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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Eugenio Alaio
Titolo: Emozioni Erranti
Genere Racconti
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Emozioni Erranti
Forse un giorno.

Pancrazio, un uomo di quarant'anni, aveva vissuto prevalentemente in giro per il mondo, innamorandosi raramente. La vita non gli aveva dato tregua ed era troppo distratto dal quotidiano per decidere di donare il suo cuore a chicchessia. Dopo aver errato per anni, trovandosi di volta in volta in una diversa parte del globo, era poi tornato alla sua città natale, Panama, terra di confine in cui la vita si sviluppava grazie al Canale, quell'opera mastodontica lunga circa ottantadue chilometri che ebbe un lungo periodo di gestazione prima di essere realizzato. Tutto l'Ottocento fu dedicato alla sua progettazione ed al reperimento delle autorizzazioni. Agli inizi del Novecento l'opera fu iniziata e benché ebbe termine nell'agosto del 1914 fu inaugurata solo nel 1920 consentendo il passaggio delle navi dall'Oceano Atlantico all'Oceano Pacifico così da evitare la circumnavigazione dell'America meridionale. Un percorso lento e faticoso, come d'altronde lo era la vita di quell'uomo.
Pancrazio era figlio di un italiano che era approdato a Panama negli anni Cinquanta lavorando per un'azienda italiana di spedizioni che aveva una sede vicino al canale. Suo padre, col tempo aveva imparato a costruire cappelli, panama, per l'appunto. Aveva maturato questa esperienza da un vecchio panamense che aveva una bottega nella città vecchia. Gli aveva insegnato ogni trucco del mestiere, dall'apprezzare la qualità della foglia di carludovica palmata, una palma nana, alla sua tessitura e lavorazione che potevano richiedere sino ad otto mesi per la realizzazione. Il padre di Pancrazio dedicava ogni pomeriggio, dopo il lavoro, per poter affinare quell'arte che ormai faceva parte delle tradizioni locali, anche se i più la attribuivano al vicino Ecuador.
Anche Pancrazio, sulle orme del padre, aveva imparato col tempo quel mestiere e per perfezionare le sue conoscenze era stato anche qualche mese alla bottega della famiglia Ortega in Ecuador a Cuenca dove aveva perfezionato la tecnica per la realizzazione di un vero cappello Panama. Vendeva Panama, fatti a mano, in una bottega nella città vecchia e quella piccola attività gli consentiva di vivere senza grossi problemi. Della sua bottega ne aveva fatto una tradizione del posto, un dedalo di viuzze e case colorate che si alternavano a palazzi d'epoca, che il tempo aveva poi trasformato in hotel.
I giorni scorrevano lenti e Pancrazio passava il suo tempo principalmente nella bottega, molto piccola con qualche scaffale per tenere in fila, uno di fianco all'altro, i Panama già realizzati e in bella vista in modo da attirare i passanti, specialmente turisti, che di tanto in tanto si intrattenevano nel negozio. Ne vendeva, almeno un paio al giorno così da potersi consentire una vita decorosa. Abitava, qualche strada più a nord della bottega in una casa in stile coloniale che affacciava sulla città vecchia. Era in fitto e spesso doveva chiedere tempo al suo proprietario, specialmente quando le vendite non andavano bene, per poter saldare i suoi debiti e non essere buttato fuori all'improvviso.
Ogni mattina, passo dopo passo, al mattino, raggiungeva la sua bottega, passando dinanzi al negozio di fiori che era sulla strada. Anche quella era una vecchia bottega passata di padre in figlio e a condurla c'era Isabela, capelli lunghi, castani con boccoli che le cascavano sulle spalle, esile, con due mani lunghe e affusolate, un viso con uno sguardo felino ed occhi verdi smeraldo.
Sapeva tutto dei fiori, ne conosceva ogni petalo ed ogni colore ed attribuiva il giusto significato ad ognuno di essi indirizzando verso l'eccellenza i clienti in ogni occasione. Il suo scopo era quello di accontentarli e di fare bella figura e soprattutto, di far sì che tornassero da lei, diventando suoi clienti.

