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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama
con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi,
attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano
Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di
ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera
(Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime
di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il
purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati
da Einaudi Stile Libero). |
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria,
si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata
alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice
emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre
Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato
a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus".
Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé,
conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo
libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio
Strega 2021. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Omicidio al museo
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Domenica mattina.
Pioveva da due giorni e la città era in tilt: la coda intasava il corso da semaforo a semaforo e si avanzava a passo d'uomo. I numerosi cantieri ancora aperti non facilitavano certo le cose. Erano solo le sette del mattino di una domenica di novembre ma Eva Graneris ne aveva già abbastanza, della coda, dell'autunno e delle foglie appiccicate sotto le scarpe. Finché se n'era stata a Roverello, aveva quasi preferito l'autunno all'estate. Autunno al paese significava stufa accesa e fuoco scoppiettante, nebbie basse e schiarite improvvise che rivelavano tutta la tavolozza dei rossi e dei gialli che accendevano querce, abeti, betulle, faggi e castagni. Roverello era polenta concia e castagne e i figli che insieme ai generi e ai nipotini li raggiungevano. L'ultima volta che ci era andata, era stato il fine settimana precedente perché questo weekend le era toccato di turno. Era stato in quell'occasione che in famiglia era emersa la questione per la prima volta. Lei si era mantenuta nel vago, non dicendo né sì né no. Venerdì ne aveva riparlato cercando di spiegare a tutti le sue perplessità ma avevano finito col litigare seriamente, lei contro tutti: dopo la pandemia, e forti del fatto che lei stava per andare in pensione, tutti i membri della sua famiglia erano stati colti da un improvviso sentimento bucolico e volevano andarsene dalla città. Lei no, lei pur amando la natura e cogliendo ogni occasione possibile per viverla, si sentiva profondamente cittadina. Purtroppo li aveva avuti tutti contro. E aveva finito col fare la prima vera grossa litigata con suo marito. Erano venuti fuori vecchi conti in sospeso, cose su cui entrambi erano passati sopra nel corso di oltre trent'anni di vita insieme e che ora sembravano richiedere il loro pedaggio. Venerdì notte, per la prima volta, lei e Luca si erano addormentati senza salutarsi, girandosi la schiena e con la sensazione di essere cresciuti ciascuno per conto suo. Distanti. Distantissimi. Questo era uno dei motivi per cui era nervosa, inoltre era domenica, una di quelle domeniche piovose e sfigate che a volte capitano a Torino. Di solito non succede nulla, a parte qualche rissa. E invece quella mattina, appena arrivata, per altro dopo una nottata particolarmente difficile che aveva richiesto un suo tuffo nelle acque limacciose e fredde del Po, le era toccato lasciare il calduccio del comando di via Bologna per andare con Brusa sino al Museo Lombroso. E per questo motivo era sempre più irritata: anche se da qualche anno era una commissaria di polizia e da trent'anni aveva lavorato in mezzo a criminali e persone d'ogni genere che avevano in comune il fatto di aver perso la bussola, Lombroso non le piaceva per niente. - Brusa, io scendo! Se vado a piedi, arrivo prima: neppure con la sirena riusciamo a correre – esclamò spazientita, con la mano già sulla maniglia della volante. - Sotto questa pioggia commissaria? Un po' di pazienza, il morto non scappa e sul posto c'è già la scientifica. - Io vado – ribatté Eva Graneris cocciuta, spalancando la portiera e catapultandosi fuori. - Prenda almeno l'ombr... La voce di Brusa fu coperta dal rumore della porta sbattuta. Eva tirò fuori dalla tasca del giaccone un cappello da pescatore e se lo calò in testa. Di Lombroso ricordava quello che aveva studiato al liceo: lo scienziato era convinto che il cattivo avesse delle stimmate tutte sue e che bastasse studiarle per riconoscerlo. Per questo non le piaceva: mai creduto alla predestinazione, lei, né in negativo né in positivo. Poi aveva visitato il museo, quando studiava da commissario. Le era toccato. Mentre gli uomini studiavano quei reperti – crani, vasi fatti da detenuti, scheletri, disegni di pazzi – con fare interessato quando non entusiasta, lei, unica donna del suo corso, ne provava repulsione. Le puzzava tutto di muffa ottocentesca e lei di ottocento se ne intendeva, visto che aveva una laurea in storia. L'ottocento le era sempre piaciuto poco. Così bigotto. Così romantico e isterico. Così ipocritamente per bene. Di buono aveva il Risorgimento, Verdi, la nascita del movimento delle donne. E la nascita della scienza moderna. Eva Graneris camminava veloce, guidata dai lampeggianti delle auto di servizio e da quelli delle ambulanze che erano già arrivate sul posto. Stava iniziando a fare giorno, anche se era ormai evidente che quella domenica sarebbe stata una giornata da luci accese. Alcuni agenti stavano transennando il Palazzo di Medicina Legale, un'ala del quale era stata dedicata al Museo di Lombroso. La commissaria si fece largo tra di loro, mettendo ben in vista il cartellino di riconoscimento e solo quando fu nell'atrio, al riparo dalla pioggia, riuscì a guardarsi attorno per vedere se riconosceva qualcuno. - Ciao, Eva, come