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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Giuseppe Giuliano Maria Isaja
Titolo: Scintilla in tenebris
Genere Fantasy
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Scintilla in tenebris
Il buio: il tempo della storia.

Nel freddo e gelido buio della coscienza dell'uomo viveva ancora una scintilla che continuava a pulsare la propria luce per rischiarare le cose dimenticate, morte, ma ancora divoratrici di vita. Di una vita che adesso era sommersa nel buio e nelle tetre prigioni dell'anima, dove gridava prigioniero il cuore dell'uomo e il suo respiro; era come un lamento che non rimarrà inascoltato, ma diverrà grido assordante che spezza le catene della sopraffazione e richiama la forza dei giusti pensieri affinché come liberatori possano spalancare le porte di quelle prigioni e far filtrare un po' di luce nei cuori anneriti e spenti del popolo di Sperantia.

Mistral e zefiro.

Nella brezza leggera la città dorme solitaria, hanno chiuso gli occhi gli uomini sul male che hanno compiuto, preferiscono non guardare, non sentire e non vedere. Lacrime adesso sono come temporali sulle città degli uomini e serve coraggio per riuscire a guardare quel cielo colmo di lacrime e un'innocente natura umana ferita e disprezzata. Ma niente è perduto, perché salde sono le parole degli uomini giusti e forti, le loro mani nel portare giustizia per una dignità che nessuno può riuscire a scalfire, perché il segreto è in questi occhi che hanno visto la distruzione e adesso scelgono con coraggio di guardare oltre, oltre le mura di queste divisioni, le incorporee barricate che dividono gli uomini da ciò che sono destinati ad essere, che frammentano la loro stessa vita in mille pezzi. Un grido è sorto a est, l'ha portato il vento a noi: l'incubo verrà sconfitto, il sogno è adesso ed è vita che come ombra di una luce più grande ci illumina. Le nubi si diradano, una luce nuova scende leggera sulle case, ma il vento non vuole fermarsi, corre troppo veloce per essere visto, così non riusciamo a vedere le cose belle perché ci precedono sempre di un passo.
Un'altra notte era svanita come il sogno di Zefiro insieme alle visioni di ogni notte che rimanevano intrappolate, soffocate, incollate su quel letto prima di librarsi e svanire come fumo. Eppure rimaneva ancora nei suoi occhi quel bruciore, quell'accecante sensazione dell'immagine rimasta indelebile nella sua anima: ciò che vedeva era un uomo, portava un incensiere nella mano destra e continuava a pregare con tono deciso e profondo. Aprì gli occhi accarezzati dai raggi del sole e, come di consueto, vide spalancare la porta dolcemente: era suo zio Mistral, un uomo sulla sessantina della statura di un gigante, dagli occhi marroni reduci da mille battaglie. Sul volto portava i segni del tempo, ma interiormente nutriva ancora la voglia di essere bambino, di scoprire insieme a suo nipote la bellezza nascosta in ogni cosa.
Gli aveva portato la colazione, lo baciò sulla guancia e gli disse: - Un altro giorno ti è stato regalato, vivilo al massimo! -
Ancora sonnecchiante e con la bocca impastata, rispose: - Zio, mi dici sempre la stessa cosa ogni giorno, non ti sei stancato? -
- È giusto che io te lo ricordi sempre, così ricorderai che la vita ti ha parlato e ti aspetta anche solo per un ultimo saluto. -
Zefiro sorrideva ogni volta che suo zio proferiva queste parole, e dopo avergli raccontato quello strano sogno il mondo di Sperantia non gli appariva più un luogo oscuro e difficile, ma un mondo che lo attendeva. Lo scoprì presto, e capì il senso di quelle parole, fino al giorno in cui una lacrima percorse le sue guance accaldate; il suo viso era cupo ma su quella sola lacrima si rispecchiava un sorriso, l'unica scintilla nel buio della morte. Quanto era preziosa quella lacrima e quanto strano quel sorriso prima dell'abbandono.

Sperantia.

