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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama
con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi,
attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano
Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di
ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera
(Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime
di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il
purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati
da Einaudi Stile Libero). |
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria,
si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata
alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice
emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre
Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato
a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus".
Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé,
conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo
libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio
Strega 2021. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Solo per un ricordo
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Si può tornare dove non si esiste?
ORE 00:00. Piccola Shangai esterna, IX Anello: stazione di servizio.
«Mai più» sussurrò Penny. «Mai più» fece eco Gottlob. «Sarà la fine di ogni schiavitù, non solo della nostra, amore mio.» «L'inizio di un mondo nuovo. Di un mondo per tutti... per noi.» Penelope e Gottlob si trovavano in una stazione di servizio autostradale, una di fronte all'altro, in piedi, e reggevano a quattro mani una bottiglia di whisky. Dall'auto, cantava Janis Joplin, Summertime. Sullo sfondo, dietro di loro, ondeggiava un gigante gonfiabile con i polsi incatenati; il suo ditone segnalava l'inizio del IX Anello, quello che conduceva a Piccola Shangai chiusa. Non appena i due sollevarono le braccia per frantumare in terra la bottiglia, come gesto di buon auspicio, ecco che invece il whisky gli esplose fra le mani, bagnando petto e pancia di entrambi. «No, non andrà così. Oggi niente finisce e niente inizia. Oggi ve ne andate a fanculo.» Berretto grigio e tuta blu intera da meccanico, Vascill era spuntato da dietro una pompa di benzina: era stato lui a sparare alla bottiglia. «Metti via la pistola.» Gottlob pensò di prendergliela, ma era troppo lontano. «Siamo dalla stessa parte.» «No, voi due siete dalla parte sbagliata. Quella di chi tradisce. E voi avete tradito il mondo intero. Mi dispiace davvero per quello che vi hanno fatto, credetemi, ma...» Vascill strizzò ripetutamente i suoi occhi neri, due linee di rabbia. «Non ci posso credere! Vi cercano i peggiori figli di puttana del mondo: Gruppo e Foche hanno una paura fottuta.» «Abbiamo un sacco di soldi, puoi prenderteli tutti.» Penny lo fissava a muso duro. «Prendili e vattene.» «Ma di che parli, Penny?! I soldi non c'entrano un cazzo, lo sai bene.» «Non accadrà niente di ciò che temete. Sono solo fesserie. N2 invece verrà spento: non vuoi che la Cancellazione finisca una volta per tutte?» Gottlob fece due passi verso di lui, ma si arrestò subito, perché Vascill ne aveva fatti due indietro puntando la pistola su Penny. Frustrato, pestò un piede sul cemento, e dal maglione nero a collo alto il whisky sgocciolò su jeans e anfibi. «Hai dimenticato quello che ci hanno fatto? Quello che ci hanno costretto... a fare?» «No, non l'ho dimenticato. Ma se fossero solo fesserie, non vi darebbero tutti la caccia. Siete un guaio serio.» «Dacci una mano. Abbiamo l'occasione di sconfiggerli per sempre.» «Magari, Gottlob. Magari!» Ghigno sconfitto, Vascill compì un cerchio con il mento. «Ma quelli sono proprio il tipo di bastardi che nessuno sconfigge mai. E poi, è troppo perico...» Uno sparo fece sobbalzare tutti e tre, e Penny si ritrovò ferita di striscio al bicipite destro. Lei e Gottlob corsero subito all'auto e sgommarono via dall'autogrill infilandosi nel traffico notturno. Vascill salì sulla sua moto e li seguì. Non era stato lui a fare fuoco, ma un uomo a bordo di un furgoncino bianco, che continuò a sparare, anche lui all'inseguimento di Penny e Gottlob. Il lunotto posteriore si sbriciolò, altri due colpi forarono il bagagliaio. Così Gottlob tagliò la strada a un anziano, che finì contro la barriera di contenimento, e guadagnò terreno. Iniziò a piovere verde e unto. Buste di immondizia fluttuavano a stormi nel cielo. «Sai quello che devi fare, Gottlob.» Penny si morse il labbro inferiore e si sistemò i capelli neri dietro l'orecchio, sul lato destro, dove erano lunghi. «Non c'è altra scelta.» «Non pensarci nemmeno!» ringhiò Gottlob, e una smorfia gli indurì tutta la faccia, anche gli occhi blu oceano. «Telefono a Silvestro. Magari può...» «No, Silvestro non può aiutarci.» Sconsolata, lei si guardava il braccio ferito. «Nessuno può. Lo sai bene.» Gottlob fece comunque partire la chiamata. Dietro, l'inseguitore non mollava, e accorciate le distanze, prese di nuovo a sparare. I finestrini di sinistra andarono in frantumi, la fiancata divenne tutta un pois di proiettili, e quando esplose la ruota posteriore, l'auto iniziò a derapare come un carrello della spesa. Il bersaglio era adesso Gottlob, ma venne colpita Penny, di nuovo di striscio al braccio destro. Gottlob iniziò quindi a guidare a zigzag, causando una serie di tamponamenti che distanziarono il furgoncino bianco. A destra, poi a sinistra, le gomme fischiavano. A sinistra, poi a destra, il motore rombava. «Devi farlo, cazzo!» Prima isterica, Penny si rassegnò poi sottovoce. «Altrimenti... questa è la fine.» «Ci deve essere un altro modo.» Gottlob respirò a strattoni, sul punto di piangere. «Devo solo pensarci.» «Non c'è nulla a cui pensare. Devi farlo. E devi farlo ora!» «No, non posso. Non abbiamo la minima certezza che questo momento...» Un proiettile colpì la radio, che fece urlare di più la Joplin. Un altro, invece, tranciò una ciocca di capelli di Penny, come peli di tarassaco al vento. Gottlob sterzò d'istinto e attraversò pericolosamente tre corsie, provocando altri incidenti a catena, che di nuovo allontanarono il furgoncino bianco. La pioggia si fece più fitta e più verde, ma senza speranza, e invase l'interno dell'auto. L'immondizia volante, sospinta giù, risaliva su, come boe nel cielo. D'un tratto Silvestro rispose al telefonino e la sua faccina olografica comparve alla destra del volante. Dietro di lui, quasi ciucco, ballavano