stai? Arrivo anch'io solo ora: reperibilità! - Guido Anselmi, medico legale, le venne incontro, come sempre un po' impacciato, tendendole la mano. Era un uomo alto, sulla settantina, brizzolato e ancora attraente, con un viso gradevole anche se segnato da un gran naso lungo e affilato. Se c'era lui, significava che Maria Valenti non era in servizio, pensò la commissaria: questo le dispiaceva perché Maria era efficiente e brillante e in più erano davvero amiche. - Dottore, buongiorno! - gli rispose la Graneris tendendogli a sua volta la mano - Sei arrivato anche tu solo adesso o eri in servizio? Dopotutto questo palazzo è casa tua ... - Lo è, infatti! - rispose lui, sbattendo più volte le palpebre, segno che era nervoso. Guido era sempre nervoso quando doveva lavorare con lei. - Oggi è domenica anche per me, ma avevo la reperibilità, anche se con questo tempo avrei preferito restarmene a casa con la famiglia. Già. Lo stesso per lei. A casa, ventiquattr'ore prima, aveva lasciato Luca, ancora profondamente addormentato. E arrabbiato. Prima di uscire gli aveva posato il caffè sul comodino e lo aveva svegliato baciandolo sulla bocca: avrebbe tanto voluto infilarsi di nuovo sotto le coperte accanto a lui e lasciarsi stordire dal suo tepore. In tutti quegli anni di matrimonio, solo una volta era stata ad un passo dal tradirlo. In un momento di crisi profonda in cui si era insinuato il dottor Anselmi. Che l'amava tanto, l'amava sempre, ma che era troppo sposato. Ed era sposata anche lei e non era per niente innamorata dell'allora giovane bel dottore. In compenso a quei tempi era furiosa con Luca, cosa che andava avanti da parecchi mesi e per tanti piccoli motivi. All'ultimo le era parso impossibile rompere il filo che la legava a suo marito ed entrare davvero in intimità con un altro uomo. Fu così che, nonostante la rabbia, non ne aveva fatto niente. Su quel fronte, forse e almeno in parte, le cose stavano per cambiare. Dipendeva da lei e a questo stava pensando la notte prima, quando quella donna aveva deciso di lasciarsi scivolare nelle acque gelate del Po. - Cosa ne sai? - le chiese il medico legale. - Poco - gli rispose Eva, scrollando la pioggia dal cappello - Solo che un tizio è stato trovato morto dentro il museo e che deve trattarsi di un omicidio particolare se il mio vice mi ha chiesto di venire qua di corsa: Boldrin non è un novellino e ne ha viste tante in questa città, se mi ha chiamata vuol dire che qualcosa lo turba. Lei e il medico legale chiacchieravano mentre percorrevano veloci i tetri corridoi degli Istituti Anatomici. Guido continuava a guardarla con quei suoi occhioni da cocker spaniel che chiedevano affetto, mentre Eva faceva, come sempre, finta di niente. Era un gioco vecchio di anni ormai, non era più un pericolo bensì una serena consuetudine. L'assembramento di persone davanti a una porta e le grida di alcuni poliziotti per tenerle indietro, fecero loro capire che erano arrivati. Anche i giornalisti erano già arrivati, ma gli agenti li tenevano a distanza. - Dottoressa Graneris, posso parlarle? La donna, giovane alta e graziosa, l'aveva colta di sorpresa alle spalle, sbucando da una porta sul corridoio. - Non so ancora nulla signora, come vede, sono arrivata adesso - rispose seccata la commissaria. - Sarà lei a dirigere le indagini? - le domandò la giornalista attivando il registratore del cellulare e per nulla turbata dalla brusca risposta della commissaria. - Penso di sì. Vedremo. Facciamo così: ora lei mi lascia entrare senza farmi domande e poi, quando esco, le racconterò qualcosa. È nuova, vero? Non l'ho mai vista. - Sì. È il mio primo delitto - rispose la giornalista, con quell'eccitazione negli occhi e nella voce che una donna giovane di solito prova quando dice: È la mia prima casa oppure È la mia prima volta o ancora È il mio primo amore. Strana gente le giornaliste. E le poliziotte. E le commissarie. E le insegnanti. E le dottoresse come quella che aveva salvato la notte scorsa. E le avvocatesse. E le poliziotte come lei e Maria Valenti, la capa della scientifica: si appassionano a cose alle quali le altre donne non penserebbero mai. La giornalista rallentò il passo, soddisfatta: forse quel giorno sarebbe riuscita a tornare al giornale con qualcosa d'importante da sbattere sul tavolo di quello stronzo di redattore che aveva aspettato due anni prima di darle un omicidio e che anche quella volta gliel'aveva rifilato solo perché era l'alba di una domenica mattina e pioveva e non si potevano certo scomodare le grandi firme rigorosamente maschili per un omicidio anonimo. Eva e il medico legale si fecero largo tra la gente, costituita per lo più da inservienti, dipendenti dell'Istituto, giornalisti di televisioni locali, giovani infreddoliti e affamati di tutto: cibo, notizie, sonno, denari, scoop, alloggi di proprietà, auto, computer e smartphone ultimo modello. - Finalmente dottoressa! Ho faticato a trattenere quelli della scientifica: non arrivava più! - esclamò sollevato un giovane uomo non in divisa. - Un traffico maledetto, Boldrin. E foglie dappertutto - rispose la commissaria scrollandosi le ultime gocce di pioggia dalla giacca. - Venga, dottoressa! Il morto è nella stanza a sinistra, quella degli scheletri, dopo lo studio di Lombroso. - La stanza di che? – chiese la Graneris perplessa. - La Stanza degli Scheletri. Se è per questo, c'è anche quella dei Crani. Ci sono le ossa dei pazzi e dei criminali di mezzo mondo. Lui li collezionava. Già già già ... Eva ricordava qualcosa a riguardo, inoltre il museo era stato aperto al pubblico e quindi dovevano averlo risistemato, rispetto a quando c'era stata lei. - Avevo rimosso ... sempre detestato, quello là - aggiunse con un sospiro la commissaria. Il vice commissario Fabio Boldrin annuì: tra lui e il suo capo si era instaurato un sentimento di affetto e reciproco rispetto. - Venga, commissaria. Così capirà che bel guaio abbiamo tra le mani! - la incitò il suo vice.
