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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Giulia Rocca
Titolo: Ovunque è qui
Genere Narrativa
Lettori 3134 21 20
Ovunque è qui
Lui.

Sono le 18:00 di un caldo pomeriggio di inizio luglio.
Cammino senza meta lungo il viale. Sono inquieto. Ho una strana sensazione alla bocca dello stomaco.
Continuo a buttare l'occhio al mio vecchio orologio da polso, che negli ultimi tempi non è più affidabile; molto spesso, infatti, lo scopro fermo o indietro rispetto all'ora esatta.
Cosa sto aspettando?
Inizio a frugare a vuoto dentro le tasche dei pantaloni, mentre mi addentro nel piccolo parco pubblico della città. Lo attraverso e mi metto a sedere su una vecchia panchina, ancora umida per via delle recenti piogge. Ho scelto questa, tra le tante, per la sua posizione seminascosta dagli alberi, che mi permette di osservare indisturbato tutto ciò che accade attorno.
Adoro osservare. Per me è una forma di meditazione. Osservo e imparo. Ma non solo. Quando i miei occhi sono colmi della miriade di immagini catturate, a quel punto li chiudo, e mi concentro sui rumori e sui suoni che incessantemente riempiono il silenzio di questa città. Mi piace individuarli uno a uno, classificarli, distinguere ogni specie di volatile o di altro animale in base al suo canto o al suo richiamo e, soprattutto, dare un volto alle persone basandomi sul timbro della loro voce.
Sono solo. Lo sono sempre stato. Mi nutro della solitudine di tutta la gente che mi passa accanto, qui nel parco, per fuggire alla mia.
D'improvviso, lo sento. Un rumore di passi ben distinto in mezzo a tutto questo vociare di bambini e ragazzi, tipico dei pomeriggi estivi. Il mio orecchio attento lo individua perfettamente; ho un leggero sussulto, impercettibile: è una donna.
Indossa senz'altro scarpe con il tacco.
Nonostante abbia ancora gli occhi chiusi, nella mia mente la vedo avvicinarsi a passo lento ma deciso.
Intende sedersi su questa panchina? Sembra di no. Si ferma.
Sta cercando qualcosa, forse dentro la borsa.
È nervosa.
Ora la sento parlare al cellulare, pronuncia poche parole che non lasciano molto spazio alla mia fantasia; sempre pronta a imbarcarsi in viaggi infiniti, che mi portano a immaginare e a vivere, anche se solo per pochi istanti, una vita che non mi appartiene.
- Come dici?... Capisco... Ti ho già spiegato mille volte che... D'accordo. Come vuoi. -
Si sposta. Il suo passo ora è svelto, si allontana di corsa fino a diventare impercettibile al mio orecchio. Apro gli occhi.
Non c'è quasi più nessuno, il parco si è svuotato. Di certo non c'è più lei, la sconosciuta alla quale non sono riuscito a dare un volto.
Lascio il parco e comincio a vagare per le strade trafficate della città. È l'ora di punta.
L'immotivata irrequietezza che mi aveva pervaso fino a pochi minuti fa mi sta finalmente abbandonando, per lasciare il posto a una sensazione nuova.
Cosa mi sta accadendo?
Provo a concentrarmi sui colori, sui rumori, sull'ambiente attorno; ma all'improvviso mi sembra di essere diventato cieco e sordo a ogni stimolo. Ho l'impressione di trovarmi all'interno di una bolla in cui il tempo si è fermato e che ogni cosa al di fuori si sia congelata.
Mi fermo nel bel mezzo del marciapiede.
Sento una voce, all'inizio lontana, farsi sempre più spazio dentro di me, fino a urlarmi qualcosa di incomprensibile. Mi parla in una lingua che non conosco.
Il mio battito cardiaco è accelerato, gocce di sudore mi attraversano la schiena. Qualcuno si ferma e mi domanda qualcosa che non riesco a sentire. Altri mi passano accanto senza nemmeno guardarmi.
Penseranno che sono matto. Lo sono?
Forse lo sono sempre stato.
Forse lo sto diventando in questo preciso istante.