Il suo sorriso magnetico non poteva non trovare consenso quando preparava i suoi bouquet artistici tali da diventare, come lei, splendidi, colorati e sempre con una varietà di fiori messi insieme con l'obiettivo di preservare un significato sensato e l'armonia dei profumi. Svolgeva il suo lavoro con maestria e negli anni si era acculturata sempre più sui fiori. Da parte sua Pancrazio non mancava ad ogni occasione, anche creata volutamente, di passare al negozio della fioraia così da poterla guardare negli occhi, anche per un istante, e portar via con sé oltre a degli splendidi fiori che avrebbe regalato a chissà chi o tenuto sul tavolo della sua cucina, anche quel sorriso strappatole con un pretesto qualsiasi. Alla sua vista perdeva il controllo, non era più capace di mettere insieme una parola compiuta, era come catapultato in un mondo supremo in cui esisteva soltanto Isabela.
Qualche volta riusciva a scambiare qualche parola in più e per lui era l'apoteosi, e quasi balbettava. Le chiedeva, come al solito, quali fiori avrebbe voluto, e poi abbozzava qualche timide domanda su cose banali con l'intento di guardarla per qualche istante il dolce viso. Isabela era ignara di ogni sentimento o pulsione di Pancrazio, non gli dava peso o addirittura non ci faceva caso, ci passava sopra. Per lei restava una persona gentile ed un cliente del suo negozio, anche se occasionale perché non era così ricco da poter comprare fiori ogni giorno.
La donna passava i suoi momenti liberi un po' lontano da Panama. Arrivava sino a Muelle La Playa a Isla Flamenco un posto che si raggiungeva attraverso una lunga strada costruita in mezzo al mare, cosa molto consueta a Panama, che terminava in un nuvolo di isole una vicina all'altra con splendide spiagge e magnifici panorami. Isabela aveva fatto esperienze simili alle Isole San Blas che si potevano raggiungere da Panama in meno di tre ore. Atolli in mezzo al mare, capanne invece che resort, con letti su assi di legno e bagno minimale, la tazza del water ed un tubo posato in alto da cui usciva acqua fredda, niente di più. La cosa più confortevole di quelle splendide sistemazioni era una amaca posta fuori la capanna, che di tanto in tanto scompariva la sera e ricompariva la mattina, perché era servita per ospitare il sonno di qualcuno degli abitanti del piccolo villaggio che pur di allietare gli ospiti rinunciava ogni mattina a quel giaciglio. Isabela amava quelle piccole fughe in cui le sue giornate erano dedicate al mare e ne godeva la tranquillità quasi come se tornasse indietro nel tempo quando era nel grembo della madre.
Portava con sé sempre un libro, un catalogo di fiori, in cui erano indicate minuziosamente tutte le caratteristiche di ogni fiore e un piccolo spazio era dedicato al significato di quel fiore e alle leggende che portava con sé. Lo sfogliava continuamente e girava e rigirava le pagine per rammentare a sé stessa qualche specie di fiori che sfuggiva alla sua memoria, molto spesso, oppure metteva insieme diversi fiori e controllava se il significato che ne veniva fuori era armonico. Su questo Isabela era maniacale e proiettava tutta la sua luminosità sui bouquet che componeva. La sua maestria era più evidente quando utilizzava i girasoli per le sue composizioni e li miscelava a rose dai colori tenui o con semplici foglie di erba- I girasoli, diceva lei, ricordano il sole per le loro tinte sgargianti, gialle o arancioni. Per questo motivo, continuava, in tutte le culture potevano indicare vita, gioia e letizia. Isabela spesso raccontava la leggenda del girasole narrata da Ovidio. Clizia era colei che per gelosia di Apollo, innamorato pazzamente di un'altra donna, Leucotoe, ne svelò a suo padre la relazione con Apollo. Il padre fece uccidere la figlia Leucotoe e Apollo addolorato non guardò più altra donna e tantomeno Clizia che, addolorata a sua volta, mori pian piano trasformandosi in un girasole rinsecchito perché ogni giorno guardava Apollo che guidava il carro del sole e di cui era follemente innamorata. Questa leggenda ergeva il girasole a simbolo d' amore, devozione, lealtà e ammirazione. Poi passava a narrare del simbolismo legato alla rosa che in qualche modo giustificava