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La stanza si chiamava degli Scheletri, perché c'erano degli scheletri. Molti scheletri, almeno una quarantina. Completi. Tutti in piedi sui loro trespoli, con le loro brave targhette sulle basi e intenti ad ostentare le loro orbite vuote e le mascelle sghignazzanti. Se ne stavano in fila sui due lati, lungo le pareti della sala, come un macabro corteo d'onore. Gli ultimi, sul fondo, erano crollati l'uno sull'altro a formare un mucchio e cadendo si erano disarticolati e frantumati. I crani erano rotolati sul pavimento: tarsi, metatarsi, radii, ulne, tibie e femori, per non parlare di clavicole e sterni, si erano sparpagliati un po' ovunque. Dal mucchio emergevano due braccia, certamente meno scarne rispetto al resto dei carcami, avvolte in un maglione, il palmo delle mani rivolto a terra e due scarpe che avevano camminato sino a poco tempo prima. Non così poco, pensò subito Eva, vedendo le mani gonfie e le suole pulite e asciutte del morto. - Chi l'ha trovato? - chiese la commissaria Graneris. - Il guardiano - le rispose Fabio Boldrin. - Stava facendo il suo giro di prima mattina, quando ha sentito un gran fracasso ... probabilmente dovuto alle ossa che cadevano e si frantumavano. È corso a vedere e si è trovato davanti a questo - aggiunse allargando le braccia con fare desolato. - E cos'ha fatto dopo averlo visto? Ha toccato qualcosa? Ha provato a tirare su gli scheletri per liberare l'uomo? – domandò Eva Graneris finendo di sbottonarsi il giaccone. - Tentare di liberarlo è stata la prima cosa cui il guardiano ha pensato, quindi si è avvicinato: con una mano ha iniziato ad alzare un po' d'ossa mentre con l'altra ha afferrato il palmo del tizio e si è accorto che era rigido e gelato, così si è bloccato e ci ha chiamati. - Bene, ragazzi, se avete già scattato tutte le foto alla scena del crimine, potete procedere - ordinò il medico legale agli agenti che attendevano il suo via per iniziare a raccogliere prove e reperti dal corpo e a liberare il cadavere. - Maria Valenti non verrà? – chiese preoccupata la commissaria ad Anselmi. Maria Valenti era sua amica. Ed era anche la capa della Scientifica: di là dai loro rapporti personali, Eva la riteneva una risorsa preziosa per lei e per l'indagine. - È in permesso, ma l'ho fatta richiamare e nel frattempo sono venuto io che ero in città: Maria è in Liguria con marito e figli - le rispose Guido Anselmi. Beata lei, pensò Eva. Le spiacque per l'amica e per il weekend rovinato. Gli agenti della scientifica iniziarono a sollevare gli scheletri con i guanti, lentamente, per cercare di mantenere uniti i pezzi di quelli che si erano frantumati solo in parte e anche per non toccare in alcun modo il cadavere. Fotografavano ogni operazione. Raccoglievano schegge, fibre, polvere e infilavano il tutto in bustine sterili che poi etichettavano. Alla fine, sotto la montagna confusa di ossa, comparve il cadavere. Era supino e non gli si poteva vedere la faccia, schiacciata com'era contro il pavimento. Indossava un maglione rosso acceso e sotto aveva una polo dal bavero alto rialzato. Portava dei jeans dal taglio classico, nuovi e non scoloriti: anche da questo, oltre che dalla corporatura, s'intuiva che non doveva essere giovanissimo. I capelli erano neri, il corpo non molto alto ma atletico. Sembrava tra i trenta e i quarant'anni e niente a prima vista poteva far capire di cosa fosse morto. Le mani, l'unica parte del corpo visibile a parte i lunghi capelli folti sul collo, erano cianotiche e sembravano gonfie. - Appena avete finito, giratelo - disse Guido Anselmi, che si era finalmente avvicinato al corpo e, dopo essersi infilato i guanti a sua volta, aveva tastato la mano destra - È fredda e rigida. Dovrò fare gli esami, ma posso dire sin d'ora che l'uomo non è stato ucciso quando il guardiano ha sentito il rumore. Sembrerebbe già iniziata la decomposizione. - Con le foto abbiamo finito, adesso lo giriamo - gridò un agente. Fabio Boldrin stava registrando tutto. Non fu un bello spettacolo: il volto dell'uomo era gonfio e ricoperto da una ragnatela di ematomi bluastri, come se i capillari fossero esplosi tutti insieme. Oltre alle mani e al viso, anche il ventre era gonfio in modo innaturale, come tutto il resto del corpo. Dalla bocca era colata un po' di saliva color sangue, ma sul pavimento non c'erano altri liquidi corporei. Appoggiato al pavimento, ma in bella vista, era stato lasciato un biglietto stampato al computer: Come Vesalio! Come lui ha recuperato il libro proibito e come lui e altri dopo di lui, è morto! La commissaria-capo Eva Graneris, Guido Anselmi e Fabio Boldrin si guardarono, sbigottiti. Loro sapevano chi era Vesalio: - De Humani Corporis Fabricha - sussurrò Anselmi, mentre la commissaria e il suo vice annuivano. - È presto per dirlo, ma credo che sia morto avvelenato - disse Anselmi, visibilmente scosso - Vedete questi ematomi? E tutto questo gonfiore? Fanno pensare a molte emorragie interne. Sicuramente non è stato ucciso qui, perché se, come penso, si tratta di veleno, per morire può averci messo anche alcune ore. Addirittura giorni. Almeno uno o due. Mentre il ritrovamento da parte del guardiano deve essere stato immediato: ha sentito il rumore degli scheletri che cadevano ed è corso a vedere. - A che veleno sta pensando? – chiese Boldrin, che di ammazzamenti, da quando era alla omicidi, ne aveva visti parecchi ma con il veleno era il primo che gli capitava. - Ancora non lo so - ripose Anselmi, che invece incominciava ad avere una sua idea e si capiva. - I casi di omicidio intenzionale per avvelenamento, oggi sono piuttosto rari - continuò l'anatomopatologo - Un'idea l'avrei, ma prima devo fare le analisi e confrontarmi con il centro antiveleni. Anche perché è un'idea davvero bizzarra. Vi farò sapere appena avrò delle certezze. - E mentre il guardiano correva qui - aveva continuato Eva Graneris cercando di ricostruire la scena e rivolgendosi a Boldrin, incurante della discussione sui veleni perché conosceva Guido e sapeva che difficilmente si sarebbe sbottonato prima di essere sicuro - l'assassino, o gli assassini, perché mi sembra difficile che una sola persona abbia potuto trasportare questo cadavere, erano ancora nell'Istituto in attesa di fuggire. Come avranno fatto a entrare e a uscire? I primi scheletri che ricoprivano il corpo sono stati messi apposta così: la loro posizione non è casuale come quando avviene per effetto di una caduta, mentre a quelli successivi è stato dato un colpo, una spinta. Che ne dice Boldrin? È d'accordo con me? - chiese la commissaria che ormai da anni aveva l'abitudine di consultarsi con il suo vice e con il resto della squadra. Sin dal suo arrivo all'omicidi, la commissaria Eva Graneris aveva fatto del lavorare in