Nessuno può sapere quello che mi sta accadendo dentro in questo momento. Nessuno può vedere il mio universo, mentre viene preso e attorcigliato e sballottato in ogni dove da una mano invisibile.
Respiro. Cerco di calmarmi.
Continuo a respirare, profondamente e con regolarità.
Lascio spazio alla voce che mi sale dallo stomaco e che sta cercando di dirmi qualcosa. Non mi appartiene, non è la mia. Non è la mia coscienza che mi sta parlando. Non è nessuna delle voci a me familiari. È una voce femminile. È la donna senza volto che è entrata in maniera così repentina nella mia vita pochi istanti fa e che, in modo del tutto inconsapevole, ha incrociato in quello stesso istante il suo destino con il mio, stravolgendomi per poi svanire all'orizzonte.
Cosa mi sta dicendo? Cosa mi sta chiedendo?
Riprendo il mio cammino senza una meta ben precisa e ora capisco: la sto cercando. Ogni mio passo, per quanto all'apparenza sconclusionato, mi sta muovendo all'interno di questo mondo con il solo scopo di portarmi da lei.
E lei mi starà cercando?
D'un tratto mi accorgo che adesso è buio e c'è silenzio.
Quanto tempo è passato? Minuti? Ore?
Il caos e la frenesia del pomeriggio hanno lasciato il posto alla quiete delle strade vuote e delle luci accese dietro le finestre delle case, come un cielo stellato.
Mi dirigo verso casa, alla periferia della città, accompagnato dal solito senso di tristezza che mi assale ogni volta che mi ricordo che la troverò, come sempre, vuota. Non c'è nessuno ad aspettarmi. Fortuna che qualche gatto del quartiere, randagio come me, di tanto in tanto passa a farmi visita sul davanzale, regalandomi un po' di fusa in cambio di qualche avanzo di cibo.
Spero che quella piccola pestifera dal manto tricolore voglia farmi dono della sua presenza anche questa sera.
Sarebbe la compagna perfetta con cui spartire la solitudine.

Lei

Non vedo l'ora che questa giornata abbia fine.
Mi sembra passata un'eternità da quando sono uscita da casa questa mattina, eppure sono solo le 18:00. Nonostante tutta la volontà e i buoni propositi, oggi proprio non va.
Ripeto a me stessa i consigli che mi ha dato la terapista proprio stamani, durante la mia seduta settimanale: che devo cancellare i pensieri negativi per far spazio a quelli positivi, perché il pensiero crea, e siamo noi stessi gli artefici della nostra realtà.
È una tecnica miracolosa, a detta della specialista, che si chiama programmazione neurolinguistica, o qualcosa del genere. Pare che la signora in questione, dall'alto del suo elegante tailleur e del suo sguardo di commiserazione che tenta di nascondere sotto un bel paio di occhiali, voglia dar vita a una nuova me, riprogrammando il mio cervello. Qualcosa mi dice che sia più interessata ai miei soldi che al mio caso, ciò nonostante mi piace illudermi che qualcuno mi ascolti veramente.
Fa molto caldo, sono tutta sudata e mi fanno male i piedi.
Affretto il passo in direzione della fermata dell'autobus e mi maledico per aver indossato questi stupidi tacchi, che non fanno che incastrarsi tra i ciottoli del viale.
All'improvviso inciampo, cado. Il mezzo che mi avrebbe finalmente riportata a casa mi passa davanti, indifferente ai miei tentativi di richiamare l'attenzione dell'autista. Non mi sorprendo; del resto, una giornata iniziata male, non può che finire peggio.
Mi alzo, mi sistemo i vestiti, do un'occhiata al tabellone degli orari e realizzo che dovrò aspettare un'interminabile mezz'ora prima della prossima corsa.
Mi guardo attorno e vedo un parco. È pieno di mamme con bambini urlanti e di ragazzini che scorrazzano in bici o con i monopattini. Odio il loro vociare, i posti troppo affollati non fanno per me, tuttavia decido di addentrarmi in cerca di una panchina e di un po' d'ombra.
Mi accorgo, con grande delusione, che l'unica che rispecchia queste caratteristiche è già occupata da un tizio che pare addormentato.
