, ti prego svegliami!»
Purtroppo, però, gli anni da quella sera erano volati via in fretta, e di quella stella nessuno aveva avuto più notizie.

Quella mattina aveva un sapore pigramente autunnale. Inginocchiata sulla sedia, sbirciavo dalla finestra.
Gli alberi del giardino sembravano infreddoliti, si stavano completamente spogliando, altri iniziavano a tingersi di giallo e arancio. Il tappeto di foglie marroni era mosso dalla forza del vento, ma fortunatamente i ciclamini e gli anemoni con i loro colori, ravvivavano l'atmosfera di quello scenario un po' malinconico.
Lo zaino giallo come le foglie autunnali profumava di nuovo. Mamma aveva cercato di non appesantirlo troppo, ma l'astuccio, il diario, le matite, i colori e i quaderni lo avevano reso abbastanza voluminoso.
Ebbene sì, iniziava una nuova avventura ed io ormai ero pronta a separarmi dall'ambiente familiare per affacciarmi al mondo esterno.
«Mara tu sei una bambina intelligente. Sono sicura che andrà tutto bene, ma ricordati che ora dovrai seguire alcune regole. I ritmi e gli orari della tua vita subiranno alcuni cambiamenti. Non ti voglio spaventare, vedrai, tutto avverrà in modo naturale. La maestra ti insegnerà a leggere e a scrivere e poi conoscerai tanti bambini simpatici.»
Mentre parlava, mamma gesticolava velocemente, perché in realtà l'unica ad essere terrorizzata era lei.
Io ero impaziente, desideravo capire il meccanismo di quelle lettere e di tutti quei numeri. Questa per me era magia. Gli adulti avevano quel potere che a me era stato tolto, facendomi tornare un cucciolo senza memoria. Sì ancora con questa assurda ed ostinata teoria, cioè quella di ripetere la strada già percorsa e solamente per perfezionarla.
Superato l'ingresso della scuola, avevo sentito l'agitazione comprimere il mio respiro. Non fare la sciocca, mi ero detta, che vuoi che sia. Intorno una marea di bambini, un andirivieni confuso di maestre e allievi. La mano di mamma era ancora dentro la mia, mi stringeva forte, ma sapevo che presto non ci sarebbe più stata. Poco dopo, infatti, la campanella aveva dichiarato l'inizio della mia prima giornata scolastica. La mamma era uscita dalla classe con gli occhi lucidi, il mio cuore si era fermato un secondo pensandola triste, ma l'arrivo di Nina aveva illuminato all'istante il mio viso.
Inspiegabilmente, tutti i bimbi si allontanavano, nessuno desiderava averla come vicina di banco. Prontamente, vedendola così smarrita, io le ero andata incontro e, riempiendola di baci l'avevo rassicurata, un posto vicino a me ci sarebbe stato per tutti quei lunghissimi cinque anni.
La maestra si chiamava Serena, era minuta, aveva forme infantili, la carnagione chiara, i capelli castano scuro e i suoi occhi ancora più scuri erano luccicanti e luminosi come specchi arabi.
Non si era ancora presentata che ci aveva già informato che da lì a poco sarebbe arrivata un'altra maestra.
«Sono un po' lenta e non ci vedo bene, ho proprio bisogno di lei!» ci aveva spiegato sorridendo timidamente.
«Lenta? Ma lei è già qui. Che dice signora maestra?» aveva puntualizzato una voce che proveniva dal fondo dell'aula.
«Eh già, la mia compagna di lavoro è un po' in ritardo, non ha la patente e i mezzi pubblici, cari bambini, sono un vero disastro!» alzandosi sulle punte dei piedi, cercando di trovare il volto di quel bambino, gli aveva sorriso dolcemente e, per un breve istante, quella tenerezza così placida e spontanea mi aveva fatto pensare a mamma.
Qualcuno aveva bussato alla porta, si trattava proprio della ritardataria. Trafelata, imbarazzata e spettinata, la donna aveva fatto irruzione nella stanza che, nel frattempo, era tornata silenziosa.
Alta e magra, carnagione scura, capelli chiari e lunghissimi, occhi azzurri e trasparenti come il cielo. Bene, esattamente l'una l'opposto dell'altra, anche se la solarità e la simpatia, invece, le rendevano molto simili.
«Io sono Sonia e sono l'altra vostra maestra. Questa classe è quella delle stelle marine, vedete che belle pareti azzurre? Sì, proprio come il mare e voi bambini, ci crediate o no, siete quelle bellissime stelle, allora vogliamo iniziare provando a disegnarle?»