squadra il segno distintivo del suo operato. Assumeva sempre da sola le decisioni finali, ma solo dopo aver ascoltato tutti i suoi collaboratori. Attentamente e a lungo. Le piaceva pensare che i suoi, i loro, numerosi successi fossero dipesi anche da questa strategia. - Penso di sì - rispose il vicecommissario - Forse gli scheletri sono stati colpiti con una mazza ... o anche con un osso, per esempio un femore, di quelli già disarticolati. Intanto gli agenti avevano raccolto il biglietto e lo avevano riposto in una busta sterile trasparente e il dottor Anselmi aveva iniziato a tagliare gli abiti del morto, passando i singoli pezzi agli agenti che a loro volta li repertavano e imbustavano. - Vado a prendermi un caffè se per il momento non c'è altro - comunicò Eva Graneris, ben sapendo che in quella fase dell'inchiesta lei e i suoi agenti dell'omicidi erano solo d'intralcio: sarebbero subentrati dopo, non appena il medico legale e la scientifica avessero terminato il loro lavoro. - Boldrin ... - disse la commissaria Graneris - Dopo quello che mi è accaduto questa notte non sono ancora riuscita neppure a fare colazione, vuol venire con me? Ispettore Tedeschi, ci può pensare lei qua? Appena ha novità mi chiami. Angela Tedeschi era l'unica altra donna della squadra: si era laureata in Legge e poi aveva scelto la carriera in polizia. Era giovane, non aveva ancora trent'anni. In famiglia non erano stati per nulla contenti della sua scelta: il padre mandava avanti a stento una piccola drogheria in periferia e la madre dava una mano in negozio. Avevano sperato che lei sarebbe subentrata ai genitori e invece la ragazza aveva preferito studiare, laurearsi e poi scegliere un mestiere che loro ritenevano inadatto ad una donna. Angela era brillante e determinata e per compiere il suo percorso in polizia aveva dovuto affrontare diverse difficoltà e incomprensioni, ma nella vita di tutti i giorni era insicura di sé stessa, si vestiva goffamente per cercare di mascherare la sua avvenenza, balbettava quando doveva parlare in pubblico e l'università era stata un supplizio. Un giorno però la commissaria Eva Graneris aveva scoperto questa giovane donna che se ne stava il più possibile nascosta dietro alla sua scrivania e al suo computer, limitandosi a fare i propri turni, ma senza che questo le avesse impedito di avere due o tre intuizioni brillanti che avevano portato alla soluzione di alcuni casi. Eva Graneris l'aveva fatta entrare nella squadra operativa. L'aveva anche fatta seguire dallo psicologo comportamentale della polizia e Angela Tedeschi aveva accettato: tutto per non deludere il suo capo, ma soprattutto per affrancarsi dalla sua mediocre situazione di partenza. Lo scontento per la domenica rovinata aveva lasciato il posto a un misto d'inquietudine ed eccitazione che sempre coglieva la commissaria Graneris all'inizio di un'indagine. Con ogni probabilità, quella sarebbe stata l'ultima inchiesta per lei, ma questo non le impediva di provare rabbia e orrore per quella vita rubata. Non si era mai abituata alla morte violenta di chicchessia e questa era stata, nei lunghi anni di servizio, la sua fortuna e la sua debolezza. Mentre scendevano le scale verso l'atrio alla ricerca di un distributore di caffè, Fabio Boldrin poteva vedere i pensieri del suo capo mettersi in moto e prendere forma. E anche i suoi, di pensieri, iniziavano a prendere forma. - Riassumendo, commissaria, qualcuno per motivi suoi ha ammazzato un tizio con qualche raffinato e atroce trucco, mettendogli poi ha scritto un biglietto con un riferimento al più famoso anatomista della storia della medicina e ha fatto ritrovare il cadavere nello studio di uno scienziato dalla mente contorta, sotto una montagna di ossa e ha anche fatto un gran baccano per attirare l'attenzione. - Per me questa non è una scena del crimine costruita a freddo e all'improvviso, Boldrin! È meditata. Di più: è stata elaborata come una scenografia. Lo pensa anche lei Fabio? - Sì, commissaria. Intanto dobbiamo trovare qualcuno che sappia chi sia stato Andreas Van Wesel. Un medico, uno storico, un artista, che so, uno studioso d'arte antica: non sono tanti quelli che conoscono le tavole anatomiche di Vesalio! - le rispose il vicecommissario, innervosendosi perché da nessuna parte compariva un distributore automatico e anche lui cominciava a essere stanco e affamato. La commissaria-capo Eva Graneris e il suo vice, Fabio Boldrin, lavoravano insieme oramai da dieci anni. Fabio era veneto, di Chioggia, e appena poteva tornava al mare e a casa, anche se non così spesso come avrebbe voluto. Quando Eva Graneris fosse andata in pensione, cioè la settimana successiva, se il mondo avesse girato nel modo giusto, sarebbe dovuto diventare lui il capo dell'omicidi. Entrambi però sapevano che le cose erano più complicate ed evitavano di parlarne. Alla fine decisero di uscire da quel malinconico e tetro palazzo e s'infilarono nel bar di fronte: il caffè arrivò insieme alle prime notizie. - È un bancario, dottoressa - le comunicò Angela Tedeschi al cellulare - Si chiamava Roberto Maffei e abitava in Corso Re Umberto 251. Nato a Torino nell''87. Per ora è tutto quello che sappiamo: nel portafoglio aveva i documenti e quindi all'assassino o non interessava che lo identificassimo o aveva fretta. Propenderei per la prima ipotesi, altrimenti non avrebbe perso tempo a organizzare quella scena del crimine. Tanto più che se davvero l'ha avvelenato, avrebbe avuto tutto il tempo di far sparire ogni traccia. - Famiglia? - domandò Eva Graneris all'ispettore mentre mescolava il suo caffè macchiato. - Genitori anziani: non sarà facile dirglielo. Una figlia, Cecilia, e una moglie: Giorgia Reviglio. - Giorgia Reviglio? - domandò la commissaria, diventando rossa in volto e serrando le labbra, segno che era furibonda - grazie Angela! - aggiunse riprendendosi - Mi faccia il favore di inviare subito a Boldrin le foto trovate nel portafoglio del morto. Noi mangiamo qualcosa e arriviamo. Voglio sentire il custode prima di tornare in centrale, lo trattenga lì, per favore. Appena terminata la comunicazione, la commissaria sbatté entrambe le mani sul tavolino del bar su cui il cameriere aveva appoggiato i cornetti e le tazzine del caffè. - Giorgia Reviglio? Giorgia?! - esclamò nuovamente la commissaria rivolgendosi al suo vice - Mi faccia vedere quello che le ha inviato Angela, Fabio! Boldrin aprì il cellulare e lo porse a Eva. Si trattava di una sola foto, una di quelle classiche scattate durante le vacanze. La ragazzina, probabilmente più piccola di quanto fosse adesso, era seduta su di un masso davanti ad un laghetto di montagna. Mamma e papà erano in posa alle sue spalle, come due angeli custodi sorridenti. Fabio Boldrin guardò preoccupato il suo capo, inarcando le