piccoli mezzi busti. «Sono a un matrimonio. Che volete?» I due non risposero: lei persa nel mondo che correva all'impazzata fuori dal finestrino, lui perso nella coda degli occhi, dentro di lei. Ignorato, anche Silvestro attivò l'opzione olografica del suo cellulare. «Mi sentite? Che succede?» E continuò a cercare attenzione gridando i loro nomi, ma invano. «Forza, Gottlob» annuì Penny decisa, il palato in lacrime. «Non c'è tempo da perdere.» «Non posso!» Gottlob picchiò la testa glabra sul volante. L'auto suonava a tutta birra. «Non sappiamo...» Lei gli tappò la bocca con una mano, delicatamente, e gli diede un fresco bacio tra il naso e lo zigomo, l'unico punto in cui la faccia di Gottlob non aveva cicatrici. «Se è come dici tu... allora addio, amore mio. Altrimenti, non vedo l'ora che tu venga di nuovo ad abbracciarmi.» Si strinse quindi a lui, e una lacrima confluì in quella tatuata sotto il mento, dopo aver pianto anche sulla guancia di Gottlob. «È il momento.» Gottlob prese la pistola da sotto il sedile e sparò contro il furgoncino bianco di nuovo vicino, ma senza colpirlo. Guardò Penny negli occhi, rossi color riverbero, e una smorfia gli stritolò occhi e sudore. Con le nocche le carezzò il lato rasato della testa, il sinistro, e strinse la pistola come se volesse sfasciarla. Poi la puntò su quei corti capelli neri e le fece saltare la testa. «Ma che cazzo hai fatto?» chiese Silvestro, di nuovo senza ricevere risposta. Gottlob menava infatti i pugni a caso, sfregando la testa al poggiatesta. La pioggia era tutta nelle sue lacrime, e viceversa. Quando l'auto sobbalzò, a causa di uno dei giunti del ponte autostradale, la portiera di Penny si aprì e il suo cadavere cadde fuori e rotolò sulla strada, come un vecchio tappeto: mentre il cemento scorticava spalle e ginocchia, bomber e fuseaux neri, un anfibio saltò via. Nel tentativo di acciuffarla, Gottlob perse il controllo dell'auto, che sbandò e si capovolse. A quel punto, il furgoncino inchiodò, l'uomo scese e si diresse verso Gottlob, frastornato e incastrato dentro l'auto. L'autostrada era deserta, l'inseguimento aveva paralizzato tutto il traffico. Arrivò solo Vascill, che scese al volo dalla moto, lasciandola cadere a terra. «Fermati! Non deve per forza finire così.» «Sì, invece. E lo sai bene.» Calmo, l'uomo fissava Vascill dritto negli occhi, mentre si avvicinava a Gottlob. «Devono morire. Ho giurato di ucciderli. Anche tu l'hai giurato. Sei ancora una Foca Verde, Vascill? O sei passato dalla parte del nemico?» «Fermati, cazzo!» Il suo tic agli occhi s'intensificò, facendo ballare tutti i buchi della sua faccia butterata. «O ti sparo alle gambe.» «Ho finito i colpi... i Dorian. Addio, compagno.» «Non costringermi a farlo.» L'uomo non si fermò e Vascill mantenne la sua minaccia. Però, nonostante la gamba ferita, quello si lanciò a terra, attaccato a Gottlob. Poi proferì in silenzio alcune parole, un comando vocale, ed esplose imbrattando Gottlob di sangue e lacerandolo dalla tempia al collo. Numerose volanti della polizia si avvicinavano. Vascill dovette scappare via. Gottlob venne invece arrestato. E fu il buio, sopra un mondo in bianco e nero.
Gemonìe.
Due uomini identici e sudici si arrestarono affannati dopo una lunga corsa scatenata. Se non fosse stato per abbigliamento ed equipaggiamento differenti, si sarebbero detti due perfetti cloni. 123 si lasciò cadere carponi, con i guantini e le ginocchiere nel fango rossastro. Poi si sfilò gli occhialoni da aviatore, rifiatò e controllò di non aver perso la pistola scarica e i coltelli. 2044 si picchiò invece il caschetto da combattimento con entrambe le mani. Poi si liberò del marsupio e dei parabraccia, e li lanciò via frustrato, insieme all'arco e alla fionda. «Speriamo che gli altri non abbiano preso un'altra direzione» disse 123. «Aspettiamo ancora qualche secondo. Se non li vediamo arrivare, torniamo indietro.» Le tenebre erano ovunque; senza i riflessi di un enorme falò poco distante, non si sarebbero visti l'un l'altro. Il terreno vibrava, vibrava ogni cosa, ogni istante. Il cielo non sembrava un cielo, ma il soffitto di un mondo sotterraneo. «Eccoli, li vedo! Sì, sono loro.» 123 si rizzò in piedi sollevato. 2044 iniziò invece a singhiozzare. «Quando... mi risveglierò... da quest'incubo?» Acido, 123 gli lanciò un'occhiataccia. «Smetterà di essere un incubo solo quando capirai che non lo è affatto.» «No, non smetterà comunque.» «Siamo qui da anni, accidenti! Smettila di piangere. E poi, chi starebbe sognando di noi? Io? Tu? O loro?» 123 fece una panoramica dietro di sé, sul migliaio di uomini che si stavano avvicinando, identici fra loro e identici a loro due. Molti erano privi di mani o di braccia. Tutti avevano delle protezioni sul corpo e delle armi, soprattutto bianche. Sembrava un esercito di disgraziati formatosi per caso, in fretta e furia. «Se non è un incubo, allora come mai ci sono miliardi e miliardi... e miliardi di persone?» 2044 si coprì fronte e occhi con i palmi. «Lo sai bene il perché. Se non ci vuoi credere, è un tuo problema. Continua a fare il tuo inutile censimento e lasciami in pace.» «Ma perché noi siamo uguali?» «Siamo la stessa persona, ficcatelo in testa! Ogni altro maledetto branco diverso da noi è la stessa persona: ogni branco, una persona. Ogni branco, una persona!» «L'ho capito!» urlò 2044, si slacciò il caschetto e lo sbatté a terra. «Ma perché? Se non siamo cloni, cosa...» «Finiscila! Perché fai sempre le stesse stupide domande? Perché parli come se fossi appena caduto? Quante volte dobbiamo ancora parlarne?» 123 s'incupì. «Hai mangiato della carne per caso? Della carne uma...» All'improvviso, un tonfo stravolse occhi e orecchie, e ognuno prese subito a scappare per conto proprio. Ecco di nuovo un tonfo, poi un altro e un altro ancora: dal cielo oscuro, ora leggermente schiarito da bagliori brevi e intermittenti, piovevano migliaia di uomini, e con essi le urla e il panico; le ossa si spaccavano, le membra esplodevano e il sangue fresco ricopriva quello vecchio e incrostato. Non c'era modo di schivare quei corpi sbraitanti, se non quello di sperare di riuscirci, e infatti molti vennero colpiti in pieno sulla schiena. Anche 123 correva per sfuggire a quel bombardamento di carne, quando notò un'angusta nicchia fra le rocce e ci si tuffò. Gambe abbracciate e mento sulle ginocchia, rimase lì tremante, in attesa che il Temporale, vivo ma mortale, proseguisse oltre.
Il Passato: TUTTO.