Esito, ma i miei piedi implorano un attimo di riposo e non c'è all'orizzonte nessun'altra opzione disponibile.
Decido di avviarmi comunque verso la panchina e di occuparne la metà libera facendo attenzione a non svegliare l'uomo, quando il mio cellulare inizia a vibrare dentro la borsa e sobbalzo, affrettandomi a frugare tra la miriade di oggetti inutili che mi porto sempre dietro, per tirarlo fuori.
Finalmente lo porto alla luce.
Il suo nome campeggia prepotente sullo schermo.
Cosa vuole stavolta?
- Come dici?... Capisco... Ti ho già spiegato mille volte che... D'accordo. Come vuoi. -
Chiudo la telefonata.
Ci mancava solo questa.
All'improvviso, tutto mi diventa insopportabile.
Mi è passata la voglia di sedermi in questo dannato parco.
Giro i tacchi e torno alla fermata dell'autobus, con anticipo, per non rischiare di perderlo di nuovo.
Sono costretta ad aspettare in piedi. Per ingannare l'attesa e distrarmi dal crescente dolore ai talloni, rovisto in borsa in cerca della rivista che ho acquistato poco fa. È un settimanale dedicato all'arredamento d'interni. Ne sfoglio le pagine patinate con delicatezza, godendo dell'odore tipico di carta stampata.
Amo il mio mestiere al punto da non poter fare a meno di interessarmene anche al di fuori dell'orario d'ufficio.
Trascorro metà della vita progettando case da sogno per perfetti estranei, eppure non ho mai trovato lo slancio necessario per dedicarmi alla realizzazione della mia. Perciò mi accontento di fantasticare su questo desiderio che, temo, non uscirà mai dal cassetto nel quale l'ho relegato tanto tempo fa.
Quando l'autobus appare in fondo alla strada, mi affretto a riporre in borsa il giornale e salgo a bordo.
Qui dentro mi manca l'aria. Non c'è posto a sedere e mi ritrovo pressata, impotente.
Sono in trappola, circondata da tutte queste persone: corpi sudati e ingombranti che mi schiacciano e mi tolgono il respiro.
La verità è che odio la grande città e ogni suo singolo abitante.
I loro sguardi distratti, il loro menefreghismo verso il prossimo; odio vederli chiusi nei loro piccoli mondi, senza mai offrire un poco di loro stessi agli altri.
Odio questo inferno urbano di solitudini in cui sono costretta a vivere, sentendomi perennemente un'estranea.
All'improvviso vengo colta da una strana sensazione, o piuttosto da un presentimento. Ma lo scaccio via con una scrollata di spalle, come un brivido.
Fortuna che presto arriverò a casa e non appena avrò richiuso la porta alle mie spalle saremo solo noi due: io e me stessa. Non c'è compagnia migliore e, allo stesso tempo, peggiore di questa.

Lui

Mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte.
I miei occhi, non ancora abituati al buio, impiegano una manciata di secondi prima di riuscire a mettere a fuoco i numeri che appaiono sul display della sveglia. Sono le 3:42.
Ho fatto uno strano sogno in cui una voce di donna mi chiamava.
O forse no? Forse è solo un ricordo; un'immagine sbiadita di me stesso al parco questo pomeriggio.
Mi pare di non saper più distinguere tra sogno e realtà.
Mi metto seduto sul bordo del letto e, con i piedi, tasto il pavimento freddo in cerca delle mie pantofole, certo di trovarle al solito posto, accanto al comodino.
Mi alzo e mi dirigo verso la cucina, al buio.
Questa casa la conosco a memoria, ormai; conosco la posizione precisa di ogni mobile, di ogni angolo e di ogni oggetto. Vivo qui da diversi anni e ogni cosa è rimasta immutata, persino le suppellettili non hanno mai lasciato le posizioni che avevo scelto quando mi sono trasferito. Tra queste mura pare che il tempo si sia fermato.
Vivo una vita fatta di un susseguirsi di giorni sempre uguali, circondato da un ambiente sempre uguale, freddo e privo di quel calore che solo una presenza femminile potrebbe portare.