sopracciglia: sembrava sconvolta e non per la prima volta da quando era iniziata quella indagine, anzi, non per la prima volta negli ultimi giorni. E non era da lei. - Mi sa che mi sono fregata con le mie mani, Fabio. A un passo dalla pensione e dopo tanti anni di lavoro! - La conosce, commissaria? - le domandò Fabio Boldrin. - L'ho conosciuta poche ore fa e mi sa che adesso sono in un mare di guai! Questa tizia è la stessa che ha tentato di affogarsi nel Po la notte scorsa ... poche ore fa! Saranno state circa le tre di stanotte. Ero lì per caso, di pattuglia - aggiunse la Graneris con una breve esitazione nella voce che non sfuggì al suo vice. Erano anni ormai che la Graneris non era di pattuglia. Se era andata fuori quella sera, lo aveva fatto sicuramente per sua scelta. - L'ho trascinata fuori dall'acqua e poi in centrale. Non ho chiamato né l'ambulanza né ho formalizzato il tentato suicidio. E l'ho lasciata rientrare a casa sua. Anzi, non a casa sua ma in un albergo dove stava in pensione con la figlia. Fabio Boldrin era meravigliato e contrariato, ma non avrebbe mai criticato la sua commissaria. Almeno non prima di aver conosciuto le sue motivazioni. - Forse è il caso di mandare un agente dalla signora – le suggerì Boldrin - Certo che come coincidenza non è male, capo! - aggiunse preoccupato. - Lo so, quasi da non crederci. E, infatti, non ci credo. Giorgia Reviglio non abita più col marito: con la figlia ha affittato una stanza da un'amica che gestisce un hotel. Per favore, chiami Meinardi che ormai dovrebbe essere di ritorno in centrale e lo rimandi subito all'hotel, insieme a un'agente donna. Daranno la notizia alla signora Reviglio. Con tutto il tatto possibile, ovviamente. E dica loro di rimanere lì e di piantonare a vista lei e la figlia fino a nuovo ordine: Meinardi sa già del tentativo di suicidio della signora. Gli chieda anche di fare attenzione alle reazioni della donna alla notizia: poi dovrà farmi rapporto - ordinò Eva, porgendo a Boldrin un foglietto su cui nel frattempo aveva scribacchiato l'indirizzo dell'albergo. - Sempre che la signora sia ancora là, che non se ne sia andata - aggiunse Eva, ora sempre più incazzata con se stessa, immaginando il peggio. - Mandi altri due agenti fuori dall'appartamento del Maffei, Boldrin – continuò la commissaria Graneris. - Se all'appartamento non c'è nessuno, com'è probabile, dica loro di attendere il nostro arrivo prima di sfondare: quando avranno finito di lavorare sul corpo del morto, quelli della scientifica andranno a loro volta all'alloggio. Speriamo che nel frattempo sia rientrata la dottoressa Valenti. Il dottor Anselmi ci ha già fatto sapere qualcosa? - Sta per portarsi via il corpo, Angela mi ha scritto un messaggio. Tiene la bocca cucita e l'unica cosa che si è lasciato sfuggire è che questo omicidio non gli piace. - Non piace neanche a me, Boldrin. Il Procuratore è stato avvertito? - L'ho chiamato ma è domenica e per ora non risponde nessuno, né a casa né in ufficio: stiamo cercando di rintracciarlo. - L'ho salvata e non ho fatto né rapporto, né verbale - confidò Eva Graneris al suo vice, sapendo che doveva spiegarsi. - L'ho fatta accompagnare a casa da Meinardi, dopo averle offerto una cioccolata in centrale e aver preso nota delle sue generalità. Mi aveva supplicato di non metterla in difficoltà con la figlia: mi ha giurato che si era trattato di un momento di sconforto e che non ci avrebbe mai riprovato e io le ho creduto! Era la mia ultima notte di servizio prima di andarmene e in più la donna è anche un medico - aggiunse la commissaria, come se quello potesse spiegare il suo comportamento. - Bene! - tagliò corto Eva Graneris mentre risalivano lo scalone del museo Lombroso - Vada a dare le disposizioni che le ho chiesto Fabio, mentre io prendo la deposizione del custode. Quando poi torna, ce ne andiamo anche noi. Brusa mi sta aspettando in auto. Sono le nove del mattino e non ho ancora avvertito mio marito che non rientro. Indíca la riunione della squadra alle tredici nel mio ufficio, così avremo qualche dato in più. Quando usciremo da qui, prima faremo il sopralluogo alla casa dei Maffei e poi andremo dalla signora Reviglio.
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- Capo, non arrivava più! - esclamò l'ispettrice-capo Angela Tedeschi, accogliendola con sollievo in cima alle scale - L'ispettore Lomazzo ha portato il custode in centrale per interrogarlo. - Cazzo! – esclamò furibonda Eva Graneris - perché gliel'ha lasciato fare Angela? - Perché non posso scontrarmi con lui su ogni cosa, capo. Ho pensato che qua o in centrale tanto lo doveva sentire. - Avevo detto qua Angela! Qua! Ed è inutile che lei lo abbia superato di grado se poi si lascia mettere i piedi in testa da lui ogni volta. Lo dico per lei, eh, appena risolto questo caso io non ci sarò più a pararle il culo. O impara a tener testa a tutti i Lomazzo del mondo o lei affoga, per quanto sia brava! La commissaria Graneris adesso era davvero furibonda, prima di tutto perché per un'ennesima volta, l'ispettore Lomazzo se n'era fottuto dei suoi ordini e aveva messo a rischio l'indagine trascinando in centrale un uomo che se si rivolgeva ad un avvocato poteva far saltare tutta l'inchiesta per un vizio di forma. E poi per l'atteggiamento poco combattivo dell'ispettrice-capo Angela Tedeschi. Lei ci aveva puntato su quella ragazza: era brillante, intelligente, era stata la migliore del suo corso. Ma. Era chiusa, insicura nelle relazioni con gli altri e con gli uomini in particolare. Era cresciuta con un padre autoritario che l'aveva avvolta in un'asfissiante capsula di sicurezza e una madre che era poco più di un'ombra del marito. La commissaria capo, che presiedeva la commissione per l'avanzamento di grado, aveva dovuto scegliere tra Angela Tedeschi e Fosco Lomazzo. E non aveva avuto dubbi. Inoltre aveva voluto dare una possibilità a quella ragazza: sapeva che se fosse riuscita a superare la sua timidezza, Angela Tedeschi sarebbe stata una risorsa preziosa per l'Omicidi, al contrario di quel cazzone di Lomazzo. Eva Graneris sospirò e si ricompose, mise una mano sulla spalla di Tedeschi che ormai era paonazza e aveva le lacrime agli occhi. - Mi spiace capo - balbettò l'ispettrice, nello stesso momento in cui la commissaria erompeva - Mi dispiace Tedeschi. Mi scusi! È una giornata difficile per me, questa. Va sempre dallo psicologo? - Sì commissaria. Non si direbbe, vero? - le rispose Angela, tirando su con il naso e cercando di fermare le lacrime prima che iniziassero a scendere. - Ci vuole tempo. E pazienza. Sono certa che imparerà. E adesso andiamo in centrale, cambio di programma! - esclamò la commissaria cercando di dare alla sua voce una nota di allegria che non provava per nulla.
Notte tra sabato e domenica.