Ninti e Keme erano una di fianco all'altro. Davanti a loro, oltre la ringhiera di pietra, scorreva un fiume. I canoisti remavano all'indietro, le acque tornavano alla sorgente, il Sole si muoveva verso est: tutto andava controcorrente, anche le persone nella piazza e lungo la passeggiata che avevano alle spalle, i loro discorsi, ogni loro gesto. «Credevo che non ti avrei mai più rivista. Ma per fortuna hai smesso di nasconderti.» Keme ammainò ali e occhi, e si girò verso di Ninti. «Che fine hai fatto?» Era arrabbiato, sì, ma soprattutto felice di rivederla. Lei era invece pensierosa, gli occhi sbarrati, fissa su quell'orizzonte al rovescio, e non gli rispose. «Che diavolo vi è preso a tutti quanti? Io trovo un modo per poter andare finalmente via da qua, e invece voi... voi decidete di rimanere.» «Hai cambiato voce. Sembri un'altra persona.» Ninti continuava a non guardarlo, continuava a pensare a qualcuno che non era lì. Keme invece scosse la testa deluso, accorciando le distanze, e le sussurrò a un palmo dall'orecchio. «Non sono mai stato una persona, come non lo sei mai stata tu, lo sai bene. E smettila di ignorarmi, Ninti.» «Dovresti lasciar perdere e rimanere anche tu.» Keme alzò le ali come fossero altre due persone, basite tutte e tre. «Come puoi chiedermi ancora di lasciar perdere dopo tutto questo tempo?» «Gottlob ha dovuto uccidere Penny. Lo sai, vero?» «Certo che lo so» rispose Keme svigorito. «E allora sai anche che il tuo piano fallirà di nuovo.» Quelle parole la resero felice e triste allo stesso tempo, come due occhi specchio della stessa anima, ma di colore diverso. «Proprio come sono falliti tutti gli altri: non riuscirai ad andare nel presente, resteremo qui per sempre. Persi... in tutto il Passato.» «No, questa volta ce la farò, anche senza il vostro aiuto.» Keme pensò lontano per alcuni istanti, e da lì, da lontano, tornò rinvigorito. «E non ci chiameranno più Perdido, ma dèi. Perché dèi... è esattamente quello che diventeremo.» Un colombo, che volava anche lui al contrario, come tirato per la coda, attraversò i loro corpi immateriali; li attraversò perché non li aveva visti; perché, pur essendo lì, Keme e Ninti non facevano realmente parte di quel tempo: era il Passato, ed era già successo; niente avrebbe potuto cambiarlo, tanto meno le loro impercettibili presenze. «Quanto tempo sei stata via, Ninti?» Quella di Keme era un'ammonizione, non una domanda, e lei abbassò la testa aggrottata. «Più o meno... quattro anni.» «Quattro anni?! Quattro anni? Nel presente sono passati quattro anni, ma per te quanti sono stati?» Finalmente, Ninti lo guardò negli occhi, a lungo, un istante intero. Ma poi s'immedesimò in uno dei tanti passanti, assumendo le sue sembianze, una donna con scialle bianco e gonna nera, e se ne andò arretrando verso il Passato, svanendo alla vista di Keme.
Piccola Shangai chiusa, Pagoda: ufficio Baronessa.
«Il confronto vocale ha dato esito positivo, Fara: l'uomo che hanno arrestato è uno degli assassini di Suad.» Khrstin era a braccia conserte, una gamba molleggiava sul tacco 12. «Lo preleveremo tra pochi minuti. Guiderò io stessa le squadre Latro.» La Baronessa Fara le dava la schiena, immobile, immersa nella penombra. Fissa sui Saltimbanchi nella notte di Chagall, era afflosciata su una poltrona del suo ufficio, all'ultimo piano della Pagoda, il quartier generale del Gruppo Latro.Cinia, la multinazionale che governava il mondo intero. «Suad è la figlia che ho sempre voluto avere.» La Baronessa respirava a bocca aperta, ogni respiro uno strattone, ogni strattone una tristezza diversa e affannata. «A differenza mia, lei era... una brava persona, un'ottima madre.» «Sentiamo tutti la sua mancanza.» Ma Khrstin alzò le bionde sopracciglia, sapendo che il proprio dissenso non sarebbe stato visto. «Non avrei mai dovuto coinvolgerla negli affari del Gruppo. La mia bambina... l'hanno uccisa solo per colpa mia. E se fallirò, la perderò per sempre.» «Non è colpa tua, lo sai bene.» Khrstin allungò lo sguardo verso il quadro, storcendo il naso sottile. Non le era mai piaciuto: i saltimbanchi, ma anche la notte che li circondava, riuscivano a guardare contemporaneamente sia lei sia la Baronessa, a guardare tutto. «Ascoltami, la riporteremo a casa, e tutto tornerà come prima.» «No. Niente dovrà tornare come prima.» Ogni parola era un male al petto, come se la Baronessa respirasse con il cuore. «Ho preparato per lei una nuova identità, una nuova vita. Per lei e per le mie due nipotine. Ce ne andremo via, per sempre. Sarei molto felice se... se venissi con noi, Khrstin. Verrai con noi?» Quest'ultima, spiazzata, spalancò gli occhi verdi e morse un sorriso, sperando di trovare subito le parole giuste per rifiutare educatamente quella delirante offerta, ma per sua fortuna la Baronessa riprese a parlare. «Ti capisco. Quando ero giovane, anche io ero ambiziosa. Sono diventata una delle donne più potenti del mondo, eppure, quando ho perso Suad...» S'interruppe, perché stavolta il nome di sua figlia fu un colpo di singhiozzo che le spezzò il collo, e si strinse lo chignon spettinato. «Quando l'ho persa, ho perso tutto, anche me stessa. E quando ci si perde, ci si perde per sempre: nessuno riesce più a trovarti, anche se... a due passi da te. Non fare i miei errori, ragazza mia. Cercati un bel ragazzo, scappa con lui, fallo subito, oggi.» «Magari lo farò, Fara. Ma non oggi.» Khrstin roteò occhi e testa, infastidita da quei consigli e dal dover parlare a una schiena. «Ti ho fatto una promessa e voglio mantenerla.» «Anche io ti ho fatto una promessa: il mio posto, la direzione della Pagoda. La manterrò, ma pensaci bene. È diventato un posto terribile. Anche se forse... lo è sempre stato.»
ORE 01:00. Piccola Shangai esterna, IX Anello: ospedale.
Fuori dall'ospedale, c'era completo silenzio. Nidi di immondizia infestavano le cime degli alberi. Lontano, fulmini di ruggine frustavano la notte. Silvestro, che in realtà si chiamava Kurz ed era soprannominato il Gatto, era nascosto tra gli alberi da più di venti minuti. Dopo la telefonata con Penny e Gottlob, aveva abbandonato subito il matrimonio senza neanche salutare gli sposi. Vestiva abiti eleganti ed era alticcio. Gli occhi azzurri luccicavano di grappa, l'alito puzzava di vino bianco e la musica della festa gli risuonava ancora nelle orecchie. Come non si vide più nessuno, si grattò la lunga cicatrice in mezzo alla testa rasata, sucò l'ultima nota di sigaretta e si diresse guardingo verso una porta secondaria dell'ospedale. La forzò ed entrò. Uscì dopo neanche cinque minuti con un sacco mortuario sulle spalle, che mise sui sedili posteriori del suo pickup. Era pronto ad andarsene, ma qualcuno dietro di lui lo spaventò a morte. «Se non vuoi ritrovarti con il culo accecato, guardati sempre alle spalle.» Era Vascill, con il suo tic agli occhi, chiusi e aperti a più riprese. «Quel vecchio coglione me lo ripeteva di continuo. E tu... sei più coglione di lui.» Kurz roteò su un piede, come un pistolero, mentre afferrava la pistola sotto l'ascella, ma vedendosene una puntata addosso lasciò subito perdere e alzò le braccia. «Che vuoi? Chi sei?» «Sono un amico.» Vascill ghignò e si strinse la tuta blu da meccanico all'altezza dei genitali. «Un amico di Gottlob. Non ti agitare, o ti faccio un altro sguercio su quel brutto cocomero che ti ritrovi.» «Hai detto Gottlob?» Pure Kurz ghignò, per nulla intimorito dalla