Tiro su la persiana della finestrella della cucina, quella che dà sul cortile interno, quel tanto che basta per permettere alla luce dei lampioni di intrufolarsi discretamente nella stanza e di cullarmi nella penombra. La penombra ama la solitudine e le stanze silenziose.
Vado ai fornelli, mi preparo un caffè.
Dopodiché mi sposto in salotto, dove scorro con la mano lungo i libri disposti in ordine alfabetico nella mia libreria e ne scelgo uno, lasciandomi guidare dall'istinto. Torno in cucina, mi siedo a tavola.
Ora siamo io, il mio libro, e la mia tazza di caffè.
Si prospetta una lunga notte insonne. È una notte senza luna.

Lei

Esco controvoglia dalla vasca da bagno nella quale mi ero immersa per trovare sollievo dopo questa interminabile giornata.
Credo di essermi addormentata.
Non ho idea di che ora sia, ma di certo dev'essere passato un bel po' di tempo a giudicare dalla pelle arrossata e raggrinzita dei miei polpastrelli. Il vinile che stavo ascoltando si è fermato e la puntina gira a vuoto. La rimetto al suo posto.
Whenever I'm alone with you... you make me feel like I'm young again...
Quanto mi piacciono i The Cure. Questa è la mia preferita.
Canticchiando una strofa dell'ultimo brano che stava suonando prima che mi assopissi, mi lascio avvolgere dall'asciugamano tiepido e morbido e mi guardo allo specchio.
L'immagine che vedo non mi appartiene. Quella che mi sta di fronte non sono io. Stento a riconoscermi.
La mia pelle è spenta, il viso sciupato, gli occhi stanchi.
Forse lavoro troppo. Dovrei ritagliarmi del tempo per me, come mi dicono tutti.
Ma, si sa, il tempo non è amico dell'uomo: crediamo di averne in quantità da vendere, mentre invece non è così. Cerchiamo di stringerlo in un pugno ma, come sabbia, ci sfugge tra le dita, scivolando via per sempre. E, in un attimo, è troppo tardi.
Mi sforzo di sorridere, ma non sono credibile. Non inganno nessuno, tanto meno me stessa.
Quando è successo? In quale preciso momento, la mia vita ha preso questa direzione?
Lascio scivolare l'asciugamano sul bordo della vasca, mi infilo la vestaglia e mi sposto in camera da letto dove troverò i sonniferi al loro posto sul comodino, accanto al bicchiere d'acqua.
Prima di abbandonarmi a un sonno profondo e senza sogni, una domanda curiosa si fa spazio nella mia mente.
Chissà come ha fatto quell'uomo ad addormentarsi in quel modo sulla panchina, oggi al parco. Io non ci riuscirei mai, con tutti quei rumori.
Che pensiero buffo.
Mi giro su un fianco, spengo la luce, e la stanza si addormenta con me, nell'oscurità più profonda.

Lui

Sono trascorsi parecchi giorni ormai, ma di lei più nulla.
Nessuna traccia, è scomparsa. Forse non era di queste parti e quel giorno si trovava a passare di lì per caso.
Ma esiste il caso? Io non ci ho mai creduto.
Torno al parco ogni pomeriggio, dopo il turno di lavoro in biblioteca, e mi siedo sulla stessa panchina. Se la trovo occupata girovago, senza mai allontanarmi troppo, in attesa che si liberi.
La cerco.
Sono certo che la saprei riconoscere, anche se non pronunciasse alcuna parola. Ho immaginato il suo viso, il suo sguardo, il suo portamento così tante volte nella mia mente di inguaribile sognatore, che se me la trovassi di fronte non avrei la minima esitazione.
Difficilmente mi sbaglio, e mai in maniera grossolana.
Lungo la strada mi fermo all'edicola e acquisto un quotidiano.
Lo piego con cura, assicurandomi di non stropicciarne le pagine, me lo metto sottobraccio e percorro il viale. È diventato un rito per me. Sono un uomo abitudinario.
Essendo costretto, come tutti del resto, a barcamenarmi in mezzo al caos di quest'era moderna, cerco un appiglio nei semplici rituali giornalieri che mi danno sicurezza.