il frequente accoppiamento di girasoli a rose bianche ed anche a rose tea. Anche la rosa, diceva spesso Isabela, era legata alla mitologia greca e propriamente ad Afrodite, bellezza per eccellenza. La rosa simboleggiava l'amore, la bellezza per eccellenza. Se bianca indicava purezza ed innocenza, ma anche lealtà e amore eterno, rossa, indicava passione e simboleggiava anche rispetto e ammirazione verso la persona cui si regala. La rosa gialla invece esprimeva gelosia, ma il giallo è anche il colore dell'amicizia. La rosa rosa invece indicava ammirazione e apprezzamento per la simpatia, amicizia e lealtà. La rosa rosa era leggerezza e semplicità. Quella arancione, infine concludeva Isabela, significava provare soddisfazione e ammirazione per un successo raggiunto. Isabella ripeteva a voce bassa nella sua mente: “Per questo quando affianco le rose bianche ai girasoli vuol dire ricerca dell'amore perduto, ma anche, e nonostante tutto, amore eterno anche se perduto; quello che il cuore non dimentica e non abbandona mai nel corso della vita anche se lontano o irraggiungibile. Quando si lasciava andare in tali discorsi con i suoi clienti raggiungeva l'apoteosi, manifestava il meglio di sé stessa e dopo si sentiva appagata. Con Pancrazio questi colloqui non erano frequenti, né tantomeno di lunga durata. Lui era un timido, sempre immerso nei suoi cappelli che creava con maestria, e al massimo, quando andava a trovarla al negozio chiedeva un mazzo di fiori di campo, un po' di leggerezza colorata, e null'altro e lo faceva un po' per soldi, che gli mancavano sempre, e un po' per il fatto che non avrebbe saputo a chi regalarli se non a sé stesso. E questi momenti fugaci si ripetevano di giorno in giorno, ma Pancrazio non faceva nessun passo avanti ed anzi continuava ad innamorarsi sempre più di quella donna, anche se alimentava questo ardore soltanto in cuor suo non dichiarandolo a quella magnifica donna.
La bottega di Isabela era un piccolo monumento al fiore. Molto colorata già nelle ante che chiudevano l'ingresso. Erano blu marine, con fiori, dipinti ben distribuiti e di svariati tipi che macchiavano quel blu con chiazze arancioni, gialle e rosa. Di tanto in tanto a rompere quell'allegria colorata, qualche fogliolina bianca con striature verdi. Si entrava poi in una stanza con le pareti ocra chiaro ed una miriade di piante e fiori ben disposti ai lati in modo da replicare tutte le tinte della scala cromatica. Alle pareti innumerevoli quadri ricavati mettendo insieme fiori essiccati, un po' mutuando le tecniche orientali o quelle indonesiane per la realizzazione dei batik. In un angolo, una scrivania decapé con colori tenui dall'azzurro al giallo. Un portatile a lato e tante scartoffie con appunti sulle caratteristiche dei fiori. Era un incanto quando Isabela parlava dei fiori e in quei momenti Pancrazio cercava sempre di esserci e di godere della musicalità di quei racconti. Ogni giorno alle sette di sera Pancrazio, chiudeva i battenti e si incamminava pensoso verso casa passando dinanzi il negozio di fiori ma non trovando mai il coraggio di invitare Isabella per un caffè o qualunque cosa potesse consentirgli di passare un po' di tempo con lei. Non lo fece mai, e continuò di tanto in tanto a passare al negozio a comprare fiori di campo, come aveva fatto fino ad allora. Viveva nella speranza che potesse accadere qualcosa, ma non originata dal suo volere, doveva essere un caso e lui avrebbe potuto coronare il suo sogno. Ma i giorni passavano monotoni tra cappelli e mazzi di fiori e i due continuavano a condurre vite divergenti.
Pancrazio viveva una vita di speranza che pervadeva tutto il suo stato d'animo e gli consentiva di vivere comunque il giorno per giorno con coraggio e la luce nel cuore. Nonostante non accadesse nulla lui credeva che un giorno sarebbe cambiato qualcosa e quella speranza gli dava forza. Credeva nel destino, ma non nella fortuna che avrebbe potuto manifestarsi quando il destino stesso si fosse scocciato di aspettare.
Venne il periodo delle mimose ed il negozio di Isabella si riempì di quei piccoli batuffolini gialli che più che un fiore sono escrescenze dell'acacia che sbocciano sui rami di quell'albero.