pistola. «Non conosco nessuno con questo schifo di nome. Devi avermi preso per un altro.» «Certo, come no. Abbassa quelle mani di merda e mettile dietro la schiena. Inginocchiati.» Kurz eseguì gli ordini, e Vascill gli legò le mani con delle fascette di plastica. Poi fece per prendergli la pistola, quando d'un tratto si videro quattro uomini, con armi e passamontagna, che si dirigevano allo stesso ingresso da cui era entrato e uscito Kurz. Due entrarono, due restarono fuori. Più distante, nei pressi di un altro ingresso, se ne videro altri quattro. Allarmato, ma con cautela, Vascill afferrò subito Kurz per la collottola e la cinta, e lo scaraventò sui sedili posteriori del pickup. «Sono le Foche» affermò Kurz preoccupato. «No, so riconoscerli i miei. Devono essere uomini di Gottlob» obiettò Vascill sottovoce mentre richiudeva lentamente la portiera. Poi, nascosto dal pickup, si incurvò e abbassò la testa all'altezza del finestrino. «Ora tappati quella bocca e non muovere un muscolo, figlio di puttana.» Sarebbe stato sufficiente un solo movimento per segnalare i loro contorni. Immobili, invece, sarebbero rimasti un pezzo nero della notte, lontani una cinquantina di metri. Uno di quelli però si volse verso di loro e Vascill trasalì. Pareva che gli occhi dietro il passamontagna guardassero esattamente i suoi. Ma ecco che, quando imbracciò il fucile per guardare attraverso il visore notturno, l'uomo stramazzò a terra. Subito, una pioggia orizzontale di proiettili bollenti venne sparata dal buio, seguita da una decina di Latro, nella loro mimetica nera e porpora, ed esplose la sparatoria. Vascill non perse tempo, salì sul pickup e scappò senza indugi. Dopo un paio di chilometri, accostò per accertarsi di non essere stato seguito. La testa del cadavere rimbalzò fuori dalla sacca da morto, come per dare un bacio a Kurz: era Penny, quasi del tutto corrosa; di lei, solo qualche brandello di carne aggrappato a ciò che restava dello scheletro. Mentre Kurz si ritraeva disgustato, Vascill si girò verso di lui e lo addormentò con una scarica di pugni in faccia, dopo avergli ficcato in bocca un fazzoletto imbevuto di ketamina. Poi, con il cellulare, manomise il microbiochip di Kurz, in modo da fargli trasmettere, da quel momento in poi, una falsa posizione. Infine lo perquisì e, con sua grande sorpresa, gli trovò addosso un'AntiGomma: un dischetto bianco di plasma dal diametro di due centimetri. Se la mise sul polso, a contatto con la pelle, la premette e ne fuoriuscirono dei filamenti plastici che si chiusero indurendosi a mo' di bracciale: funzionava, era autentica. «Grazie del regalo, figlio di puttana.» Se la tolse e la mise in tasca. Accese la radio e ripartì. ... È opera di nostro Signore, disse grave il Predicatore. Una volta, se dimenticavo una cosa, la dimenticavo solo io. Oggi, invece, quando dimentico una cosa a causa dell'Oblio, la dimentichiamo tutti. E non c'è modo di ricordarla. Memosquadre di sorveglianza, telecamere esistenziali, memorie esterne, ipnotisti e altri ciarlatani da strapazzo non servono assolutamente a niente: l'Oblio... non lo si può ricordare. Alla sua pausa, solenne più delle parole, il canto triste delle prefiche aumentò di volume. Vascill invece sussultò, perché un mucchio di spazzatura volante gli era passato sopra la testa, come un drago con tanto di squame di plastica che scricchiolavano al vento, e si tastò i genitali, come davanti a un gatto nero. Ma non disperate, è opera di nostro Signore. Delle migliaia di persone che vengono colpite dall'Oblio ogni giorno, la maggior parte non se ne accorge, e sono quelle sulla retta via. Quelle che invece se ne accorgono si ostinano, e cercano di ricordare qualcosa che non potranno ricordare mai, che nessun altro potrà ricordare mai. Voi non fate come loro, gli Sguardi-Ombra, gli infetti! Loro fanno tutti la stessa fine: si perdono nelle MemoVill, con una nuvola nera nella faccia, attorno al fuoco di un bidone, e diventano dei bugiardi cronici: nella speranza inconscia di azzeccare il proprio passato, finiscono inevitabilmente per inventarselo e per raccontarsi storie sempre diverse. Se non torneranno sulla retta via, saranno dimenticati anche da nostro Signore. Il lamento delle prefiche non coprì la tosse insistente del predicatore. In verità vi dico, l'Oblio non è che un segno! Un segno che il Signore manda da dieci anni, dalla Grande Confusione. Un segno, come lo sono anche le Piccole Confusioni che oggi colpiscono gli infedeli. Ma il tempo sta per finire. Siamo prossimi al giorno che sconvolgerà ogni cosa. Presto arriverà l'ultima, interminabile Confusione!
Il Passato: TUTTO.
In un lampo, Ninti comparve accanto a Penny, ma era come se fosse lì da sempre, proprio come nasce ogni sogno, sempre dopo. Di profilo, le lambiva il collo quasi baciandola, respirando tra i suoi capelli neri, quelli sul lato destro, dove erano lunghi. Assorta, Penny accarezzava un maialino avvolto in fasce per neonati che dormiva beato fra le sue braccia. Una spirale di balsami e fiori di loto vorticava abbracciandola, come fusa e feste che l'irrealtà elargiva per consolarla. «Mi dispiace, Penny.» «In realtà sono morta quando l'ho dimenticata: la mia bambina... non so più che volto abbia. Di lei, ricordo solo questo, di averla dimenticata. Se solo fossi stata più veloce...» Lo Sguardo-Ombra nel volto di Penny si intensificò e divenne un passamontagna di tenebre e malinconie. Ninti non riusciva a trovare parole per confortarla, ma forse non ce n'erano. «Nelle MemoVill ho spesso desiderato di dimenticare tutto... anche di averla dimenticata. Soprattutto di averla dimenticata.» Pianse lacrime rosse, come i suoi occhi; lacrime che si erano graffiate ai lati degli occhi e che graffiarono anche una guancia di Ninti, per gocciolare poi sul piccolo angioletto rosa. «Ma ora niente ha più importanza. Quando lei tornerà, e la stringerò di nuovo fra le mie braccia, potrò finalmente sbarazzarmi di questa inutile memoria, dove lei è sempre assente. Potrò finalmente sbarazzarmi di questo stupido mondo.» Prese a danzare e si lanciò in un lentissimo axel. Quella confusione onirica roteò con lei, fra brezze divine e fiori di vino. Il maialino volò via. «Dimmi, Ninti: la mia bambina... se non esiste più...» il suo respiro balbettò «Se lei non è mai esistita, dov'è adesso?» «Non è in nessun posto.» «Ma se non è in nessun posto, allora... allora come farà a ritornare?» Ninti sospirò commossa. «Avete fallito: la tua bambina non tornerà.» Penny si fermò a metà di una piroetta e il suo viso cadde all'ingiù, come obbligato a guardare attraverso gli spazi obliqui di una persiana: impossibile guardare dritto, impossibile guardarla negli occhi. Anche quel sogno cadde all'ingiù, come il fotogramma vuoto di una grande pellicola, e non restarono che le due donne. «Avrebbe dovuto essere un mondo nuovo. Ci hai mai sperato davvero, Ninti?» «Ho sperato che Saffo... rimanesse con me.» I suoi occhi sbatterono incerti, non insieme. «E invece se ne andrà via per sempre.» «Perché vieni nei miei sogni se sai che tanto, da sveglia, non potrò ricordarti?» «Perché ho anche sperato che tu riabbracciassi la tua bambina. Adesso, invece... solo per dirti addio.» «Ma se sono morta come posso parlarti?» «È un sogno del Passato, non del presente, come tutte le altre volte. Forse la morte è soltanto un altro sogno, Penny.» «Oppure, forse... solo un altro modo di dimenticare.»
Gemonìe.
