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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Enrico Bernard
Titolo: Quem quaeritis
Genere Narrativa
Lettori 2723 10 3
Quem quaeritis
Don Dino.
Tres digiti scribunt totum corpusque laborat.

Santo cielo! Doveva essere solo una citazione per darsi un po' di arie davanti ad una comitiva di turiste, giovani studiose dell'arte sulle quali il prestante monaco si era ripromesso di far colpo, impegnate ad immortalare coi cellulari l'impressionante consistenza della biblioteca da lui diretta. Tre dita scrivono e tutto il corpo lavora. E per aggiungere un pizzico d'ironia Don Dino ac-compagnò la pomposa frase latina disegnando in aria un ghirigoro con la mano destra; non contento, tanto per fare lo spiritoso, aggiunse un movimento delle anche e del busto in una maniera leggermente effeminata, in effetti uno sculettamento vero e proprio che scosse il saio come una campana al vento strappando qualche sorriso e qualche salace battutina in inglese alle pollastrelle newyorkesi in gita turistica, scollacciate e maliziosette anziché no! Poteva mai immaginare che l'innocente, allusiva quanto ridicola, per un uomo di dottrina del suo livello, “mossa” da avanspettacolo avrebbe provocato addirittura un tuono che sembrava provenisse dal sottosuolo?
Il terremoto! Il terremoto! Aiuto! Sentì le urla provenire dal corridoio accompagnate dal fracasso di suppellettili in frantumi, poi quel forte boato dalle viscere della terra, scalpitío di passi rapidi e grida di un fuggi fuggi nel più completo marasma generale. La terra trema, lanciò un grido una voce disperata forse memore del titolo del famoso film di Luchino Visconti. Don Dino si precipitò di corsa fuori dalla biblioteca mentre i libri gli piovevano addosso dagli scaffali come meteoriti. Un pesante tomo lo colpì di striscio sulla fronte provocandogli una profonda ferita lacerocontusa che prese a striargli il volto di sangue. Se si fosse potuto guardare allo specchio in quello stato, si sarebbe proba-bilmente paragonato all'immagine di un Cristo dolente di Cimabue o di Giotto.
A centrarlo sulla zucca non fu però un tomo qualunque, bensì un pesante codice miniato databile alla fine del IX secolo. Don Dino lo custodiva gelosamente in quanto, da bibliofilo e studioso dell'arte amanuense benedettina, aveva appurato con ricerche accurate la rarità del pregiatissimo esemplare, a sua detta unico al mondo. Proprio il Codice Purpureus Sangallensis doveva squinternarsi sul pavimento a causa della scossa tellurica? Il corposo volume si aprì infatti ai suoi piedi come spaginato da una forza misteriosa rivelando la raffi-gurazione diabolica del satanasso nero e rosso che sputa fuoco e mostra gli artigli sporchi di sangue. Al momento dell'impatto una nuvola scura si levò dai fogli, la polvere dei secoli che si mischiò al pulviscolo dei frammenti del soffitto e delle pareti che minacciavano di sbriciolarsi. Don Dino avrebbe voluto portare in salvo il prezioso esemplare, senonché lo scaffale contenente un centinaio di altri tomi vi si rovesciò sopra som-mergendolo prima che lui potesse recuperarlo. Quindi egli non poté fare altro che preoccuparsi della vita sua e degli altri presenti rimasti paralizzati dal terrore.