I nostri occhi vedono soltanto rovine, un pianeta che non respira liberamente perché soffocato dalla brama di potere degli uomini, sconfinati deserti di sabbia e polvere sono diventate le nostre case e le nostre città e arido è il nostro cuore; continuiamo a infierire su un pianeta ormai sanguinante nella sua lenta agonia. Scorgiamo le nostre miserie, siamo morti dentro e per sentire la vita rimasta in noi continuiamo a perseverare negli stessi sbagli, inveire contro la vita che non è più. Non abbiamo più memoria né futuro, siamo l'illusione che abbiamo inseguito e in quella sfrenata corsa siamo diventati meno che la sua ombra. Gli anziani ricordano ancora, raccontando al loro avvenire il loro passato, i rigogliosi splendori e le lance di uguaglianza incrociate per difendere i deboli, e noi li ascoltavamo con occhi colmi di stupore dietro i focolari. Ardevano allora le nostre vite, un senso di giustizia divorava le nostre coscienze, ma quella fiamma durò poco, e quando diventammo adulti non eravamo più quella fiamma, ma la stessa cenere che adesso i nostri passi calpestano dopo il disastro.
L'illusione inghiotte ogni cosa, anche la speranza, ma un sogno ancora geme per vedere la luce, sepolto com'è nelle dune di sabbia del cuore umano. Le città degli uomini come immense pire bruciano sotto i raggi del sole e gli uomini come fiammiferi alimentano il fuoco della divisione, forse i secoli si sono accatastati come un'immensa barriera sulle nostre teste perché troppo grande è la nostra responsabilità e troppo brevi le nostre vite. I venti continuano a soffiare sul nostro mondo, che sembra spegnersi come flebile fiamma sotto le ardenti, travolgenti e vive emozioni della luce nuova che verrà.
A nord sono alti e rigogliosi gli alberi, guardiani e indicatori del tempo sugli specchi d'acqua che attendono da secoli il riflesso di chi potrà renderli più luminosi; ma la natura nel suo ultimo disperato respiro ha reclamato a sé dei protettori, i Lifgreen, dopo la Grande Catastrofe. Uomini che vedono la luce per la prima volta, nacquero così queste creature ancestrali nel fitto e intricato polmone della vita. Dimorano con i loro piccoli occhi rivolti verso le alte fronde degli alberi per vedere l'emozionante movimento degli uccelli, che disegnano con le loro traiettorie invisibili il destino del mondo nella foresta dell'incanto. A est si erge la mirabile città del tempo degli uomini: i loro orologi continuano a girare ritmicamente perché il loro desiderio di immortalità non svanisce, costruiscono altari dimenticando chi sono stati, scrutando dietro la polvere dei loro antichi tomi ricercano una conoscenza perduta, e cinici scienziati venerano nella grande cattedrale dell'Eterno Attimo i frutti partoriti dalle loro piccole menti, ma invano cercano di svelare l'enigma dell'immortalità. Ma non è questo l'unico rifugio degli uomini: a ovest si erge Staorlife, la stella della vita, l'oasi più grande del mondo in un mare di nulla.
Ma tra gli uomini un popolo nomade si muove nel mondo di Sperantia, un solo accampamento fortificato si affaccia sull'estuario del respiro, per accumulare bottini e riunire la tribù. Essi scrutano le valli per stanare le loro prede, sono loro i barbari: esuli della Grande Catastrofe, sono primitivi, grezzi e brutali, razziano e ricercano come pietre preziose le oasi della vita. Mentre a sud dimoravano gli Antichi Sacerdoti, la loro stirpe è giunta al tramonto, o forse si è solo inabissata in attesa di una nuova alba, poiché i morti non abbandonano facilmente ciò che sono stati.
Infine nei cupi silenzi a ovest opera un'oscura mano nera che lascia la sua onta infernale sulle coscienze degli uomini. Nessuno crede nella sua esistenza, il vero nemico colpisce di nascosto eppure tracce, sangue, morte dilagano nell'assordante e crudele silenzio generale, così gli incubi prendono vita nelle grotte tenebrose dell'animo umano. Guidati da un'antica setta scrutano i passi degli uomini e guardano il cielo per vedere il sole oscurarsi: sono la setta del Sole Nero, che come un cancro nel cuore della vita avvelena il sangue dell'umanità.
In mezzo a questi ultimi baluardi di civiltà sospesi sull'equilibrio di un'esistenza fragile e incerta, quel piccolo uomo di nome Zefiro ricordava sempre le parole di suo zio e sentiva in sé che la vita lo attendeva anche solo per un ultimo saluto, ma prima di andarsene, prima di scomparire doveva riaccendere una speranza: il male verrà sconfitto ed esiste vittoria anche nel fallimento, perché più grande della morte è l'amore che portava dentro e che tutti chiamano presente infinito. È lì che Zefiro ritrovava sé stesso e con lui tutto l'amore del mondo. Era un ragazzo longilineo, alto quanto basta e con due occhi cerulei voraci di conoscenza e d'avventura; portava un pizzetto rosso acceso, come la sua passione per la natura, che sembrava parlare dietro i suoi sguardi introspettivi quando si ritirava nel suo mutismo serrato. Era un ragazzo ribelle e stravagante, se c'era una regola egli doveva infrangerla alla ricerca di emozioni forti, pieno di vita e di entusiasmo, sempre alla ricerca di qualcosa ma non sapeva bene cosa; colmo di contraddizioni e insicurezze, voleva apparire come una persona sicura, senza difetti. Prima di addormentarsi fantasticava su mondi impossibili, storie di soldati, mostri e cavalieri, ma questo suo lato bambino ben presto lasciò il posto al suo vir interiore e divenne in poco tempo giovane d'aspetto, ma vecchio d'esperienza. Aveva compiuto diciassette anni e viveva a casa di suo zio Mistral: i suoi genitori erano morti nella Grande Catastrofe sognando un mondo diverso e lo avevano affidato a Mistral per la fuga dalle mani assassine della Congrega della Conoscenza. Il ragazzo incarnava perfettamente quell'ultima speranza prima di un nuovo inizio.