Si potrebbe dire che per me la monotonia rappresenta un porto sicuro in cui attraccare, per non perdermi in questo oceano brulicante di infinite possibilità.
Quando raggiungo il parco, metto in moto i miei sensi come un segugio alla disperata ricerca di una traccia. Catturo suoni, odori, colori, ma ognuno di questi mi lascia indifferente.
Lei non c'è.
Ma non mi arrendo facilmente, posso aspettare. Per cui mi accomodo sulla panchina e sfoglio il mio giornale per ingannare l'attesa.
In un attimo fa buio e me ne torno a casa, deluso, rimandando la mia missione all'indomani.

Stamattina non riesco a concentrarmi.
Mi trovo qui, tra le quattro mura della biblioteca, immerso tra gli scaffali pieni di volumi, ma la mia mente è altrove.
Ho sempre amato il mio lavoro e non lo cambierei con nessun altro. I libri sono la mia passione, la mia vita. Per me è un onore e un privilegio toccarli, annusarli, nutrirmene ogni giorno e non sentirmi mai sazio. Non c'è niente di più buono dell'odore inconfondibile della carta stampata.
Li maneggio con cura, ordinandoli per genere e autore. Qualche volta li apro su una pagina a caso e mi lascio trasportare dalla prima frase su cui mi cade l'occhio.
Oggi, invece, non è giornata. Ho i nervi tesi, sono irascibile, continuo a guardare l'orologio nell'attesa spasmodica che finisca il mio turno per poter scappare via.
Non appena le lancette segnano le 17:30, recupero i miei effetti personali dall'armadietto ed esco in strada.
La calura è soffocante.
I miei occhi, abituati fino a un istante prima al tenue chiarore della sala di lettura, mi costringono ad aggrottare la fronte e a stringere le palpebre per poter fronteggiare la luce abbagliante che li aggredisce all'improvviso.
Come di consueto, mi reco al gabbiotto dei giornali e acquisto la mia copia del quotidiano, dopodiché mi avvio a passo svelto in direzione del parco.
Ho la schiena madida di sudore e mi sento irrequieto come se fossi in ritardo per un appuntamento importante, eppure non è così.
O forse sì?
Forse sto per presentarmi al mio incontro con il destino. Di certo, non mancherò.
Mi sistemo la camicia e mi accerto di essere presentabile. Quando giungo all'entrata del parco, attraverso il vialetto alberato, lungo il quale mi fermo un istante per bere da una fontanella, e mi ritrovo dopo pochi passi di fronte alla mia panchina.
Sono fortunato: è libera. Non so se oggi avrei avuto la pazienza necessaria per aspettare che tornasse vuota.
Mi accomodo e apro il giornale.
Lascio distrattamente scorrere le dita tra le pagine, mentre, con lo sguardo, vago intorno a me in cerca di un segno.
Sto perdendomi nelle mie chimere, quando un rumore di passi che sopraggiunge alle mie spalle riaccende la mia attenzione.
Un ragazzino si avvicina e mi domanda, esitante, se può sedersi accanto a me. Indossa jeans strappati e una t-shirt; al collo, delle grosse cuffie color argento e uno zaino Invicta sulle spalle.
Che ci fa qui a quest'ora?
Mi sfugge un sorriso, ripensando a me stesso alla sua età.
- Ogni panchina di questo parco è un bene comune - rispondo, e lo invito ad avvicinarsi, facendomi più in là.
Lui si abbandona contro lo schienale con l'aria stanca, sembra abbattuto. Si toglie lo zaino dalle spalle e, prima di lasciarlo cadere ai suoi piedi con noncuranza, vi rovista dentro fino a estrarne un piccolo libro dalla copertina rigida color blu scuro.
Sono curioso, osservo i suoi movimenti con la coda dell'occhio, senza farmi notare.
Il volume che tiene tra le mani mi è completamente sconosciuto e resto perplesso. Provo a fare mente locale e, in conclusione, sono più che certo di non averlo mai visto. Non posso sbagliarmi: i libri sono il mio pane quotidiano e conosco alla perfezione ogni singola opera che ha abitato gli scaffali della biblioteca nel corso degli anni.