- Lì, mettiamoci lì sotto, al riparo, è il posto più sicuro! - indicò il ballatoio sotto la volta della finestra a trifora medievale del campanile di Santa Scolastica. Ma nessuno lo stava a sentire, tutti a correre e precipitarsi per ogni dove. Sciocchi! Come si fa a non sapere che in caso di terremoto bisogna evitare di sostare al centro delle stanze e corridoi, non correre su pavimentazioni che possano cedere e che il miglior riparo è lungo le mura portanti di un edifico, meglio dove non può crollarti niente in testa? Allargò le braccia per reggersi alle mura barcollanti più di lui, Ercole tra le mitiche colonne non sarebbe riuscito a fare di meglio, mentre veniva strapazzato come se fosse entrato in un frullatore. Gettò uno sguardo verso l'esterno, orrore! Vide il monte Redentore spaccarsi in due come una mela marcia: il colosso dei monti Sibillini sovrastante la Piana di Castelluccio di Norcia si assestò come un ubriaco ciucco crolla su una seggiola sgangherata che gli si sfascia sotto il culone. Il contraccolpo spaventoso rimbombò nel terreno, quindi riecheggiò un boato più forte ancora nell'aria, come un'esplosione di rabbia divina scatenando scosse di assestamento talmente violente e ripetute, un bussare alle porte dell'inferno, da far ondeggiare perfino la mole dell'imponente campanile romanico del Chiostro dei Cosmati come un pugile suonato all'ultimo gong. Il pavimento sconquassato dal moto sussultorio fu attraversato da un contrastante moto ondulatorio come la superficie del mare agitata dal vento. E quando le onde sismiche si mischiano e sommano nel sismografo vuol dire che l'epicentro è vicinissimo e la catastrofe assicurata. Da lì a pensare “moriremo tutti!” oppure implorare “Dio abbi pietà di noi!” ci vuole poco, un niente.
Quando ci si viene a trovare sull'epicentro di un terremoto così violento sembra di essere entrati in un buco nero dove il cosiddetto orizzonte degli eventi annulla il tempo in una sospensione innaturale, se non surreale o addirittura fantascientifica. Insomma: gli attimi non passano mai, si dilatano a dismisura, si moltiplicano come granelli di sabbia nella clessidra, sembrano infiniti, eterni, molecole ultraterrene, atomi di lucenti impressi su una pellicola che scorre al rallenty. Il malcapitato pensa: ora smette, sicuro, ora finisce, deve per forza esaurirsi tutta questa energia tremenda. Ma più ci si appella alla ragione, all'attesa di un progressivo quietarsi del tremolio del reale, più l'attimo sospinge l'anima sull'orlo del vuoto più assurdo, dell'abisso che si spalanca sotto i piedi per inghiottirlo.
Facciamola breve: L'esperienza del terremoto non è da augurarsi a nessuno, la sensazione è di venire risucchiati in una bolgia in compagnia di Satana in persona, pensa Don Dino cercando di mantenersi in piedi sul pavimento che pare impazzito, un cavallo imbizzarrito che cerca di disarcionarlo.
Come scintilla che schiocca nel buio e poi si spegne rapidamente così il furore della terra si placa come si è scatenato; sembrerebbe innescato da un interruttore che scatta sullo stato di quiete dopo essersi acceso mettendo fine alle vibrazioni che hanno scosso il cervello fino al punto di annichilirlo. Si resta perciò a lungo paralizzati, stoccafissi increduli di una simile manifestazione di potenza che pare innaturale, ma che invece è naturalissima: non imputabile ad una sorta di punizione divina, ma piuttosto riconducibile a fenomeni che la scienza, a mente fredda, sa spiegare con estrema precisione. Certo, forse, anzi sicuramente sa spiegare, ma non del tutto, sempre con una buona dose di approssimazione. Ad esempio non può predire, la scienza, quando e dove avverrà l'epicentro; e neppure quali segnali premonitori possano essere individuabili per dimezzare se non azzerare il numero di morti e catastrofi, distruzioni e sofferenze. Se la metafisica e la teologia hanno i loro limiti nel cielo imperscrutabile e in ciò che non vuole manifestarsi, allora anche la fisica e la scienza hanno altri limiti di fronte agli eventi che non sanno spiegare. Esatto, trovare la formula di Dio è altrettanto difficile, se non impossibile per i teologi, come escogitare la formula dei terremoti per i geologi. Ognuno, per dirla con minor prosopopea, ha le sue belle gatte da pelare!
Don Dino cominciò a percepire un attenuarsi dell'attività tellurica dopo il primo furibondo scrollone. Ma non si fidò di quella pausa, non si mosse di un millimetro. Fermo, aspetta, non ti muovere, può succedere ancora di tutto. Non era la prima volta che si trovava all'acme di un terremoto anche se mai lo aveva esperito così violento. Perciò temeva il colpo di coda, la scossa di assestamento, più devastante in quanto finisce di demolire gli edifici già lesionati dalla prima botta e ormai pericolanti. Di solito trascorrono una manciata di secondi o al massimo pochi minuti tra il primo movimento della faglia sotterranea e la seconda ondata. È allora buona regola restare immobili quando si è trovato un riparo abbastanza stabile e sicuro come quello offerto dall'antico arco di spesse mura tardo romaniche che per quasi un millennio avevano retto a terremoti, scon-quassi, devastazioni, sventramenti e altro. Difatti, come si calma il mare quando si placa il vento, allo stesso modo anche la terra smette di tremare quando la pres-sione magmatica rientra nei meandri risucchiata verso il nucleo terrestre.