Eternity.

La notte avanzava, gradualmente le luci delle case di Eternity si spegnevano come un panorama senza più colore; solo una luce era ancora accesa, quella della dimora del signor Agrest. In mezzo al silenzio un boato assordante proveniva da quella casa, il signor Agrest tremava mentre guardava la porta che conduceva nella stanza dove si era rinchiuso. Rivoli di sudore ricoprivano il suo volto e il suo pomo d'Adamo si muoveva nervosamente: sembrava stesse ingoiando la propria condanna, quando a un tratto una mano nera con artigli squarciò la porta, un urlo disperato, poi il nulla... solo una carta ingiallita cadde da quella finestra, recitava: La morte non scenderà dal suo trono, gli incubi hanno preso vita.
Zefiro viveva in una casa ubicata vicino al ponte di Eternity da quando era in fasce con suo zio Mistral, l'ambiente era per lui opprimente e il freddo cinismo di quei falsi sacerdoti che governavano la città lo infastidiva. Mura maestose si ergevano, pronte a respingere con i loro muscoli di pietra antica ogni ondata nemica, e sentinelle vegliavano sui segreti scritti nelle pergamene, sulle mani, nelle menti degli scienziati che dicevano fossero prossimi a scoprire il segreto dell'immortalità, nella città che da tempo immemore ricercava quell'enigma: Eternity, la capitale del regno degli uomini, l'unica scheggia nel tempo che poteva fermare e cambiare il corso della storia. Il governo era costituito dal Gran Consiglio con un reggente, il Gran Maestro re Ubaldo il Guerriero e il suo fidato consigliere Austin. La società si reggeva sulla classe economica più ricca, costituita da colti borghesi ed esperti mercanti, la sperequazione era imperante e la popolazione meno abietta abitava in casupole di legno sotto il grande ponte che metteva in comunicazione i due lati della città. Sui lati del ponte c'erano degli affreschi ormai sbiaditi e cadenti della storia della Congrega dall'insediamento del re Ubaldo il Guerriero. Nel punto di congiunzione delle due estremità vi era la bandiera della Congrega, che riuniva gli uomini sotto l'unica causa del sapere e della ricerca scientifica.
Il fiume che la attraversava era chiamato Arcobaleno, perché la terra vicino alle sponde acquisiva un colore iridato per via di particolari coralli che rilasciavano una sostanza. Nella città eterna, come la conoscevano gli altri popoli, vi erano orologi dappertutto, poiché i suoi abitanti erano ossessionati dal tempo, lo inseguivano invano bramando la conoscenza per poterlo controllare. Dall'alto la struttura architettonica della città ricordava quella di tanti cerchi concentrici che convergevano verso il centro il punto più grande: era lì che si trovava l'accademia del sapere, il santuario della scienza, il cuore pulsante dell'immortalità, era lì la struttura maestosa: la cattedrale dell'Eterno Attimo. Le case tutte uguali, squadrate, spigolose (solo quelle dei membri del Gran Consiglio avevano il battente del portone con il globo racchiuso dentro una squadra) erano come spettatori impassibili del momento in cui quella cattedrale avrebbe rivelato il segreto al mondo, mentre la bandiera della Congrega (bianca con bordi dorati, con al centro un occhio nel cui iride c'è un uomo che scrive con un calamaio gigante su un orologio la parola fine) si ergeva alta in balia del vento, ma non del tempo che non lo aveva ancora vinto. Una sola frase racchiudeva il motto della Congrega: la conoscenza svela il segreto dell'immortalità.
Non esistevano luoghi di culto in città, era vietata la religione in qualsiasi forma perché a detta del Gran Maestro nemica della ragione e fuorviante per le giovani menti del regno. La visione culturale predominante era antropocentrica, con l'esaltazione dell'uomo e delle doti razionali della sua mente, con un maggiore accrescimento del sapere personale per raggiungere l'immortalità; questo credeva il Gran Maestro, che prima o poi l'uomo sarebbe riuscito a carpirne il segreto e sarebbe diventato finalmente immortale, sconfiggendo il tempo e le leggi naturali.
La natura non veniva minimamente rispettata, era soltanto una fonte di interesse, un mero mezzo nelle mani dell'uomo per il raggiungimento di scopi personali, e gli animali erano soltanto cibo di scarsa qualità per le grandi menti del regno, perché il vero nutrimento erano i tomi scritti da chi aveva preceduto quella generazione.
Questi presupposti garantivano a Eternity il livello culturale più alto nel mondo; i bambini venivano prelevati con la scusa che le fantasie causassero disordine e sommosse nel regno. Inoltre veniva messo a morte chiunque parlasse apertamente di una certa setta, una leggenda metropolitana che per tanti secoli aveva terrorizzato l'uomo medio, a detta di Austin. Le strutture pubbliche erano imponenti e fredde nel loro stile architettonico perché dovevano psicologicamente incutere paura al singolo, soggezione di fronte a un'autorità che operava per un bene più grande: il futuro dell'uomo.
Due erano le feste principali: una cadeva nel giorno dell'indipendenza dal regno degli Antichi Sacerdoti ed era la parata dell'esercito regolare della Congrega, i distruttori dei mondi, soldati a piedi e a cavallo pesantemente corazzati con le loro armature marroni e nere, il più grande degli eserciti di Eternity. L'altra, ogni anno nella cattedrale, era la cerimonia di esaltazione e scambio delle nuove scoperte scientifiche: lì si riunivano i membri del Consiglio, il Gran Maestro, il consigliere e l'alta borghesia e, perché no, qualche ricco mercante in cerca di affari.