Era buon mattino, Pancrazio passava come ogni mattina dinanzi al negozio di fiori cercando con la coda dell'occhio Isabella per poterle rivolgere il consueto saluto così da godere della sua attenzione, ma soprattutto del suo viso sorridente che spesso si confondeva nella bellezza dei fiori, ma Isabella quella mattina era impegnata a raccontare ad una cliente le caratteristiche di quel fiore bislacco, ma tanto tenero. Pancrazio si fermò per un attimo incuriosito ad ascoltare.
Isabella inneggiava alla forza ed alla femminilità della mimosa e rimarcava che non a caso quel fiore era stato scelto quale simbolo per celebrare feste importanti. Ma poi continuava dicendo che la mimosa può esprimere anche innocenza, libertà, autonomia, pudore e sensibilità, e Pancrazio diceva a sé stesso: “Ma anche queste sono caratteristiche femminili” e quindi tornava alle origini con le sue riflessioni e ricominciava ad incantarsi nell'ascoltare Isabella.

Nel tempo non vi fu altra occasione che quella di passare dinanzi al negozio, come di consueto, cercando un buongiorno e qualche volta continuando a fermarsi ad ascoltare le declamazioni della fioraia e i suoi inni ai fiori.
Nella bottega, quando restava solo e non c'era il solito andirivieni di curiosi alla ricerca del panama perfetto, perseverava nel fare cappelli, ma non era più come un tempo, notava Pancrazio, cominciava a dimenticare dei particolari importanti. Non aveva più memoria di quella maestria che rendeva la fascia nera impeccabile e non storta intorno alla falda del cappello. Qualche volta non ricordava più neanche quale fosse il filo e l'ago giusto per dare gli ultimi ritocchi. Imprecava con sé stesso e si diceva: “Pancrazio perché non ricordi, sei troppo distratto, hai sempre Isabela nella mente dimentichi le cose scontate “. Pancrazio cominciava a dimenticare e non ne sapeva il perché e voleva convincersi che la causa era Isabela. La cosa non lo preoccupava, attribuiva il tutto al suo innamoramento, la sua mente era sempre occupata da Isabella a cui pensava sin dal momento in cui apriva gli occhi al mattino e sino alla sera quando si addormentava e rimetteva ogni pensiero d'amore al mondo dei sogni sperando di sognare Isabella come avrebbe voluto con tutto sé stesso. Ma neanche la sognava. Le sue capacità oniriche erano, anch'esse, inermi. La sua iniziale, apparente perdita di memoria non gli dava problemi, ma non lo aiutava neanche a dimenticare Isabella, cosa che gli avrebbe fatto bene così da liberarlo da quella speranza perenne e restituirgli la propria mente ed il proprio io. Qualche sera dopo, Pancrazio, arrivò al culmine. Dimentico la bottega aperta. Non chiuse le porte esterne e si incamminò pensieroso verso casa come di consueto. Cenò con un semplice Galio Pinto, un piatto del Costa Rica, diffuso anche nella vicina Panama a base di riso e spezie, ed andò a letto abbandonandosi con l'ultimo pensiero della sera: Isabella.
Quando tornò il mattino dopo al suo negozio si rese conto di quanto aveva fatto quando vide tutto l'interno della bottega a soqquadro, qualche cappello buttato in terra e tanti altri ormai nelle mani di qualcuno. Per fortuna la tela e quant'altro per fare cappelli erano salve. Poteva rimettersi al lavoro e mettere tutto a posto. In questo era resiliente ed abituato a vivere di speranza. Di fronte a quel guaio lui reagiva sperando che rimboccandosi le mani avrebbe potuto mettere tutto a posto e tornare all'origine. Era bravo Pancrazio a bianchettare la sua vita ed a riscriverla nel modo a lui più consono. Anche questa volta non diede peso alle sue dimenticanze, ma proseguì speranzoso ed andò avanti.
Passarono i mesi, la vita scorreva come al solito, Pancrazio, cominciava ad immaginare troppo quella vita e a non viverla ed invece dimenticava sempre più tutto il resto. Erano cose materiali, gesti cose accadute il giorno prima. Passava intere serate a cercare cose che non c'erano mai state. Con il tempo cominciò a non riconoscere più neanche qualche suo vecchio conoscente. Ma erano attimi. Si fermava più volte ad ascoltare Isabela, come in passato, ma spesso ascoltava sempre lo stesso racconto perché non lo ricordava più. Qui non era dimenticanza, ma desiderio di poter fissare quel viso ancora una volta. Isabela non la dimenticava ancora, tanto era l'imprinting che aveva nel suo cuore, quasi fosse un tatuaggio che nessuno avrebbe mai potuto cancellare.