Okkey. Speriamo bene. Ma in questi momenti di sospensione il respiro si ferma, rallenta il sangue nelle vene, le gambe smettono di tremare e il cuore di palpitare. Si prova la strana sensazione, racconta chi l'ha vissuta, dell'extracorporalità. Proprio così: si resta im-passibili, indifferenti spettatori di ciò che succede. Ci si osserva dall'esterno come se per alcuni istanti fossimo usciti fuori di noi, estranei a noi stessi, noi trasformati nei nostri fantasmi. Si racconta ancora che negli ultimi istanti, sull'orlo dell'ultimo respiro, dell'ultima boccata di ossigeno la vita scorra davanti agli occhi del morente per rapidi flash che si susseguono come i frames di un flash back. Sempre che l'esistenza si possa paragonare ad un film, poiché spesso essa è solo, come recita il titolo del capolavoro di Balzac, una triste umana commedia, una brutta commedia nella maggior parte dei casi.

* * *

Abbiamo appena visto Don Dino fuggire precipitosamente dalla sala lettura della biblioteca benedettina del monastero di Subiaco a Norcia, di cui è direttore al culmine di una brillante carriera ecclesiastica, per mettersi al riparo sotto una trifora. Presenta una profonda ferita lacerocontusa sulla fronte che gli fa scivolare un rivolo di sangue lungo il viso. Pare non accorgersi che le scosse di assestamento dopo essersi affievolite, ora sono quasi cessate. Anche se il mostro del terremoto si è placato, egli continua a molleggiarsi per forza di inerzia sulle gambe barcollanti, come il passeggero di un transatlantico in balia delle onde, nel maldestro tenta-tivo di ammortizzare i moti sussultori e oscillatori del pavimento.
Cerca di calmare i nervi, fratello, si rincuora. Smettila di tremare, fuscello, come se avessi introiet-tato, immagazzinato, ingoiato il sisma con tutta la sua virulenza. Tendi l'orecchio. C'è un silenzio surreale, apocalittico, da fine del mondo infastidito appena da vaghe vibrazioni sonore della campana stordita e oscillante come un ubriacone. La polvere di calcine frantumate del campanile romanico di Santa Scolastica riempie lo spazio come la materia nell'istante successivo al big bang. Dopo alcuni rintocchi stonati e sbilenchi la campana si arresta. Ma l'asse di legno che la sorregge, oddio! scricchiola come il femore di un gigante che si squarcia sotto un peso titanico. Il crollo? Inevitabile. La campana esplode in un boato infernale toccando il suolo e fracassandosi in almeno quattro pezzi che rimbalzano da ogni lato del cortile disegnando sulla crosta terrestre un'imprecisa Rosa dei Venti. Torna il raggelante silenzio di prima. Attesa spasmodica di una seconda scossa tellurica. Fiato sospeso. Paura. Respiro affannato, ansimante. La natura è come congelata in un carosello che si blocca dopo aver consumato il tempo concesso dal gettone del giostraio. La mente vacilla attonita, si oscura. Poi un grido che attraversa i campi, passa di bocca in bocca, rimbalza sui resti di villaggi e paesi, taglia cortili e granai, passaparola di una catena umana, giunge da fondo valle ripetuto da centinaia di gole disperate, un grido che stravolge l'aria, annichilisce persino il vento che si solleva sul polverone delle macerie.
- Correte, correte tutti! È crollata la Basilica di San Benedetto a Norcia, bisogna salvare il salvabile, opere d'arte, reliquie, il patrimonio artistico... correte correte!
Correre? Certo, ma come? Don Dino si guarda intorno, il crollo della campana con mezzo campanile al seguito ha ostruito l'uscita per le automobili dal piazza-le, oltretutto molte vetture sono finite sotto le rovine costituendo un ulteriore ostacolo. Qualche monaco riesce ad allontanarsi in bicicletta, qualcun altro in motorino, ma sono ormai lontani e con le orecchie ancora assordate dall'infernale rombo del terremoto. E con la paura che morde le calcagna. Nessuno oserebbe tornare indietro a prenderlo su col pericolo di un catastrofico e definitivo cedimento delle antiche mura.