Il Temporale di uomini si era allontanato, e 123 poté così uscire dal suo nascondiglio roccioso. Intorno a lui c'erano busti spezzati, teste rotte, braccia e gambe staccate, pianti e grida d'aiuto: un cimitero vivente esteso a perdita d'occhio, fatto di migliaia di ragazzi fulvi, identici fra loro. Per allontanarsi da lì, fu costretto a camminarvici sopra, e uno sciame di mani si protese subito verso di lui. Ma non c'era modo di aiutarli, né di consolare così tanta disperazione. Non c'era traccia della sua compagnia di uomini identici, tranne due, che si stavano avvicinando, anche loro con andatura rassegnata. A differenza di 123, che vestiva una mimetica grigia, i due indossavano una tuta da lavoro blu, quella di un contadino, e un giubbotto di canapa verde. Per il resto, erano uguali in tutto; le armi erano le stesse, le avevano trovate nello stesso posto. Ebbero soltanto il tempo di guardarsi negli occhi, che dovettero subito scappare via: rombavano auto e moto, segno che una banda di cacciatori, forse cannibali, stava sopraggiungendo. Seminata la minaccia, continuarono comunque a correre, fra le tenebre totali, e si arrestarono solo quando s'imbatterono in una distesa immensa di macerie e di oggetti di ogni sorta, tra cui ossa rotte e carni strappate, come se un terremoto avesse fatto crollare intere città l'una sull'altra. L'unica luce che c'era era quella prodotta da innumerabili lampade solari e semafori disseminati tutt'intorno a loro. «Io sono 123. Voi come vi chiamate?» «Io mi chiamo 7007.» «Io... chiamami come ti pare. In tre, non sarà più un problema riconoscersi.» «Vi è già capitato di perdere il nostro gruppo e poi di ritrovarlo?» 123 li guardò speranzoso, ma i due negarono. «Lo sapete che... Lo sapete che siamo fottuti allora, vero?» «Non dovremmo tornare indietro e cercarli?» propose 7007. «No, io mi fermo qui.» Rassegnato, 123 mise in piedi una poltrona sfasciata e si sedette. «Spero tanto che un palazzo mi caschi sulla testa.» «Bravo. Davvero un'ottima idea» ironizzò 7007. «Hai dimenticato che qui non si può morire?» «E tu hai dimenticato che qui non si può vivere?» «Sì, come tutti quelli che sono caduti qua sotto. Ma fatti pure schiacciare da un palazzo, se è quello che vuoi: resterai comunque cosciente in un corpo rotto. Diglielo anche tu... Cometipare.» Ma Cometipare non disse niente. Dallo spropositato coacervo di cose e frantumi, muscoli e pelli, aveva raccolto una tazzina lercia e la scrutava a due centimetri dal naso: fiutava una reminiscenza tanto familiare quanto aliena, perché apparteneva al focolare domestico, al calduccio del risveglio, qualcosa che lì sotto non era e non sarebbe mai esistito. «Almeno non dovrei più preoccuparmi di scappare da... di scappare sempre» spiegò a bassa rabbia 123. «Oppure potrei fare un bel rogo e buttarmici dentro: se non resta niente di te, forse smetti di essere cosciente.» «Per bruciare le ossa ti ci vogliono almeno mille gradi. Non bastano due legnetti messi in croce. E poi resta la cenere. Saresti cosciente lì, nella cenere.» «E come fai a saperlo, eh?» «È una logica deduzione.» 7007 guardò Cometipare, sperando che gli desse una mano a distogliere 123 dal suo delirante intento. Cometipare, però, continuò a non spiccicare parola. Gli occhi semichiusi dalla nostalgia, stava adesso accarezzando un cuscino ingiallito. «Sarà anche logico, ma non ne hai la certezza.» «Sei libero di rischiartela, 123, ma se non l'hai fatto fino a ora, vuol dire che, come noi, non ne hai il coraggio. È una pessima idea, lo sai benissimo.» D'un tratto, 123 notò un falò a ridosso di una montagna di Buio. «Guardate.» «Davvero ti vorresti arrostire, diamine?» chiese 7007. Cometipare invece neanche si volse. «No, non voglio arrostirmi. Almeno... non per il momento. C'è un uomo laggiù, vicino al fuoco.» «Sarà sicuramente una trappola dei Bambino. Andiamocene subito!» «I Bambino non si avvicinano così tanto al Buio. Vado a vedere.» «Se non sono i Bambino, allora saranno dei cannibali che non aspettano altro che qualche ingenuo come te. Hai sbattuto la testa? Che diavolo ti prende, 123?» «Solo curiosità.» «Curiosità?!» «Hai altro da fare, per caso?» ruggì 123. «Devi andare a cena fuori, stasera? Ho voglia di parlare con qualcuno... che abbia una faccia diversa dalla mia.» 123 si incamminò, inciampò un paio di volte nei rottami e raggiunse l'uomo, un vecchio seduto su un divano scassato. Emaciato e tutto impolverato, la fronte era striata da profonde pieghe sozze. Gli occhi non erano che un solco d'ombra, sporco anch'esso. Era un volto in cui parevano esserci solo naso e mento, che sporgevano l'uno verso l'altro come se non avesse bocca. Insieme al vecchio, 123 si mise a fissare il Buio: una montagna smisurata di fumo nerissimo, denso e sinuoso, che respirava e ringhiava in silenzio. Gli altri due lo avevano seguito circospetti, ma erano rimasti qualche metro indietro, in allerta, pronti a scappare da un'eventuale imboscata. «Che ci fai qui, vecchio?» chiese 123, gli occhi rapiti dal Buio. «Sei troppo visibile vicino a questo fuoco.» «Nessuno mangia la carne di un vecchio.» La voce era uscita come esce il primo caffè dalla moca; non parlava da tanto tempo. «Ma sei troppo vicino al Buio, potrebbe mangiarti lui.» «Puoi fare ancora dieci passi prima di essere preso.» «Dieci passi?!» «Quelli che ha fatto l'uomo che era con me.» Stregati, i due continuavano a fissare il Buio: un mare in tempesta, ma in verticale e tenebroso, in attesa che qualcuno si avvicinasse troppo. «Aspetti che si accenda la luce nel Buio, non è vero? È solo una leggenda, vecchio.» «No. Io l'ho attraversata e sono tornato sulla Terra.» «Se sei tornato, allora che ci fai di nuovo qui?» «Sono... sono ricaduto.» «Mi dispiace insistere, ma non c'è uscita da questo maledetto posto.» «Sì, invece!» «È già un miracolo rimanere integri una volta. E tu saresti caduto due volte?» «Sono atterrato su un mucchio di materassi.» «Se è vero che sei ricaduto, perché riprovare?» «Per poter morire.» 123 annuì, era una risposta ovvia. Sebbene non gli credesse, condivideva però la sua speranza, la condividevano tutti lì sotto, e fece tre passi verso il Buio. «Eravamo tantissimi. Tutti ad aspettare la luce.» Il vecchio rilassò la fronte, e i riflessi del falò fecero tremare occhi lucidi e sognanti. «Quand'ecco che si accese. Era un muro luminosissimo, a cui ne seguì un altro, e poi un altro ancora, fino a comporre una muraglia che si allungava nel Buio. Demmo fuoco alle torce e ci inoltrammo lì dentro. Ma la luce era lontana e le torce si spensero subito, così... ci perdemmo tutti nell'oscurità: quando entri là dentro, non vedi più niente e devi chiudere gli occhi... per non essere visto... per non essere preso.» 