Cominciava a dormire poco e a dimenticare anche cose recenti, che facevano parte della vita di tutti i giorni. Pancrazio aveva una sorella, più piccola di lui, Elena, che aveva seguito una strada diversa rispetto alla sua. Era andata via da Panama a soli vent'anni. Si era innamorata di un colombiano che frequentava Panama per affari, se lo era sposato ed era andata a vivere nella fantastica Cartagena. Lei e Pancrazio si telefonavano spesso, ed anche Elena aveva notato un cambiamento nel comportamento del fratello ed anche alcune delle sue piccole perdite di memoria. Elena così convinse il fratello a consultare un dottore. Andò per qualche giorno a Panama a trovare Pancrazio e lo accompagnò dal medico. Avevano scelto un neurologo anche su consiglio di amici e questi dopo qualche risonanza di controllo diagnosticò a Pancrazio l'Alzaimer, non aggressivo e sino a quel momento silente, ma pur sempre un Alzaimer. Disse subito che non vi erano cure, che la malattia sarebbe evoluta con peggioramenti progressivi nel tempo. Forse poteva essere un buon modo per dimenticare Isabella e riprendersi la sua vita ormai imprigionata tra cappelli e amore. Ma solo alla fine si sarebbe saputo chi avrebbe vinto tra la mente ed il cuore.

Pancrazio avrebbe avuto bisogno di aiuto ed Elena, gli procurò una badante, gliela presentò come un'amica che lo avrebbe aiutato nelle piccole cose di ogni giorno, ma alla fine sarebbe stato il suo angelo custode. Pancrazio alla fine dopo aver resistito un po' alla proposta della sorella accettò. Peraltro, la ragazza, Conchita, era anche carina e molto gentile. Elena le promise un buon compenso per la sua pazienza e questo sarebbe stato sicuramente l'ingrediente principale della sua assistenza. Ma Conchita non avrebbe mai potuto scacciare Isabela dal cuore di Pancrazio. Quello era un amore indissolubile che si autoalimentava ogni giorno, ma soltanto nella mente di Pancrazio. Isabela era concentrata sui suoi fiori e non voleva assolutamente innamorarsi e peraltro non poteva innamorarsi di una persona che di fatto ignorava.
Nei mesi a venire le cose cominciarono a peggiorare. Il dimenticare, il non riconoscere, facevano parte, ormai del quotidiano di Pancrazio. Spesso Conchita era costretta a rincorrere Pancrazio, che improvvisamente decideva di uscire, ma poi non era in grado di ritrovare la strada del ritorno verso casa. Spesso la ricerca dell'uomo diventava una cosa molto complicata ed era la gente del quartiere che, ormai conscia della malattia dell'uomo, aiutava Conchita a ritrovarlo spesso in uno stato confusionale.
Ci fu anche l'intervento del Centro Assistenza malati di Alzaimer di Panama, che settimanalmente inviava a casa di Pancrazio un medico ed un'infermiera che lo aiutavano a risolvere le piccole defaiance quotidiane, davano consigli ai familiari, ovvero a Conchita, e somministravano qualche terapia. Questo dava conforto ai due e li aiutava a superare le difficoltà del quotidiano. La mente di Pancrazio ormai era un turbine di idee e di ricordi posti in modo disordinato e che spesso scomparivano non lasciando più alcuna traccia nella sua mente. Non ci si raccapezzava più dentro di sé e riusciva a mala pena ad alimentare il ricordo di Isabella. Ne soffriva, era consapevole, che stava perdendo ciò per cui aveva vissuto e su cui aveva tentato di costruire la sua leggenda personale. Anche il cuore era stato contagiato da quella malattia. Anche il cuore aveva una memoria e quella memoria cominciava ad offuscarsi. Isabela si stava allontanando ogni giorno di più e non ne rimaneva neanche più il profumo dei fiori. Pancrazio cominciava a non soffrire come in passato, però, non aveva più cognizione di sé, era in un'altra dimensione e tutto gli sembrava scorrere nella mente, ma in modo disordinato ed incomprensibile e neanche la sofferenza era più riconoscibile. Quando diventava aggressivo, l'unico rimedio era rappresentato dagli antipsicotici. In quei giorni Pancrazio era quasi sempre rintanato a letto e per lo più riposava. Cominciava anche a farfugliare, non riusciva più a mettere insieme qualche parola per esprimere i suoi pensieri. Era sempre più solo e lontano pensava Elena, quando lo rivedeva nelle sue sempre più frequenti visite a Panama. Pancrazio le aveva raccontato tutto di Isabela quando era ancora capace di parlare e ricordare ancora qualcosa di quei momenti. Il racconto era stato struggente, perché nella sua debolezza era stato in grado di trasferire e a far comprendere ad Elena tutto il suo amore silente per quella donna e la sua vita alimentata dalla speranza che tutto potesse accadere un giorno. Elena non aveva mai pensato che suo fratello avesse potuto provare simili emozioni, alla fin fine lo conosceva poco. Era sempre stato taciturno e chiuso nella sua bottega che, Elena pensava, fosse tutto il suo mondo. Invece a ben vedere ed ascoltandolo capì che aveva un animo ed un cuore e provava dei sentimenti anche forti e forse impossibili.