Sbircio la copertina e scopro che non riporta il titolo né l'autore. Che strano...
Il giovane si volta di scatto verso di me, come se avesse letto il mio pensiero ancora prima che lo formulassi.
- È una raccolta di aforismi - esclama, distogliendo lo sguardo da me e spostandolo verso un punto indefinito di fronte a sé. - Parlano di sentimenti, di emotività, del fatto che tutto è uno, che ogni cosa è collegata. Lei ci crede? A queste cose, intendo. Conosce la fisica quantistica? -
Il tono della sua voce rivela un sincero interesse verso il mio punto di vista, per cui mi concedo un attimo di riflessione prima di rispondere. Non mi aspettavo affatto di trovarmi coinvolto in questa conversazione.
Nel frattempo, mi sono accorto che il cielo si sta annuvolando.
Speriamo non cambi il tempo, penso, con gli occhi rivolti in alto.
- Questa frase, ad esempio, proprio non la capisco. Mi aiuta? - , mi incalza lui con un'altra domanda.
Non posso più tergiversare.
- Dice che il vuoto quantico è pregno di emotività. Secondo lei, cosa significa? -
Vorrei chiedergli chi ha scritto il libro, ma scelgo di sorvolare su questo dettaglio; quindi gli rispondo. - A mio parere, quando vengono fatti esperimenti in fisica, in un certo modo anche la coscienza dell'osservatore ne può determinare il risultato finale. Del resto, essa è anche emozione, emotività. Per cui, forse, colui che osserva l'esperimento vi imprime una certa energia e ne condiziona l'esito. -
Mi interrompo, lo guardo, e temo di aver provocato in lui l'effetto opposto: è più confuso di prima. Voglio spiegarmi meglio facendo ricorso a un esempio.
Strappo una pagina dal giornale che ho adagiato accanto a me, la piego più volte su se stessa, creando un piccolo origami a forma di barchetta, e glielo mostro. Ora ho tutta la sua attenzione.
- Immagina che questa sia la tua coscienza - dico, facendo ondeggiare in aria la barca. - Nel momento stesso in cui dovesse posarsi su una superficie d'acqua, inizierebbe immediatamente a formare una miriade di increspature al suo interno. Allo stesso modo lo scienziato che, con la sua barchetta, si avventura in un nuovo esperimento, non potrà che modificarne in qualche modo il risultato. Questa è la mia personale interpretazione dell'aforisma che mi hai citato, e non stento a crederci. -
In un istante, vengo attraversato dal pensiero della donna senza volto che in un placido pomeriggio di luglio ha solcato il mare della mia quieta esistenza, provocando onde che non si sono ancora placate. Questa sensazione non la esprimo ad alta voce, ma la tengo per me, la custodisco gelosamente.
Il ragazzo non commenta ma si limita ad annuire, pensieroso.
Intuisco di averlo colpito. Mi sembra quasi di poter vedere una serie di piccoli ingranaggi mettersi in moto dentro la sua testa: ci sta ragionando su per formulare una teoria tutta sua in merito e spero davvero che voglia condividerla con me.
Dicono che il tempo vola quando si sta bene, così mi domando quanto ne sia trascorso mentre discutevamo.
Guardo l'orologio, ma come spesso accade le lancette si sono fermate e non è attendibile.
Sbuffo. Chissà quando mi deciderò a cambiarlo.
Forse mai. E probabilmente è meglio così.
Questo orologio apparteneva a mio padre ed è appartenuto a mio nonno prima di lui. È permeato di tutte le energie della mia famiglia, racchiude la mia storia. Certo, potrei sostituirlo e destinarlo allo scatolone dei cimeli che conservo nella cassapanca, tuttavia non mi sentirei lo stesso senza il suo cinturino di cuoio consumato attorno al polso. Mi piace pensare che, in un certo modo, mi accompagni e mi porti fortuna.
Ancora una volta, vengo anticipato dal mio nuovo amico che, recuperando lo zaino per riporvi il libro, esclama: - È tardi, devo andare! È stato molto interessante parlare con lei, signore... Rifletterò su quello che mi ha detto - .