123 fece altri tre passi, gli occhi sbattenti, accecati dal Buio, il quale tentò di afferrarlo allungando grossi artigli di pece fluida, ma nemmeno lo sfiorò. «Ho strisciato per tanto tempo. Lentamente» continuò il vecchio, avvinghiandosi al cuscino del divano. «Quante ombre nelle ombre! Ognuna di esse in attesa di un mio passo falso: un movimento brusco, o l'esile luccichio degli occhi aperti. Ma poi ecco che si accese di nuovo la luce, proprio davanti a me, e l'attraversai. Mi ritrovai subito sulla Terra, insieme ad altri pochi fortunati. Ma dopo poche ore... caddi di nuovo qui. Da allora, la luce non s'è più vista. La Bestia non ha mai urlato.» Trasognato, 123 fece altri tre passi, nove in tutto: ancora uno e si sarebbe perso anche lui nel Buio; Buio che, di fronte a lui, ora si agitava bramoso, come un mostro fatto tutto di capelli che cercavano di acciuffarlo. 7007 se ne accorse. «Fermati, pazzo! Torna indietro!» Ancora imbambolato, 123 non si accorse dei richiami di 7007. «Che cosa c'è nel Buio, vecchio?» «Solo Buio. Una notte eterna.» «È tanto peggio che qui fuori?» Il vecchio abbassò il capo, forse non ci aveva mai pensato. «L'unica cosa che so è che se ci entri... non ne esci più.» «Torna indietro!» ribadì 7007 urlando a bassa voce. Ma 123 sembrava non sentirlo e continuò a parlare con il vecchio, come un medium con un fantasma. «Però le ombre non ti hanno fatto del male, o sbaglio?» «Perché non mi hanno trovato.» «Sei sicuro che sia per questo? Se hai visto la luce quando eri là dentro, vuol dire che gli occhi li hai aperti.» Di nuovo, il vecchio abbassò il capo, ma questa volta non ebbe modo di rispondere, perché si sentì il rumore funesto di un Temporale che era esploso non molto distante da loro. I nostri si volsero, tranne 123 e il vecchio: cadevano grossi pietroni sferici, che devastavano qualsiasi cosa incontrassero, e venivano nella loro direzione, a migliaia e migliaia. Era possibile vederli perché, nonostante l'oscurità onnipresente, il cielo si apriva e si chiudeva in tante bocche di luce, le brecce da cui cascavano. «Maledizione! Ancora quelle maledette Las Bolas» urlò 7007. Poi si rivolse a 123. «O entri lì dentro, o torni subito indietro. Dobbiamo andarcene!» Ma 123 non fece una mossa, se non l'inizio di un passetto. Quando i pietroni incontrarono una distesa abnorme di auto scassate, con il baccano assordante accrebbe anche la paura. A quel punto, dopo aver guardato il Buio con un gotto di saliva, Cometipare si fece coraggio, si avvicinò a 123 e lo tirò per la collottola. Quindi corsero tutti via, tranne il vecchio, che continuò a fissare il Buio.
Piccola Shangai esterna, IX Anello: centrale di polizia.
È l'ora della rubrica ‘Fatto o Finto?', annunciò la conduttrice radiofonica. “Sono un miracolato”. Queste le parole di un trentenne invalido civile. Quattro anni fa, a detta sua, avrebbe perso la gamba destra dopo essere stato investito da un tram. Ma ieri mattina, sempre a detta sua, si sarebbe risvegliato con entrambe le gambe. Indagato per truffa allo stato, l'uomo non ha però perso il senso dell'umorismo e ha dichiarato: “Peccato, mi ero appena abituato a usare la terza gamba. Adesso dovrò comprarmi sempre tre scarpe”. Esplosero le risate registrate, seguite da quelle dell'anziano sceriffo e dal giovane vice. Il marito si Sposta di nove metri mentre fa l'amore con la moglie. Lei non se ne accorge minimamente, anzi, dichiara: “La migliore scopata di tutta la mia vita”. Il marito, invece, dice di essersene accorto solo perché il termosifone che si stava ingroppando era più caldo della moglie. Altre risate, sia finte sia dei due poliziotti. Una signora si è fatta suora dopo che le sono ricomparse quattro dita perse in gioventù. Adesso sarà velocissima nello sgranare il rosario. Poi c'è Lessie, tornato a casa dopo tre anni dalla sua sepoltura: nomen omen? Ancora risate, ma poi lo sceriffo spense la radio. «Torniamo da quel matto drogato della pioggia.» Gambe abbracciate e mento sulle ginocchia, Gottlob dondolava maniaco in punta di piedi sul pavimento, scalzo e tremante, e farfugliava a fior di labbra. Testa e collo erano bendati a mo' di velo islamico, a causa delle ferite riportate dall'autoesplosione dell'uomo che aveva tentato di uccidere lui e Penny, quello a bordo del furgoncino bianco. I jeans e il maglione nero puzzavano di whisky. Quando lo sceriffo e il vice entrarono nella cella, Gottlob sembrò non accorgersene. Anzi, accentuò il suo ciondolio, tra risolini e piagnucolii spenzolanti, e continuò a parlare da solo, sottovoce, scavato da poetica demenza. «Scommetto che ti sei bruciato la faccia mentre eri strafatto. E non ti sei accorto che quella che stavi bevendo era pioggia infiammabile.» Lo sceriffo si puliva i denti con uno stecchino. Nell'altra mano aveva invece un bicchiere. «Ma la pioggia che ti ho portato io non lo è, ed è appena caduta. È di un bel blu acceso, proprio come i tuoi occhi.» Gottlob si zittì, si leccò le labbra e fece per afferrare il bicchiere, ma lo sceriffo tirò indietro il braccio, e lui finì palmi a terra. «No, prima ti devi decidere a parlare. Dopo te la faccio bere tutta quanta, così ti passa l'astinenza. Dimmi innanzitutto perché la tua macchina è bucata come un cazzo di formaggio.» Come un neonato, Gottlob gattonò fino alla parete, attratto da una scritta incisa nel muro: qualcuno, che non si era firmato, prometteva amore eterno a qualcuno che non era stato nominato. Poi, dopo essersi perso in quell'amorevole cesellatura, si sedette su una delle lerce chiazze marroni del materasso, e congiunse le mani come un uomo in preghiera; pareva avesse cambiato personalità. «Ho atteso che arrivasse un giorno, Padre. Ho atteso quel giorno per tanto tempo.» La bocca di Gottlob era impastata; la gola, piena di catarro. «Un giorno che però... si è presentato nelle vesti di questo triste oggi.» «Questo è fuori come un balcone. Mi ha preso per un dannato prete.» Lo sceriffo guardò divertito il suo vice, poi sputò lo stuzzicadenti sporco di saliva e sangue. «Ehi, guardami, figliolo. Questa non è una chiesa e tu non sei un chierichetto. Devi solo dirmi quello che è successo. Così, io finisco il mio bel rapporto, tu ti bevi la tua bella pioggia e tutti noi ce ne andiamo a fare un bel pisolino.» Gottlob non parlò né lo guardò. Lo sceriffo allora s'innervosì e smise di interpretare la parte del poliziotto gentile. «Mi dispiace per la tua troia, lei è morta. Morta, hai capito? Come è morto quello che ti voleva fare la festa. Cazzo, questa è proprio una storia di fuori di testa! Perché quel tizio si è fatto esplodere? C'erano pezzi del suo corpo sparsi dappertutto, dannazione.» Gottlob continuava a non rispondere, così si rivolse al suo vice. «Ehi, senti qua. Mi hanno detto che la bionda che lavora al distretto