Nei mesi successivi Pancrazio peggiorò; ormai era diventato un vegetale, costretto a letto ed ormai incapace di reagire ad ogni cosa. Il dottore non diede speranze ad Elena; le disse che era come una candela che si stava via via consumando sino a far sì che tutte sprofondasse nel buio.
Elena disperata, rimembrava tutti i mancati momenti che non aveva dedicato a suo fratello, ma ormai non poteva più riparare a questo dolore.
Pancrazio si spense qualche mese dopo. Elena decise che dei fiori se ne sarebbe occupata Isabela. Ando al suo negozio di fiori, Isabela era bella come il sole e come sempre, ed Elena capì in un attimo, quando la vide e quando udì la sua voce, perché suo fratello si era innamorato alla follia di quella donna. Peccato che non avesse avuto mai il coraggio di dichiararlo o alimentare quell'amore. Elena prese coraggio e dopo aver dichiarato il motivo della sua visita al negozio, raccontò tutta la storia ad Isabela. Le raccontò di quell'uomo che spesso frequentava il suo negozio ed acquistava fiori di campo, le raccontò di quell'uomo che spesso si fermava fuori ad ascoltare le sue storie sui fiori e la guardava estasiato cercando il suo sguardo per dirle a malapena soltanto buongiorno. Isabela a sentir quel racconto sembrava estranea, non capiva e non ricordava quell'uomo tra i tanti clienti che passavano al suo negozio ogni giorno, ma non si mostrò dispiaciuta. Elena così realizzò il suo intento, e dichiarò anche quello che forse il fratello avrebbe dovuto dire quando era ancora in vita e soprattutto quando era ancora in sé. Isabela dal canto suo era a dir poco inebetita nell'ascoltare quel racconto. Si chiedeva come aveva potuto non accorgersi di tutto ciò. Rimproverava sé stessa pensando di essere tanto attenta ai fiori da non guardare negli occhi la gente per riconoscere gli affetti pur pretendendo di replicarli nei suoi bouquet. Intanto la bottega di cappelli era stata chiusa. Pancrazio non era stato in grado di trasferire le sue abilità ad altri e quindi la sua attività mori così come lui era morto già da tempo.
Isabela la sera ripensò alle parole di Elena. Non ricordava Pancrazio e quindi il giorno seguente chiese ad Elena di poterlo vedere così da poter scegliere i fiori da mettere insieme per l'ultimo saluto. Quando lo vide capì. Il suo cuore, anche se la sua mente ne tradiva il ricordo, lo rammentò. Tenero, educato, signorile, discreto, era quello l'uomo che ricordava Isabella e poi quel suo fare manieroso quando chiedeva quei fiori di campo ed il modo di maneggiare i soldi quando pagava. Era sempre molto elegante a prescindere dai suoi abiti, perché l'eleganza era in lui e non in quello che indossava. Il ricordo era stranamente emozionale, sembrava un po' il modo con cui Pancrazio ricordava le cose all'inizio della sua malattia.
Isabela alternò girasoli a rose bianche, interpretò il ricordo di quell'uomo semplice e innamorato e lo trasformò in amore, quasi fosse l'ultimo bacio mandato nel vento, donando a Pancrazio ciò che il fato non gli aveva attribuito in vita e, cercando di interpretare, il pensiero di quell'uomo, scrisse sul biglietto: “Forse un giorno”.
Eugenio Alaio
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