In un lampo è in piedi e fa per andarsene, ma lo fermo per regalargli l'origami.
- Vorrei che lo tenessi tu - gli dico. Mi piacerebbe che gli restasse un ricordo di questa nostra conversazione.
Lo afferra al volo, mi ringrazia con un gran sorriso, si volta e se ne va a passo deciso, sollevando le cuffie sopra le orecchie.
Resto a guardarlo finché la sua figura alta e sottile non si perde tra gli alberi del vialetto, giusto in tempo perché una gocciolina di pioggia non mi colga di sorpresa, scivolandomi lungo la fronte.
Alzo di nuovo lo sguardo al cielo: sta per piovere.
Il tempo si è esaurito anche per me e mi metto in marcia verso casa.
Chissà chi era quel ragazzino... non ci siamo nemmeno presentati.

Lei

Sono tornata in questo parco lasciando al mio istinto il compito di guidarmi. Ed è stato grazie ad esso se ho scelto di sedermi proprio su questa panchina, tra le tante disponibili.
Sono da poco passate le 17:00, l'aria è tiepida e il sole fa capolino dietro una grande nuvola color panna montata che se ne sta lì, sola in mezzo al cielo limpido.
Ho terminato la mia seduta settimanale con la terapista e questa volta non mi andava di tornare subito a casa, perciò ho deciso di venire qui a godermi il cinguettio degli uccellini all'ombra di questi alberi. Alcuni colombi stanno zampettando a pochi passi dai miei piedi, probabilmente in cerca di qualche briciola.
Ho pensato che questa sarebbe stata proprio la giornata giusta per passare un po' di tempo a contatto con la natura, per disintossicarmi dalle innumerevoli ore passate tra le quattro mura del mio ufficio.
Quando lo vedo apparire in fondo al vialetto e sopraggiungere nella mia direzione, lo riconosco immediatamente.
È lui: l'uomo che ho visto qualche settimana fa proprio qui, su questa panchina. Ma tu guarda che coincidenza. Il mondo è piccolo.
Mi ha appena notata e mi sta guardando.
Dopo qualche istante di esitazione, si avvicina. Ha un sorriso rassicurante, gli occhi buoni. Tiene le mani infilate nelle tasche dei pantaloni.
- Salve. Le spiace se mi siedo accanto a lei? - mi domanda.
- Siamo in un parco pubblico e le panchine sono di tutti, perciò... - gli rispondo, mettendo da parte la timidezza e cercando di apparire spigliata.
Lui ride e si siede. Scambiamo qualche parola sul tempo e poi mi chiede: - Lei viene qui spesso? -
Mi sposto, nervosa, una ciocca di capelli dietro l'orecchio e rispondo: - No, in realtà è solo la seconda volta - .
- Io ci vengo ogni giorno - sorride, deciso. - Vengo qui ad aspettare una persona... e credo che quella persona sia finalmente arrivata - afferma poi, guardandomi dritto negli occhi.
Sono confusa, non capisco a cosa possa riferirsi, ma esito prima di approfondire la questione, e tra noi cala un silenzio imbarazzante.
Lui si guarda i palmi delle mani e io comincio a fingere di rovistare nella mia borsa, mentre penso a qualcosa di interessante da dire per non troncare la conversazione in questo modo.
- Non si preoccupi, non occorre parlarsi a tutti i costi, sa? Spesso si possono dire molte più cose restando in silenzio - , esordisce lui, cogliendomi di sorpresa.
Accidenti.
- Si è fatto tardi! - esclamo, mentre mi affretto ad alzarmi. - È stato un piacere conoscerla, ma ora devo proprio andare. -
La mia insicurezza ha preso il sopravvento su di me e sento che quest'uomo mi sta mettendo in difficoltà.
- È stato un vero piacere anche per me, dico davvero. Torni domani, se vuole. Mi troverà qui e sarò felice di condividere un altro po' di silenzio con lei. -
Che incontro curioso, penso, mentre mi incammino verso l'uscita del parco senza più voltarmi indietro, facendo attenzione a ogni passo a non inciampare.
Sento ancora il suo sguardo su di me.
Giulia Rocca
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