sud ha trovato il cazzo del tizio esploso e se l'è portato a casa.» I due poliziotti presero a ridere di gusto, quando delle bottigliette di vetro caddero improvvisamente sul tetto della centrale, facendo sussultare entrambi. «Maledetta immondizia volante, e maledetto quel rotto in culo del batterio mangia rifiuti!» imprecò lo sceriffo. «Lui, chi l'ha inventato e soprattutto chi l'ha manomesso.» «Pensa che mia moglie ha messo fuori dalla finestra un paio di mutande, e quei batteracci se le sono portate via. Ora ci sono le mie mutande che girano per tutto il quartiere. Ahahah.» «Ahahah. Dici cazzate.» «Prova a dormire una nottata fuori, capo, e inizierai a volare pure tu. Ahahah.» «Fecero un esperimento, Padre.» Lenta e rotta, quella di Gottlob era una voce da psicofarmaci; una voce che fissava il vuoto, come i suoi occhi. «Lo fecero su tre topolini nati dalla stessa madre. Li misero in gabbie diverse. Il primo crebbe con la madre. Il secondo, con un peluche. Il terzo, invece... crebbe completamente da solo.» «Vuoi uscire fuori da questa gabbia? Prima parli e prima ti faccio uscire» recitò premuroso lo sceriffo. «Oppure vuoi che uso il manganello? Anzi, no, magari preferisci il cazzo di quel tizio. Ahahah.» «Il primo topolino divenne forte e robusto. Il secondo crebbe poco, debole e triste. Il terzo, invece, sempre solo, senza una madre o un amico, senza... una compagna...» Gottlob si arrestò e guardò i due poliziotti come se potesse vedere attraverso e oltre loro; non li vedeva, vedeva solo sbarre. In parte era incosciente e in parte lo era ancora di più. «Il terzo topolino?» domandò lo sceriffo, ma poi si vergognò di essersi fatto incuriosire e si alterò. «Cosa me ne fotte di quei topi di merda! Dimmi chi cazzo siete veramente. Tu, la troia morta e l'altro suonato esploso. Perché avevate una barca di soldi?» Gottlob non cambiò atteggiamento, così il vice si sfilò la cinghia, mentre lo sceriffo si faceva scrocchiare le dita. «Non costringerci a...» D'un tratto, una forte esplosione fece tremare l'intera stazione di polizia. Caddero vetri rotti, saettarono spari e grida, e il profumo acre dei lacrimogeni si sparse ovunque. I poliziotti corsero subito fuori dalla cella, senza curarsi di chiuderla. Gottlob, invece, ci mise qualche istante per capire che quel boato non proveniva dalla sua testa: erano le Foche Verdi, pensò, venute a finire il lavoro iniziato alla stazione di servizio dall'uomo con il furgoncino bianco. Quindi uscì anche lui dalla cella e imboccò il corridoio desolato, coprendosi bocca e naso con il maglione. In uno degli uffici trovò lo zaino di Penny, ma non la borsa con i soldi. Poi percorse tutto il corridoio, alla fine del quale trovò lo sceriffo, ferito alla pancia. «Aiutami» supplicò quest'ultimo. «Aiutarti?!» Gottlob gli prese prima la pistola, poi le scarpe, che indossò subito. «Nessuno ha aiutato il terzo topolino. Ma lui... lui ha rotto la gabbia e... libererà tutto il mondo.» I tafferugli scemarono in un sinistro silenzio, interrotto solo dallo sbavare delle radioline, e passi circospetti venivano verso di lui, frantumando cocci di vetro. Allora ritornò indietro, sparò ai cardini di un finestrone, lo prese a calci e si ricavò un'uscita all'esterno. Però, una volta fuori, fu subito bersaglio dei laser rossi dei fucili dei Latro, i soldati del Gruppo. «Assassino di Suad individuato all'esterno. Ripeto: assassino individuato. Terminate le ricerche» comunicò Khrstin alla squadra Latro all'interno della centrale di polizia. Vestiva una mimetica nera e grigia, non nera e porpora come l'uniforme dei Latro, ed era così attillata che ricalcava ogni curva del suo fascinoso corpo scultoreo. Invece di anfibi, calzava alti stivali neri con tacco 12. I biondi capelli erano legati in una lunga coda di cavallo. Gli occhiali quadrati erano allacciati dietro la testa con una fascia elastica. «Avanti, venga. Butti via la pistola.» Khrstin si era rivolta a Gottlob, ma come allungò una mano verso di lui, un proiettile le ferì una spalla, e dovette ritirarsi dietro le auto blindate. «Cecchino! Cecchino!» Anche Gottlob tentò di trovare riparo, ma un proiettile gli staccò di netto l'avambraccio sinistro, mentre un altro lo colpì alla schiena schiacciandolo a terra. «Sono almeno tre» disse via radio il LatroCapo, accanto a Khrstin. Poi attivò un ologramma dell'intero quartiere, stimò la posizione dei cecchini e la comunicò alla squadra aerea. «Eliminateli.» Mentre le auto blindate venivano martellate di proiettili, Khrstin lanciò vicino a Gottlob un'olochiavetta, che fece partire il video olografico a grandezza naturale della canzone Il mondo di Jimmy Fontana. Ciò infastidì i cecchini, che ora non avevano più un bersaglio netto, ma confuso tra le immagini tridimensionali in movimento. «Dobbiamo immediatamente recuperare quell'uomo!» disse Khrstin al LatroCapo, poi ordinò via radio che le venisse portato un kit di Cancellazione. Simultaneamente, un Latro contattò il LatroCapo, il quale lo mise in vivavoce. «Abbiamo due fazioni, Capo: una spara all'assassino di Suad, l'altra invece spara sia a noi sia a quella che spara all'assassino di Suad.» «I primi sono le Foche Verdi» spiegò il LatroCapo guardando Khrstin. «Gli altri devono essere mercenari al soldo dell'assassino di Suad» concluse Khrstin. Gottlob venne colpito di nuovo alla schiena: stavano usando proiettili Dorian, come avevano fatto con Penny, e a breve anche il suo corpo si sarebbe quasi del tutto corroso. Ciononostante, con sforzo disumano, si mise carponi su tre appoggi e pensò a Penny: l'aveva uccisa per non farla morire, e ora invece moriva anche lui. Le sue lacrime caddero giù troppo veloci, come acqua ossigenata, ma poi un proiettile lo risbatté a terra, morto. Nel frattempo, Khrstin aveva ricevuto il kit di Cancellazione e aveva ordinato ai Latro di formare una testuggine con gli scudi antiguerriglia. «Recuperiamo quell'uomo, ragazzi. Pronti? Ora!» Mentre la testuggine avanzava, con lei al centro, telefonò al GranVisore. «Xiang, abbiamo i secondi contati. Devi far partire subito una Cancellazione: almeno l'ultima mezz'ora. A breve, l'assassino di Suad sarà irrecuperabile.» «Non mi risulta nessuna Gomma attiva» rispose svogliato il GranVisore. «Non ho alcun segnale.» «Il segnale arriverà tra un attimo. Stai pronto.» Tre proiettili esplosivi mancarono Gottlob, mentre un quarto gli fece saltare metà gamba. Anche la testuggine dei Latro veniva bersagliata da piogge di proiettili, ma procedeva compatta, accompagnata da uno stormo di droni che fungeva da ulteriore protezione. Si immerse quindi nel video musicale, virtuale e a tutto tondo, lanciato prima da Khrstin, la quale mise Gottlob al riparo dietro gli scudi. Due Latro vennero feriti, uno morì. Dall'astuccio