La maestra non si era di certo persa in chiacchiere e dando una rapida occhiata all'orologio che aveva al polso, sembrava che si fosse resa conto di quanto fosse tardi.
«Bambini trasformiamo questa aula! Potremmo appendere alle pareti tanti pesciolini colorati, disegnare coralli, agili delfini, ricci e cavallucci marini!»
«Ma è roba da femmine, a me piacciono i dinosauri!» aveva protestato la stessa voce di poco prima e sì, era proprio quella di quel bambino con una cicatrice rossa sulla fronte.
«Caro, non conosco il tuo nome e questo mi ha fatto ricordare che non ho ancora fatto una cosa importantissima, non è vero Serena? Bambini l'appello! Vogliamo conoscerci come si deve? E grazie al tuo intervento...» gli aveva detto lei indicandolo e lasciando la frase a metà per incoraggiarlo a presentarsi.
«Loris, mi chiamo Loris Mazzini.» si era affrettato allora lui a rispondere.
«Ecco Loris, visto che mi hai aiutato a ricordare una cosa importantissima, tu sarai il primo bambino a disegnare un dinosauro marino, che ne dici Loris?»
Certo che quel bambino era davvero strano. Si era seduto nell'ultima fila, non ci vedeva neanche tanto bene e, da laggiù, riusciva a fare anche un gran chiasso.
«Bisogna iniziare questo anno scolastico in allegria e questa è la prima parola che oggi imparerete a scrivere. Sì, sì vedrete. Ora mi avvicino alla lavagna e le do forma usando questo gessetto rosso. A turno vi chiamerò e la scriveremo insieme. Vedrete, è semplicissimo, sarò io a guidare la vostra mano. Su svelti, siete diciotto bambini, forza formiamo gruppi da tre!»
La maestra Sonia, stava andando a ruota libera, non si capiva da che parte volesse veramente iniziare ed ecco perché la signorina Serena, forse confusa come se non più di noi, senza proferir parola le aveva rivolto un'occhiata sconcertata.
Ma dopo quell'iniziale momento di disagio ci eravamo messi subito all'opera, e il silenzio calato compatto nell'aula mi aveva anche permesso di udire quello strano scambio di informazioni, io che tra l'altro avevo scelto di sedermi in prima fila.
«Senti Serena sulla salute di Loris, il suo papà mi ha rassicurata. Il QI è 110, di recente non ha avuto nessuna crisi di rigetto. Anche Giannina è una bambina molto tranquilla, ha proprietà verbali superiori alla media.»
«Bene Sonia, invece il bimbo con la forma meno grave del CdLS sta nella classe qui accanto?»
Ne ero quasi certa, quello era spionaggio scolastico e loro stavano comunicando utilizzando codici segreti.
E questa era stata anche la prima cosa che avevo raccontato a mamma, ancor prima di balzare in macchina e di arrivare a casa.
Alla guida della sua mitica panda rossa, senza mai distogliere lo sguardo dalla strada, lei mi aveva ascoltata con espressione partecipe.
«Sì, sono sempre lì che bisbigliano. La maestra Serena, proprio come il suo nome, è molto tranquilla, mentre la maestra Sonia è tutta un fermento. Quella più dolce e paziente come te, osserva con attenzione Nina e anche quel bimbo che è proprio un terremoto. Loris, sì, si chiama così. Durante la ricreazione ho sentito parlare di lui da altri bimbi, dicevano che erano contenti che non fosse finito in classe con loro, perché spesso sviene e prima di farlo vomita dappertutto.»
A quel punto mamma che sembrava essersi persa nei suoi pensieri, si era girata di scatto, ma subito dopo stringendo forte il volante era tornata a fissare l'asfalto.
Io proprio non riuscivo a smettere di parlare, avevo troppe cose da raccontare « e così abbiamo formato dei gruppi di tre, la maestra ha fatto dei bigliettini che dovevamo estrarre a turno. Siccome siamo in diciotto i gruppi erano sei. Infatti, oggi ho imparato che diciotto diviso tre fa sei. C'era il gruppo delle onde azzurre, quello dei sassolini blu, dei secchielli bianchi e io, secondo te a quale appartenevo?» le avevo domandato saltellando sul sedile, smaniosa di conoscere la sua risposta.
«Non saprei, a naso direi quello delle marmotte arancioni.» Era incredibile, mamma si lasciava coinvolgere con estrema facilità, così come, con estrema facilità non si sottraeva mai al suo ruolo di madre giocherellona e partecipe.
«Ma no, ma come ti viene in mente, io appartenevo a quello delle girandole verdi e poi le marmotte nemmeno c'erano. Ah ah!» le avevo detto esplodendo a ridere.