Il presente storico ci ha aiutato a rendere attuale la scena, come se si stesse svolgendo in contemporanea, sotto i nostri occhi, anzi sotto i nostri stessi piedi. Ma ora calmiamoci un po' e torniamo alla narrazione come suggerisce il Tristram Shandy di Sterne.
Fu dunque allora che Don Dino con la testa sanguinante, la ferita aperta come una mela sbucciata, si scosse dal surreale torpore, come al risveglio da un brutto sogno. E l'incubo non era ancora finito.
Ci saranno molti feriti da soccorrere, povera gente imprigionata sotto detriti e calcinacci, fu la sua prima riflessione, superstiti da consolare, persone in cerca di un fratello, di un parente, di un figlio disperso! Per la prima volta in vita sua, peccatore sì, ma blasfemo mai, almeno fino a quel tragico momento, lo si udì bestemmiare: che ti abbiamo fatto Signore per meritare tutto questo? Il Signore ovviamente si guardò bene dal rispondergli. Anzi proseguì il suo millenario silenzio nell'alto dei cieli da cui, di tanto in tanto, scatena una guerra o una tempesta, una catastrofe o una pestilenza: ti prendi gioco di noi che siamo tuoi figli?
Fortuna che le sue frasi sconnesse, frutto di uno stato d'animo esagitato dallo shock subito, si persero nelle invocazioni e maledizioni, richieste di aiuto e lamenti che salivano dalla terra appena sconquassata dal sisma. E non giunsero alle orecchie di nessuno, tantomeno dell'Altissimo. Il Quale, se fosse venuto a conoscenza delle imprecazioni del monaco, ma essendo Egli onnisciente avrà certamente fatto finta di non sentirle per non complicarsi la vita e per non doverla complicare al suo “don”, avrebbe di certo commentato così: da uno con la faccia d'angelo e il cuore di trappista non mi aspetto altro! Però mi stai simpatico. Quindi stai sereno, per adesso non ti fulmino sul posto come farebbe il mio predecessore Zeus. Per ora puoi vantarti di averla fatta franca. Vai vai, Don Dino, sbrigati, corri ad aiutare il prossimo tuo bisognoso, piuttosto che startene impalato a masticare amaro e a snocciolare anatemi contro il tuo Signore e Padre celeste.
Come se avesse udito un'imponente voce superiore risuonare nel profondo del suo cuore, Don Dino ebbe un'illuminazione: la scorciatoia che porta dritta a Norcia! Scorciatoia? Per l'inferno forse. Un sentiero tortuoso che dirupa dall'altopiano verso valle, attraversando sterpaglie, canneti, boschetti odorosi di mirto, s'intrufola per i campi e costeggiando il fiume Aniene, poco più a sudovest affluente del Tevere, passa attraverso le rovine della villa di Nerone, il tiranno romano, incendiario e persecutore di Cristiani. Un luogo da un millennio evitato dai timorosi, ed anche innegabilmente superstiziosi monaci benedettini che temevano la venuta del cosiddetto Nuovo Nerone. Ovvero l'Anticristo, il fasullo Redentore che, nella visione escatologica, anticipa e annunzia la fine del mondo presentandosi all'umanità come il Figlio di Dio tornato umano, ma in realtà confonde gli animi dei buoni Cristiani istigandoli ad amplessi, orge, connubi demoniaci, incesti, immoralità e... basta così!
Il sentiero del Diavolo era stato severamente interdetto ai monaci. Secondo strane storie e leggende tramandate dai saggi Padri che si sono succeduti al Monastero, lo spirito tenebroso del malvagio e crudele imperatore continua ad aggirarsi tra le mura diroccate della sua dimora estiva, sede di riti esoterici, che fece edificare alle pendici del monte Anio, sorgente del fiume Aniene. Il limpido affluente del Tevere prende il nome dal re etrusco che vi annegò guadandolo nel tentativo di precipitarsi a salvare la figlia rapita dai Romani. Gli anziani contadini del luogo sono certi di aver visto gli spiriti dell'Etrusco e quello di Nerone errare insieme tra le fratte e la vegetazione delle sponde del fiume alla ricerca delle misteriose forze della Terra, del Fuoco, dell'Aria e dell'Acqua per potersi sciogliere dalle catene dell'incantesimo che li trattiene qui. Si racconta, ma prendiamo testimonianze del genere con beneficio di inventario e col necessario margine di fantasia, che nelle notti di luna piena (la luna piena non manca mai in questo genere di racconti) si possano scorgere tra i rami e i cespugli balletti di ombre, spettri, fuochi fatui, apparizioni fantasmagoriche e miraggi infernali.