del kit di Cancellazione, Khrstin prese il dischetto nero di plasma e lo mise al polso di Gottlob. Poi lo premette e ne fuoriuscirono come delle radici, che si chiusero a mo' di orologio. «Gomma attivata, Xiang!» Tutto intorno, il triplice scontro continuava senza interruzione: cecchini contro cecchini, droni contro droni, squadre aeree contro squadre terrestri: i proiettili esplodevano da tutte le direzioni, vetri e calcinacci saltavano via dagli edifici crivellati di colpi, l'aria rovente puzzava di metallo, notte e silenzio erano a brandelli: le Foche Verdi sparavano a Gottlob, gli uomini di Gottlob sparavano alle Foche Verdi e ai Latro, i Latro rispondevano al fuoco. Sbudellati dai proiettili, i sacchetti volanti di spazzatura rilasciavano rifiuti di ogni sorta. E quando iniziò a cadere pioggia luminescente, fu un cielo di lucciole cadenti. Khrstin teneva fra le mani un'AntiGomma, un dischetto come l'altro, ma bianco; la teneva vicino al gomito sanguinante di Gottlob, là dove avrebbe dovuto esserci l'avambraccio sinistro. «Gomma attivata, Xiang, ripeto. Che aspetti, maledizione? Lo hanno colpito con proiettili Dorian. Tra poco, di quest'uomo non mi resteranno che le ossa. Muoviti o diventerà Incancellabile. Muoviti! O anche noi faremo la stessa fine.» Finalmente, la Gomma al polso di Gottlob lampeggiò, segno che la Cancellazione richiesta da Khrstin era partita, e dopo neanche un istante, lui tornò in vita, senza ferite e con gli arti al proprio posto. L'AntiGomma si era allacciata all'avambraccio sinistro appena ricomparso. «Torniamo dietro i blindati!» ordinò Khrstin, e tirò su Gottlob, affettando un sorriso. Si misero a correre. «Il tuo nome è?» Ignorata, fece per dirgli il proprio nome, ma un proiettile esplosivo la colpì in pieno sbattendola contro uno dei blindati: i capelli sembravano stoppa che friggeva, i tacchi 12 erano saltati via insieme alle gambe, il suo bellissimo corpo aveva perso ogni tonicità. Era morta. Assieme ai Latro della testuggine, anche Gottlob era stato sbalzato via dall'onda d'urto, ma senza ripercussioni. Così, imbrattato del sangue di Khrstin, si rimise subito in piedi e fuggì senza esitazione, mentre lo scontro a fuoco continuava dietro di lui.
Piccola Shangai esterna, VII Anello: clinica IlariaAlpi.
Vascill aveva guidato fino all'IlariaAlpi, una clinica che il Gruppo aveva abbandonato sei anni prima, dopo che un incendio durato quattro giorni l'aveva distrutta quasi del tutto. Era composta da nove padiglioni attaccati l'uno all'altro, blocchi alti sei metri, larghi dieci e lunghi quindici, ed era in stato pietoso, sembrava essere stata colpita da un pesante bombardamento. Crollato, il tetto era stato sostituito da una cupola frastagliata di immondizia, da cui spuntavano delle travi d'acciaio curvate dal calore. A un centinaio di metri, invece, stagliati sullo sfondo di un lontano temporale porpora, arrugginivano i tralicci di una piccola industria elettrica, anch'essa abbandonata. Un tuono spaventò tutta la notte, anche se stesso, e iniziò a piovere anche lì, indaco e lilla. Kurz ne venne risvegliato e si ritrovò legato a una sedia ossidata, tra le pozzanghere e il fango, dietro i padiglioni. Vascill gli era di fronte, a qualche metro, seduto su una cassetta di legno e con una pala in mano. «Perché l'hai messa lì sotto?» «Perché è dove si mettono i morti, figlio di una merdona.» Torvo, Vascill gettò il portafoglio di Kurz nel fango. «Ora spiegami una cosa. Come mai un Tenente del Gruppo Latro.Cinia, che lavora a Piccola Shangai chiusa, addirittura alla Pagoda, si è messo con Gottlob e sta fottendo i propri padroni?» «Mi sto bagnando tutto. Toglimi da qui.» «Se non vuoi diventare un fottuto Teletubbies, ti conviene parlare. Qual è la tua parte in tutta questa storia? E te lo chiedo per l'ultima volta, servo di merda.» «È una lunga storia e forse non capiresti, carrozziere.» Strafottente, Kurz scrutò e derise la sua tuta blu. «Quel tuo tic agli occhi e la forma di quella tua testaccia indicano... Com'è che la chiamano? Ah, sì: deficienza mentale? Ahahah.» Vascill gli si avvicinò e lo prese per un orecchio. «Continua così e questo sbrego che hai in testa te lo continuo fino al culo.» Kurz continuò a ridere e lo imitò sbattendo gli occhi a ripetizione, così Vascill gli ficcò un pugno in piena pancia. «Io mi faccio una barca di soldi» tossì Kurz, e gli sputò vicino ai piedi ghignando. «Tu, piuttosto, cosa ci guadagni? Una tuta da meccanico nuova?» «Io ci guadagno...» Lo sguardo si abbassò, come se cercasse nel fango le parole giuste da dire, ma non trovò niente di meglio di quelle che aveva già, già sudate più di una volta. «Io ci guadagno un dio di meno.» «Un dio di meno è sempre un dio di troppo. Ahahah. Lasciami andare e divido tutti i soldi con te. È un bel gruzzoletto, credimi.» «L'unica cosa che puoi dividere con un Latro è un bel cancro ai coglioni, diceva l'altro merdone. Dimmi che cazzo avete in mente tu e quello schizzato di Gottlob. Cazzo, lui non era così.» «Sto con Gottlob, ok. Mi hai beccato, ragazzo, bravo. Ma non so niente del suo piano. Vai a fanculo.» Vascill s'imbestialì, e questa volta lo prese a pugni fino a farlo cascare al suolo con tutta la sedia. «Non ci credo che non sai un cazzo! Non continuare a prendermi per il culo.» «L'acqua mi arriva quasi alla bocca.» Kurz sputò un urlo. Con la schiena immersa nell'acqua, la sua faccia, prima a pois violacei, divenne subito una maschera di Rorschach, a causa della pioggia. «Tirami su. Non voglio bere questo schifo.» «Se non ti decidi a parlare, ti lascerò lì sotto fin quando non ti si coloreranno anche i denti.» Per un attimo, parve vedersi la Luna, e i due presero a fissarla incantati: era una fortuna impossibile, come un quadrifoglio nell'universo. Infatti la Luna non c'era più, di essa era rimasto solo il suo fantasma, un tondo biancore che percorreva l'antica orbita. «Quando c'era, non gliene fotteva niente a nessuno, nessuno la guardava.» Gli occhi di Vascill sbatterono nostalgici. Anche quelli di Kurz, ma soprattutto per la pioggia. «Adesso, invece, speriamo di trovarla tutte le volte che alziamo gli occhi al...» Kurz s'interruppe, perché tra lui e Vascill si era creato un piccolo mulinello di fango e acqua, da cui emerse un corpo affannato. «Ciò che non ti uccide... ti fa un culo così. E fa tanto male.» Vascill allungò la mandibola e indurì le labbra. «Ciao, Penny.» Kurz invece la salutò sollevando la testa. Lei si guardò attorno spaesata, seduta nella pozza viscosa. Poi strinse la pioggia folta che avvolgeva tutto come veli cinesi e bevve a lingua spalancata. «E smettila di bere quella merda!» urlò Vascill, e le lanciò una bottiglietta d'acqua fra le gambe. |
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