La sua immaginazione superava di gran lunga la mia, ed era una cosa che mi piaceva molto di lei, oltre alla sua dolcezza e a quel suo immenso candore fortemente avvolgente.
«La sorte ha voluto che anche Nina fosse nel mio gruppo, però con quel braccino corto, sai mamma, quanta fatica fa. Non riesce a colorare bene, il foglio le si sposta in continuazione. Con Beatrice, l'altra bimba delle girandole, abbiamo cercato di aiutarla, ma poi è corsa subito da noi la maestra Serena, perché a Nina le stavano venendo le lacrime agli occhi. Ma mamma, davvero quel braccio non potrà mai più essere come l'altro?»
Questo pensiero mi aveva rattristato molto e con un nodo alla gola ero a malapena riuscita ad esprimerlo, riflettendo sul fatto che nel mondo immaginario del mare, delle conchiglie e delle sirene, le braccia non servis-sero, mentre in quello in cui realmente mi trovavo, anche la più piccola diversità rendeva tutto così tragicamente complicato.
«Probabilmente Dio ha grandi progetti per lei, e poi Nina è perfetta così! Quel braccino corto che la fa tanto disperare credimi, non le è stato dato per farla sentire diversa, bensì per renderla speciale!»
Quando mamma faceva riferimento a Dio, il mio cuore iniziava a pulsare forte. Ne parlava spesso e lei sembrava confidare totalmente in lui. Ricordavo di aver sentito quella presenza indefinibile e nebulosa quando ero stata dentro di lei, ciononostante ne avevo ancora timore, perché ero spaventata dalla sua forza e intimidita dalla sua volontà a volte così incomprensibile e paradossalmente oscura. Mamma sorpresa dal mio improvviso silenzio, si era precipitata a chiedermi «Allora, su dimmi, qual è stato il momento più bello di questo tuo primo giorno di scuola?»
Non avevo alcun dubbio, era troppo facile, e senza rifletterci troppo avevo dichiarato festosa «Quando le maestre ci hanno domandato se qualcuno di noi ricordava la prima parola che abbiamo pronunciato appena siamo stati in grado di farlo, sì, insomma, la prima che avesse senso e io mamma sono stata la prima a rispondere!»
Sicuramente se lei non si fosse trovata alla guida, si sarebbe voltata verso di me, perché lei era così, amava vedermi sorridere, amava vedermi felice.
«Oh... io lo ricordo benissimo, ho detto papà, lo ricordo perfettamente perché è stato proprio lui il primo a parlare, a sussurrarmi quella frase curiosa.»
«Papà? E così lui ti avrebbe parlato?» aveva ripetuto lei tesa nell'ascolto, mentre inavvertitamente rallentava la velocità di marcia.
«Sì certo, mi ha detto, figlia mia, ricordati, sarai sempre parte di me!»
Purtroppo però, in un istante tutto era cambiato, lei che sterzava con decisione e si accostava lì di traverso, sul ciglio di quella strada fortunatamente poco trafficata, ed io che non capivo.
«Mara, non è divertente! Ti ho detto un milione di volte di non esagerare con la tua immaginazione. Sì, forse hai detto papà, ma si trattava più di un verso che di una parola!» pallida, senza colore, parlandomi in quel modo, inaspettatamente mamma si era messa a fissarmi intensamente negli occhi.
«Devi frenare la tua fantasia, perché ti assicuro, non è per niente divertente! Non hai bisogno di essere al centro dell'attenzione in ogni momento, questo riesci a capirlo, vero?» mi aveva domandato mentre cercava di trattenere le lacrime.
«E poi quello che sostieni è assurdo!» aveva ribadito battendo il palmo della mano sul cruscotto.
Senza aggiungere altro, si era girata, aveva innestato la prima e in completo silenzio si era rimessa in marcia.
Rannicchiata contro la portiera, da quel momento, anche se sapevo di non aver mentito, non avevo più aperto bocca, ma la cosa che mi aveva fatto più male era stata quella di aver letto dentro i suoi occhi tanta sofferenza.




Il pezzo di stoffa.



La panda rossa aveva varcato il cancello e proprio mentre stava attraversando il vialetto incorniciato da quel nostro curatissimo giardino, il telefonino di mamma aveva iniziato a suonare all'impazzata, in modo così insistente, che, suo malgrado, lei era tornata a rivolgermi la parola.
«Mara, è dentro la borsa, mentre parcheggio, fammi la cortesia, rispondi.»
Si trattava di papà, voleva sapere com'era andato il mio primo giorno di scuola e visto che da settimane lui non si faceva vedere, gli avevo parlato a monosillabi, in modo frettoloso e distaccato.
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