Occorreva quindi una botta di coraggio da parte di Don Dino che, ad ogni buon conto, si professava piuttosto scettico nei confronti di queste storie di fantasmi che possono spaventare gli ingenui, non gli uomini di scienza e di cultura come lui. Ma perché parliamo addirittura di coraggio? Suvvia, era troppo istruito per abboccare alle fanfaluche popolari, alle credenze basate su suggestioni e superstizioni. Si comportò come un bambino che indossa la maschera carnevalesca di un supereroe: si calò nel ruolo del salvatore del mondo che è pronto a ricacciare nel buio mostri e potenze del lato oscuro con la sola forza di cui dispone: la propria ragione che illumina tutto. Il che non toglie, resti tra noi, che strada facendo gli frullarono in mente gli avvertimenti a non addentrarsi mai e poi mai in quel luogo pernicioso frequentato dal demonio. Ma si consolò pensando che se il demonio vuole qualcosa da qualcuno, può manifestarsi ovunque, non ha certo bisogno di un posto preciso, di una sorta di Gabbia di Faraday personale dove scatenare le onde elettromagnetiche e forti scariche elettrostatiche emanate della sua coda! Si rasserenò allora accelerando il passo, ben certo che nulla di grave, terremoti a parte, gli sarebbe nuovamente occorso.
Le rovine della villa neroniana sono poco più di un cumulo di macerie infestate dai rovi e cespugli, ormai depredate di ogni oggetto di valore archeologico dai tombaroli, i trafficanti di reperti archeologici della zona. Più facile dunque incontrare tra le vetuste vestigia dell'Imperatore romano un cercatore di monete antiche dall'alto valore numismatico armato di sonar per la ricerca dei metalli che uno spiritello errante in cerca di facili bocconi (a Roma il termine “boccone” sta per “credulone”) da terrorizzare a morte. Nell'avvicinarsi alla strettoia tra due muretti di antichi mattoni soffocati dall'edera aggrappata alle fessure scalcinate, Don Dino cominciò ad ansimare: l'ansia, inconscia e involontaria perché non controllabile dal soggetto, e lui ne avrebbe fatto volentieri a meno, si trasformò in una strana sensazione di soffocamento, come se gli stesse mancando l'ossigeno. Vero che si era affrettato quasi correndo, ma si trattava di una distanza relativamente inferiore ai sei o sette chilometri che era solito percorrere senza fatica durante il jogging quotidiano col quale abitualmente cercava di mantenere il corpore sano per la mente. Una mente che in questo frangente doveva essere sana almeno quanto il suo corpo, per non cedere ai fantasmi. Quali fantasmi? Beh, tanto per cominciare le strane forme delle nuvole sempre più basse e cupe che anda-vano addensandosi sul suo capo fino a formare una nebbia fitta davanti ai suoi occhi, come se stesse attraversando lo Stige, il corso d'acqua che segna il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti. Anche la vegetazione, irta di spine ed ortiche gigantesche che gli si abbarbicavano alle caviglie e ai polpacci scoperti pungendolo, graffiandolo e irritando la sua carne viva, sembravano essere cresciute apposta per ferirlo.
Don Dino, si fece nuovamente forza: amico, tu sei saggio, istruito, coraggioso e conosci il peccato e i vizi umani, sei uno psicologo, un astuto filosofo, un teologo capace di spaccare i capelli in quattro! Non ti farai spaventare da qualche erbaccia e da un nuvolone che minaccia piscia dal cielo! Oltretutto sei anche un peccatore sulla via della perdizione, salvo pentimento prima di esalare l'ultimo respiro: ricordatene al mo-mento opportuno.