La commissaria-capo della Omicidi Eva Graneris se ne stava seduta sotto il ponte Umberto I da un'oretta. Era quasi l'alba. In ufficio era tutto tranquillo e lei aveva voglia di uscire: quella sarebbe stata la sua ultima notte di servizio. Dal sabato successivo, le porte della pensione si sarebbero dovute aprire davanti a lei e invece di esserne contenta era spaventata. Come sarebbe stata la sua vita dopo? Aveva tanto desiderato non fare turni massacranti, avere più tempo da trascorrere con Luca e i nipotini. E adesso che tutto questo stava per accadere, si ritrovava tormentata da mille dubbi. Che cosa sarebbe stata lei, senza il suo lavoro e il suo distintivo? Le sarebbe bastato, senza lo stimolo intellettuale del lavoro? Era abituata a dirigere, ma non a casa sua: non era possibile. Era solita prendere decisioni veloci confrontandosi incessantemente con i suoi agenti e i suoi collaboratori. Ogni tentativo fatto in quel senso, in famiglia si era rivelato un fallimento. In più, per colpa di quella maledetta pandemia, i suoi, e soprattutto suo marito Luca, avevano deciso non solo di cambiarle mansione ma anche di trasferirla in campagna. Eva aveva trascorso la sua infanzia in campagna, anzi in montagna e c'era stata benissimo, ma dai dieci anni in su era cresciuta in città e quando si figurava la pensione per lei e per Luca, immaginava grandi passeggiate lungo i viali, colazione e lettura di giornali al bar, mostre, cinema e teatri. Libri e letture, pomeriggi in biblioteca. Al momento la pandemia aveva spazzato via una buona parte di tutto questo e soprattutto la spensieratezza che ne derivava. E l'avanzare della tecnologia aveva fatto il resto: che senso aveva ormai andare in biblioteca quando tutto era informatizzato? La sera prima lei e Luca avevano litigato come mai era loro accaduto. E per la prima volta nessuno dei due era più sicuro di voler trascorrere tutto il suo tempo insieme all'altro. Il pensiero la rendeva infinitamente triste. Il lavoro e la cura dei figli probabilmente li avevano fatti crescere in modo diverso: piccole divergenze - il fatto che per esempio fosse toccato sempre a lei fare la parte della dura con i figli quando erano adolescenti, o che dovesse sempre forzare Luca a uscire da casa o, ancora, l'accorgersi che suo marito non si fidava della sua guida, non perché lei non fosse una guidatrice esperta, ma perché lui in auto si fidava solo di se stesso - che con gli anni si erano sedimentate insieme alla fatica e alla stanchezza e li avevano allontanati. Per questo adesso aveva volute uscire: alla centrale si sentiva soffocare e aveva finito per sedersi lungo il vecchio fiume a osservare l'acqua che scorreva e le luci sulla collina. Le tossiche che si prostituivano sotto quel pilone dopo la chiusura dei locali notturni, si erano spostate appena un po' più in giù. Prima impaurite, poi intimidite e infine scocciate: se la Graneris non era lì per una retata in accordo con la narcotici, allora perché non se ne andava? In quel modo rovinava solo gli affari. Eva Graneris guardava l'acqua nera del Po e sembrava non far caso ad altro. Doveva esserle capitato qualcosa. Zorak, il barbone slavo, si avvicinò con cautela: lui e la Graneris si conoscevano da almeno tre anni, da quando lei lo aveva salvato da un pestaggio organizzato, dopo che dei ragazzetti confusi e pieni di rabbia repressa che la mattina andavano a scuola a far finta d'imparare un mestiere e che la sera passavano il tempo sfogando le loro frustrazioni contro cose e persone, avevano deciso di farne oggetto del loro personale sfogo temporaneo. Eva Graneris era intervenuta appena in tempo con i suoi uomini e Zorak se l'era cavata con un occhio pesto, tanta paura e una bottiglietta di gin passatagli di nascosto da un poliziotto, dopo un cenno di assenso della commissaria che si era girata a guardare il fiume che scorreva, proprio come in quella notte. - Commissaria sta bene? - le domandò Zorak, sedendosi accanto a lei sulla riva del fiume. Eva si voltò, lo riconobbe e ricambiò la sua gentilezza con uno dei suoi grandi e bellissimi sorrisi. Eva Graneris non era mai stata né bella né brutta. Una donna qualsiasi dai profondi occhi castani ma dal sorriso che le illuminava tutto il volto ogni volta che decideva di mostrarlo. Invecchiando erano spuntate le rughe, i capelli castano-ramati si erano in parte imbiancati e lei aveva deciso a volte di non tingerli e a volte di fare delle mèche bionde. Secondo i momenti della vita e l'umore, ma quando le veniva da ridere e sorridere, il suo viso tornava ad avere e trasmettere la stessa luce di quando era ragazza. - Sto bene Zorak, stavo solo riempiendo le ore-buco del turno di notte cercando di prendere una decisione personale. - Commissaria ... qua iniziano a sparlare di lei e non è un bene: le hanno sempre portato rispetto! - le disse Zorak col suo italiano dall'accento ruvido. Il senzatetto fece una pausa, cercando le parole. Non poteva certo chiedere alla Graneris in che guai si fosse infilata, però doveva scuoterla: presto qualcuno avrebbe iniziato a sbeffeggiarla. Senza sapere il perché, Zorak pensò a Vukovar e alla bambina che moriva crivellata dai suoi colpi e gli venne una gran voglia di bere. Subito. Quelle immagini continuavano a colpirlo all'improvviso. Non gli davano tregua, nonostante lo scorrere degli anni. Non aveva colpa, non era partito volontario per la guerra. Non aveva voluto uccidere quella bambina. Prima - per Zorak, come per tanti altri esseri umani, il tempo era scandito in Prima e Dopo - lui i bambini li educava: era stato un maestro elementare, a cui era successo che si fosse ritrovato a ucciderli e questo non poteva perdonarlo. A se stesso e all'intero universo. Fu in quel momento che si sentì il tonfo. Non un tonfo forte, come di qualcosa o qualcuno che cade o si butta dall'alto, piuttosto il tonfo di qualcuno o qualcosa che scivola lentamente e dolcemente nell'acqua. Nonostante il buio, una chioma bionda baluginò per un attimo prima di scomparire tra le acque scure del fiume, colpita dalla luce dei fanali e da quella dei fuochi accesi sulla riva dalle prostitute. - Là! - gridò Zorak alla commissaria, indicando qualcosa che fluttuava. - E che cazzo! - imprecò Eva tra sé, mentre balzava in piedi, si sfilava la pistola e il giubbotto passandoli al senzatetto e si toglieva gli stivaletti per buttarsi in acqua: ma guarda se quella doveva venire a suicidarsi proprio questa notte davanti ai miei occhi! Il fiume mangiò