L'istruzione.

Fermenti culturali e modelli educativi fondati sulla competizione serrata tra gli studenti erano il fulcro della grande accademia di Eternity. Infatti c'era un 'unica grande scuola statale al cui interno vi erano i vari gradi di istruzione, il suo nome era Fuoco del mondo; la chiamarono così per via del suo fondatore James il Dotto, che scrisse: “La mente brucia ardente con fuochi inestinguibili gli ingialliti tomi del tempo, perché in essa grandi librerie di sapere e cultura possono convivere come una nuova invenzione, ciò che resta del sapere è racchiuso nel nostro cervello che ha già tramutato il fuoco in fumo e la cultura in ragione”.
Il fondatore era una persona ricca e influente a quel tempo. L'architettura della struttura era gotica e sulla facciata sopra il portone d'ingresso vi era un bassorilievo: una mano che teneva una torcia, per indicare il fuoco che illumina le tenebre dell'ignoranza. La fantasia era bandita dal regno perché fonte di ogni male secondo il regime oligarchico, i bambini dell'alta borghesia venivano prelevati dalle famiglie, cresciuti, indottrinati e istruiti alle più alte forme della conoscenza, mentre i figli dei poveri imparavano solo a leggere e scrivere, usufruendo di libri selezionati personalmente dal Gran Consiglio. All'inizio di ogni anno scolastico il rettore nonché membro del consiglio Filiberto, un uomo dalla statura minuta, gli occhi verdi e i capelli biondi, teneva un discorso agli studenti per proclamare chi aveva raggiunto i risultati migliori nell'anno accademico precedente delle classi scientifica e liceale, che erano tre, ognuna con un'associazione studentesca che la rappresentava, contrassegnata dai simboli dei doni della conoscenza: il calamaio d'oro (simbolo dell'invisibile mente), la pergamena (simbolo di vita) e la squadra e la gomma d'argento (la prima rappresentava la conoscenza perché tracciava i confini del mondo, la seconda cancellava gli errori del passato e riscriveva la storia).
Quell'anno aveva vinto la sfida di merito la classe scientifica A e le venne assegnato con l'acclamazione di tutta la scuola un piccolo calamaio d'oro in miniatura. - Siete tutti guerrieri del sapere e avventurieri nel mondo inesplorato della conoscenza, questo vostro entusiasmo è il mio entusiasmo nel vedere di fronte ai miei occhi un muro che si sgretola sotto i colpi decisi delle vostre menti straordinarie: oltre quel muro c'è il segreto per diventare padroni del mondo e del tempo, immortali e spettatori attivi nel sapere - fu il discorso di Filiberto.
La grande cattedrale era il tempio della scienza e della cultura per l'uomo, nel miraggio e nell'illusione di una immortalità cercata dagli uomini nella materia morta, nei tomi e nei cadaveri che facevano vivisezionare alle menti più brillanti, perché secondo la Congrega l'eternità poteva scovarsi in qualche parte del corpo umano. Nonostante quella del regime fosse una realtà senza creatività, da qualche tempo misteriose morti e sparizioni avvenivano a Eternity: i corpi sembravano dilaniati da bestie feroci, ma non si trovavano tracce di pelo né orme e nessuno riusciva a comprendere la vera causa di quelle morti. Alcuni, i più coraggiosi s'intende, additavano le morti alla setta del Sole Nero e puntualmente venivano decapitati dalle guardie oppure sparivano misteriosamente. Tutto veniva minimizzato dal Gran Maestro: - La morte - diceva, - è solo una legge naturale che noi un giorno vinceremo! -