Così rincuorandosi come un novello cuor di leone, certo di riuscire a dominare la paura come un papà che accompagna il figlioletto nel tunnel degli orrori di un luna park, Don Dino si tirò fin sulla fronte il cappuccio del saio e si addentrò nella selva dantesca dominata sempre più dall'oscurità, come se il giorno si fosse trasformato improvvisamente in una notte perenne, un cupo enigma dal quale, una volta entrati, non si esce più. Il buio della ragione genera mostri, una frase che comporta anche il fatto che la ragione spesso vacilla quando si spegne la luce e c'è chi si nasconde sotto le coperte e chi se la fa sotto. Così si spiega il crescente horror vacui di Don Dino, infantile quanto si vuole. Ma si tenga presente che il monaco è reduce da un terribile terremoto. È ancora sconvolto e in preda ad arcani timori. Certo è ben conscio che i fantasmi sono solo il frutto di fandonie per i micchi che vogliono crederci, ma ora è tormentato dal più classico dei dubbi: non si sa mai. Non è vero ma ci credo, recita lo spiritoso titolo di una commediola moderna. Infatti nella sua mentalità di servo di Dio, per quanto uomo di cultura e di scienza, egli non può escludere a priori la presenza di un “altro”, di un rovesciamento del divino, insomma di un Male contrapposto al Bene. Dici corna o pensi diavolo e lui si presenta, porco cane! L'importante, si fece coraggio procedendo sul sentiero infestato da piante maligne e urticanti, è tenere la mente impegnata per distrarsi dai cattivi pensieri che aleggiano dentro.
E mentre andava ripetendosi: adesso comincia la radura, adesso tutto si rischiara, adesso torna la ragione a sopraffare l'inconscio, ecco che viene gelato sul posto, colpito da un suono incongruo, incredibile, metafisico, il raglio di un asino. Ci si chiederà: tutto qui? Cosa può avere di così assurdo e improbabile, di mistico e spaventoso il semplice raglio di un povero asinello imbizzarrito da un fenomeno naturale come il terremoto. Un evento che un animale non può concepire in alcun modo non possedendo il raziocino umano, la capacità di riportare tutto ad un fatto spiegabile con la logica e con la dimostrazione sulla base della causa che scatena l'effetto. Il fatto è che quel raglio, sottolineiamo “quel”, non era un raglio qualsiasi, ma un misto di raglio asinino e latrato di cane.
Bisogna qui ricordare che Don Dino, oltre ad un dottorato in teologia, vantava anche una profonda conoscenza di elementi di demonologia, quindi sapeva ben riconoscere un raglio normale dal cosiddetto latrato asinino che gli specialisti della materia infernale, in particolare gli esorcisti, fanno risalire alla rabbia di Satana che non riesce ad impadronirsi delle anime. Non si tratta dell'antica tradizione letteraria, ben nota a Don Dino, dell'onofobia, la sinistra considerazione dell'asino. Eskilo, il simpatico e placido quadrupede del Professore dagli occhioni languidi, adesso non ce ne voglia: ma la condizione asinina rimanda a qualcosa di arcaico, misterioso, di magico se non addirittura contro natura. Sarà pure per il suo poderoso e bestiale fallo, dotazione genitale che fa invidia agli esseri umani; sarà pure per la volontà ostinata a fare sempre di capoccia sua, a non obbedire a comando ma a impuntarsi spesso, sarà un po' di tutto questo, magari anche le orecchie lunghe e acuminate che sembrano le corna di un satiro, ma sull'animale che raglia aleggia un sospetto indicibile e mostruoso. Perfino l'Islam è ostile all'asino - stiamo seguendo i pensieri di Don Dino che si è raggelato al suono mefitico, perché sempre accompagnato dal putrescente olezzo dello sterco di Satana, del latrato asinino. Secondo quanto racconta l'esegeta e teologo Tabari, è attraverso l'asino che Yblis, l'angelo ribelle, cercò di ingannare Noè per salire sull'Arca. Don Dino rammentò il passo di un hadith contenuto dei Detti del profeta che delinea nientepopodimeno che una stretta correlazione tra l'asino e il demonio: quando udite il raglio di un asino, cercate rifugio in Dio contro le insidie di Satana, meritevole di lapidazione, poiché esso ha visto il Diavolo.
Suvvia, non tutti i muli appartengono a Satana essendo anch'essi parte della Creazione, si rassicura Don Dino in accordo coi santi Benedetto e Francesco, entrambi figli di questa turbolenta e irrequieta terra umbra, che amavano parlare e predicare agli animali, asini e maiali inclusi.