gli ultimi pensieri della commissaria Graneris prima che il tuffo la catapultasse in acqua. Sul volto di Zorak si diffuse un sorriso: Ci voleva proprio, si ritrovò a pensare. Senzatetto, puttane, tossici e clienti vennero così distratti dai loro mugugni e dai loro traffici e si affollarono sull'argine, pronti a dare una mano mentre un uomo si tuffava a sua volta. La commissaria stava però già tornando verso riva, trascinandosi dietro la donna bionda che quietamente si lasciava portare in salvo e anzi nuotava: evidentemente l'acqua limacciosa e gelida le aveva fatto cambiare idea. Le due donne vennero aiutate a risalire l'argine e poi fatte sedere attorno ai fuochi. Vennero date loro coperte e stracci con cui asciugarsi. Zorak portò accanto ai fuochi la pistola, il giubbotto e le scarpe del commissario. Eva Graneris armeggiò nel giubbotto ed estrasse il cellulare: doveva chiamare la centrale e far venire un'ambulanza per la donna che adesso se ne stava silenziosa e si era come accartocciata seduta su di un masso. E anche per sé stessa, se non voleva prendersi una polmonite. - No! - le gridò la donna che all'improvviso sembrava essere rientrata da un qualche mondo lontano noto solo a lei e che con uno scatto deciso bloccò la mano della commissaria che stava iniziando a compulsare la tastiera del cellulare. - Le serve un'ambulanza, signora - spiegò stancamente Eva mettendo per il momento da parte il telefono e riprendendo a strofinarsi i capelli, cercando di nascondere un'irritazione che aumentava sempre più. - Inoltre devo fare la denuncia per tentato suicidio e, appena sarà in grado di affrontarlo, devo anche farle qualche domanda. È stata sfortunata: ha deciso di annegarsi sotto gli occhi di un commissario di polizia e di un folto pubblico di spettatori - concluse indicando con la mano tutto il popolo della notte che si era radunato attorno a loro. Che voleva quella tizia? Prima si buttava nel fiume obbligandola a gettarsi in quell'acqua fredda e putrida e adesso le dava degli ordini. Come si permetteva? La donna però non mollò il braccio della commissaria che ormai stava perdendo la pazienza e stava per sbottarle addosso. - Aspetti, la prego! Ho fatto una grossa sciocchezza questa notte e se non era per lei ... Anche se so nuotare, non è detto che ne sarei uscita viva! Ho una figlia. Non mi rovini. È che a volte, tutto sembra così troppo difficile da sopportare e la tua vita appare così banale! Perde ogni lucentezza - concluse la donna con tristezza. La rabbia di Eva evaporò rapidamente. Quella donna era stata bravissima a esprimere sentimenti che la poliziotta stessa aveva covato sino a un attimo prima di essere costretta a buttarsi nel fiume. - Mi dia solo un po' di tempo, commissaria - continuò la donna - Un po' di tempo per spiegarmi e farmi conoscere. Poi farà ciò che crede. Non se ne pentirà, glielo giuro! Eva Graneris mise via il cellulare. Per il momento. - Non possiamo restare qui, bagnate e con questi testimoni: andiamo nella mia macchina a parlare. E le assicuro che se mi combina qualche scherzo ... - le rispose Eva Graneris a bassa voce. - Nessuno scherzo: le do la mia parola. La donna si alzò. Ringraziò tutti con un cenno del capo e un ciao appena accennato a parole e con la mano. - Andiamo alla centrale - disse Eva rivolgendosi alla piccola folla che le circondava - La signora sta bene e l'ambulanza non serve: verrà con me e poi la farò riaccompagnare a casa. Grazie a tutti per l'assistenza e ... a buon rendere! – concluse, regalando a tutti un sorriso grato e amichevole. - Si faccia un bel caffè caldo, commissaria. A volte le cose arrivano al momento giusto! - le sussurrò Zorak sornione, in modo da farsi udire solo da lei. Eva gli strinse il braccio per ringraziarlo: era ormai troppo stanca e infreddolita per cercare di mantenere le distanze che i loro reciproci ruoli avrebbero richiesto. Salite in macchina, Eva avviò l'auto, inserì il riscaldamento e si diresse verso la Barriera. In via Bologna fermò l'auto davanti a un cancello di ferro piuttosto malandato e chiuso da un lucchetto arrugginito. Scese, prese una chiave dal cassetto del cruscotto e aprì la vecchia grata, poi si rimise alla guida ed entrò. Fermò l'auto in un piccolo spazio tra la vegetazione e richiuse il cancello dietro di loro. La donna si guardò attorno preoccupata: davanti ai suoi occhi, illuminata dai fari dell'auto, si ergeva un'improbabile foresta di alberi. - Giungla cittadina – spiegò Eva Graneris – Non si preoccupi: siamo dentro il cortile di una vecchia fabbrica abbandonata. Le vede quelle luci? In alto, alla sua destra, quello è il commissariato della zona in cui lavoro. L'hanno ricavato dentro alla fabbrica, per questo ho le chiavi. Gli alberi sono cresciuti spontanei. Tra poco li abbatteranno ed io ne soffrirò. Sono maestosi, vero? Maestosi e bellissimi. Ma adesso parliamo. Come si chiama? - Giorgia. Mi chiamo Giorgia Reviglio e sono un medico, lavoro al pronto soccorso del Gradenigo. Ho una figlia di dodici anni, Cecilia. E sino a ieri mattina avevo un marito. - E adesso non l'ha più? - le domandò interessata la commissaria. Facendo segno di no col capo, Giorgia scosse i lunghi capelli biondi che le saltellarono attorno al viso in mille piccole onde e i suoi occhi azzurri si velarono di dolore. - Ultimamente le cose non andavano bene tra me e mio marito e così, dopo l'ennesima litigata, cinque o sei giorni fa, ho deciso di lasciarlo: Cecilia ed io siamo andate a vivere in un hotel gestito da un'amica. In attesa di prendere una decisione definitiva. - E suo marito come l'ha presa? – chiese la commissaria mentre il verso di una civetta fece sussultare Giorgia. - Uccello notturno – le spiegò la commissaria. Non si spaventi! Continui, mi convinca che non c'è bisogno di alcun rapporto da parte mia!. - Giovedì pomeriggio ho convinto Roberto a fare un giro fuori città. Speravo ... sa, speravo di aggiustare le cose in qualche modo. Ci siamo amati molto. O almeno così credevo io. Lui ha un hobby, l'antiquariato librario, che a poco a poco l'ha assorbito completamente. Negli ultimi mesi poi era diventato ancora più assente! Ero sicura che avesse un'altra. - L'ha tradita ... - Dapprima ha negato: il problema - a suo dire - ero io. Io che non ero più divertente, più nuova. Sì, ha usato queste parole. E soprattutto che non avevo fiducia in lui e che non volevo capire come lui fosse finalmente a un passo dal realizzare tutti i suoi sogni di collezionista. La civetta