Quando però, qui casca l'asino, si aggiungono altri segni premonitori, per esempio uno stormo di corvi neri che si leva rapidamente in volo gracchiando come uccellacci infernali nel cielo cupo e plumbeo che accompagna sempre le catastrofi naturali, un ringhioso cane randagio dallo sguardo feroce e i canini aguzzi e macchiati di sangue... Ma no, si stoppò di nuovo Don Dino nel suo assurdo pensare e andare fuori di testa coi neri presentimenti: gli uccelli fuggono via perché li ho spaventati io magari con un colpo di tosse o un passo falso; mentre il cagnolino che mi ha sbirciato dai cespugli, ecco appunto ino, coraggio fratello, è solo un bastardino terrorizzato dall'evento naturale. Quindi si scrollò di dosso pensieri vacui, vaniloqui forsennati, fobiche paure; e stava per riprendere con calma il cammino quando percepì un tremolio nell'aria, una vibrazione nell'atmosfera, come una belva, una terribile belva che digrigna i denti in attesa del fiero pasto. Non ci sarebbe bisogno di scomodare Dante, tantomeno citare a casaccio la Divina commedia, se non fosse che nella sua mente furono proprio i versi del sommo poeta a riecheggiare come una sommessa preghiera, un laico Paternostro o Avemaria per scacciare le insidie invi-sibili di cui ci si sente preda in questi strani attimi di vuoto che un filosofo definisce il sonno della ragione che genera mostri!
Si azzardò allora a scostare gli intricati rami dietro cui si celava qualcosa o qualcuno. Chi c'è?, riuscì ad emettere un fil di fiato, chi sei? manifestati o sparisci per sempre, alzò i decibel della voce. E per farsi coraggio, non che gli mancasse ma a volte le gambe fanno giacomo-giacomo da sole, strinse con entrambe le mani la croce di legno del rosario che portava al collo.
Probabilmente si sarebbe aspettato una risposta enigmatica, tipo: Sono Colui che Sono. Oppure: chi mi ha invocato? Per poi ritrovarsi al cospetto del Nuovo Nerone armato di un fantasmagorico scettro luminoso con cui incenerire alberi, piante, esseri viventi. Invece, niente di tutto questo. A dir la verità fu un po' deluso quando scorse una forma umana, piccola, dai capelli lunghi con le treccine e lo sguardo smarrito: una bimba rannicchiata in posizione fetale e tremante, imbrattata di uno strato di fango che sembrava stampato sul suo corpo come il tessuto di un indumento fradicio. Realizzò allora che la natura di quel suono, di quella vibrazione dell'aria che aveva frettolososamente attribuito ad una fantasmagorica presenza mostruosa, altro non era che il tremore della poverella che batteva i denti per lo spavento e per il freddo.
- Chi sei? Che ti è successo? Da dove vieni? - chiese Don Dino sfilandosi il mantello del saio per coprire la bimba dalla quale però non ottenne risposta. - Non aver paura, è finito, è passato tutto. Sei ferita?
La bimba dagli occhi verdi come la corrente dell'Aniene lo guardò; pareva un gattino salvato da un buon samaritano, però con un'espressione dubbiosa, di diffidente riconoscenza, incerta dei possibili nuovi pericoli cui può andare incontro un esserino indifeso in balia di sconosciuti, che sappiamo?, finendo in cattive mani, passando insomma dalla padella alla brace.
- Non temere, ora sei al sicuro - cercò di calmare la trovatella che gli svenne tra le braccia come per abbandonarsi ad un sonno ristoratore. A Don Dino parve di sollevare una piuma, la strinse a sé e cercò di sbrigarsi per raggiungere il Pronto Soccorso giù a valle prima possibile.

* * *

Il racconto richiede ora l'intervento del lettore, un piccolo sforzo per andare avanti: mettiamo dunque le lancette dell'orologio indietro di una sessantina di mi-nuti. Come è possibile, andare indietro per continuare ad andare avanti? Sembra un controsenso. E in un certo qual modo lo è davvero. Tuttavia non si possono raccontare contemporaneamente i molteplici eventi temporali di una storia. Il fiume del Prima e il fiume del Dopo scorrono insieme ma non potranno mai mischiare le loro acque.
Enrico Bernard
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