squittì nuovamente. - Conosco un detto secondo il quale quando una civetta canta tre volte, qualcuno muore - sussurrò Giorgia rabbrividendo. - Questo è anche il cortile della sezione omicidi, signora Reviglio. Alla civetta tocca cantare tre volte tutte le notti, allora! - la prese in giro la commissaria. Giorgia Reviglio non sembrò apprezzare particolarmente la battuta della commissaria e si strinse ancor di più negli abiti che aveva addosso. - Mi scusi - le disse Eva Graneris sfiorandole la spalla con un gesto tenero, quasi protettivo. - Volevo sdrammatizzare, ma non mi è riuscito bene! Vada avanti, la prego, così poi andremo di sopra ad asciugarci, a bere qualcosa di caldo e io deciderò il da farsi. Giorgia Reviglio annuì con un cenno del capo e riprese a parlare. - Non aveva nessun'altra, semmai da un po' di tempo aveva molte altre: tutte cose occasionali che però lo divertivano e lo rilassavano. Poi mi ha detto che in realtà non mi amava più e che voleva il divorzio. Lo so cosa pensa: è tutto scontato. Capita continuamente a milioni di altre donne ... io non ero pronta, ecco! Giorgia Reviglio non voleva più continuare. E la commissaria la capiva benissimo. Sentiva il dolore emanare da Giorgia come un profumo. Non aveva bisogno di sapere altro. Se avesse voluto, se si fossero ancora incontrate - cosa improbabile perché era evidente che frequentavano posti e ambienti diversi e che solo il fiume le aveva casualmente riunite in quella notte - le avrebbe raccontato in seguito. Per la commissaria Graneris fu più che sufficiente. Caso archiviato. Sempre che la donna non ci avesse riprovato, ma Eva sentiva che non l'avrebbe fatto: la figlia Cecilia sarebbe stata il suo salvagente. Giorgia adesso piangeva e tremava e anche la commissaria non si sentiva per niente bene: la stanchezza, il dolore, la rabbia, lo spavento mescolati all'acqua sporca e gelida del fiume l'avevano stremata. - D'accordo. D'accordo. Adesso ce ne andiamo dentro – disse la commissaria. - Ci prendiamo una bella cioccolata calda alla macchinetta e poi, se non ci sono emergenze, la riporto a casa e me ne vado a dormire anch'io. Dov'è questo hotel? - In centro. Vorrei andare là il prima possibile da mia figlia, ma non c'è bisogno che si disturbi, posso prendere un taxi: lei ha già fatto fin troppo per me, questa notte! Il muro si era ricreato: erano tornate due donne adulte ed estranee. A Eva Graneris dispiacque. Alle cinque del mattino la centrale viveva uno dei pochi momenti tranquilli di tutta la giornata. I poliziotti di turno sonnecchiavano esausti dopo aver corso per quasi tutta la notte. Giorgia Reviglio sorseggiava con gusto la sua cioccolata calda, seduta su una delle sedie del corridoio, mentre Eva si era infilata nel suo ufficio con in mano un bicchiere di cioccolata ancora fumante. Non aveva invitato la donna a entrare ma aveva lasciato la porta aperta, in modo che la dottoressa si fosse sentita libera di decidere se accedere o no al suo ufficio, e lei si era fermata nel corridoio. - La porterò io dalla sua amica, almeno così saprò che starà con qualcuno che si prende cura di lei: non sono così certa di potermi fidare di un'aspirante suicida! - disse la commissaria e Giorgia Reviglio non si azzardò a insistere. La chiamata arrivò mentre la Graneris si apprestava ad uscire. Il cellulare aveva iniziato il suo molesto balletto nella tasca dei pantaloni: era Fabio Boldrin, il suo vice. Eva Graneris lanciò un'occhiata all'orologio appeso al muro: le cinque e dieci del mattino. Non poteva essere nulla di buono a quell'ora. - Un omicidio, capo - le comunicò asciutto Fabio Boldrin - al museo Lombroso, nell'Istituto di Medicina legale. Lo so che stava per andare a casa, ma abbiamo bisogno di lei. Eva lanciò mentalmente un'imprecazione. La dottoressa Reviglio avrebbe dovuto prendersi un taxi e lei sarebbe rimasta con i calzini bagnati. Per fortuna aveva un cambio in ufficio. - Nottata complicata, vero? – le chiese Giorgia Reviglio che nel frattempo si era alzata dalla sedia sbilenca posta nel corridoio ed era andata ad appoggiarsi allo stipite della porta. - Mi spiace – le rispose la commissaria Graneris – ma dovrà tornarsene a casa da sola. Volevo venire con lei, ma adesso devo correre da un'altra parte. La farò accompagnare da un agente che si accerti dell'indirizzo e che lei sia al sicuro. E che abbia una figlia che l'aspetta. In ogni caso lascerò qualcuno di guardia fino a domani ... a questa mattina, quando passerò da lei a controllare che tutto sia normale. Un brutto morto mi sta spettando - sussurrò quasi a se stessa la funzionaria di polizia. Giorgia Reviglio le sorrise. - Ci sono morti belli e morti brutti, commissaria? - domandò la Reviglio - Non ci avevo mai pensato, pur lavorando in un ospedale. - Devo andare dottoressa, filosofeggeremo un'altra volta! – rispose la commissaria, ormai con la mente rivolta al nuovo caso. - Meinardi! – urlò la commissaria rivolgendosi verso l'ispettore che stava arrivando dal corridoio - per favore, accompagni la signora all'indirizzo che le dirà. E verifichi che entri in casa e che la sua amica ... A proposito, come si chiama quest'amica? – chiese rivolgendosi a Giorgia. - Clara. Clara Airaudi – rispose la donna. - ...che la signora Airaudi sia in casa e che l'accolga. Le spieghi anche che cosa è accaduto questa notte. E porti con sé un agente che resti di guardia per questa notte. Mi spiace - aggiunse rivolgendosi nuovamente alla dottoressa - ma queste sono le mie condizioni per non far partire la denuncia di tentato omicidio. Giorgia Reviglio sbuffò, ma alla fine chinò il capo. Si strinse nella coperta che le avevano dato e rialzò il mento con un fare un po' offeso. - Andiamo! – disse quindi, rivolgendosi al poliziotto che era pronto ad accompagnarla - Allora ci vedremo domani commissaria? – chiese poi con aria quasi birichina, rivolgendosi a Eva. Era proprio una notte strana, di quelle che non capitano spesso nella vita. Anche Eva non aveva voglia di separarsi da quella donna: sentiva con lei una qualche sorta di sorellanza che però non era disposta a riconoscere. - Può contarci Reviglio! Resti dalla sua amica: la richiamerò lì appena avrò finito. E si comporti bene, pensi a Cecilia. - Promesso! - le rispose la dottoressa e se ne andò via sollevata, seguendo l'ispettore Meinardi che intanto sorrideva tra sé: Eva Graneris, nonostante tutte le sue arie da dura, aveva il cuore tenero. |
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