I giovani più intelligenti potevano studiare direttamente nella cattedrale insieme agli insegnanti incaricati dal Consiglio; le classi meno abbienti credevano alla setta del Sole Nero, alla magia e di nascosto nelle loro dimore (per chi ne possedesse una) scrivevano storie di fantasia, e le raccontavano ai figli con la promessa di non parlarne con nessuno. L'istruzione per le prime classi era a spese dello stato, l'uomo si ergeva a Dio e la scienza era il suo braccio per muovere il mondo di Sperantia, ma questi pensieri neri come mosche coprivano il luminoso respiro dell'uomo, soffocando la sua natura nel buio di un oscurantismo velato e giustificato da una ipotetica cultura salvatrice del mondo. L'indifferenza regnava sovrana, giustificata da una cultura che si credeva progressista ma era figlia atavica del regresso e della mentalità retrograda, dove al primo posto non vi era l'uomo ma ciò che poteva produrre.
Eternity era più simile a una giungla moderna, stesse regole di sopravvivenza esacerbate dalla disunità e dal primeggiare a qualsiasi costo del singolo sugli altri. Apparentemente gli abitanti della città non avevano una religione, perché era vietato loro il libero esprimersi dell'anima: il loro credo si basava sull'idea della conoscenza ottusa e inquadrata entro rigidi schemi mentali. In quel clima opprimente, chi aveva il coraggio di sognare e di credere a quello che i nostri occhi non possono vedere, ma la nostra anima sente, era la resistenza; una resistenza fatta di carne, spirito e passione, che preferiva nascondere al mondo l'immensità che portava dentro piuttosto che rinnegare ciò che veramente era. Tra questi combattenti senz'armi c'erano anche Zefiro e Iris: il primo ascoltava sé stesso, l'invisibile e le dolci parole dell'anima, il secondo si rifugiava nel mondo dell'ignoto, dei sogni dove ogni cosa, anche la più piccola, vale più di fiumi di parole.
Nella città era presente una grande biblioteca di nove piani, che aveva la forma di un grande libro, con incisa all'ultimo piano, a grandi lettere, la scritta “Il sapere è la misura di tutte le cose” e un'altra frase al piano terra, “Prendi la squadra: puoi forse misurare ciò che porti dentro?”.
Conteneva solo i volumi posti al vaglio del Gran Consiglio con il bibliotecario Fabrizio, un uomo di ottant'anni, pelato e con lo sguardo avido di vitalità; Zefiro e Iris con il tempo erano diventati suoi amici ed egli diceva loro: - Alcuni continuano a vivere attraverso le loro parole e il libro è come un'anima che continua a parlare. Ogni libro ha un'anima diversa, ma i libri veri sono quelli che parlano di ciò che è sempre attuale: l'interiorità dell'uomo, e in essa l'eternità dell'amore. Per questo la poesia, la scrittura, la parola sono veicoli, perché magicamente possono cambiare la coscienza dell'uomo, dove si nasconde l'infinito. -

Economia e società.

La società di Eternity era costituita da tre categorie: guerrieri, popolani e ricchi borghesi. Il sistema sociale si reggeva sulla classe economica più ricca e la sperequazione era imperante. Le classi sociali più povere vivevano in tuguri di legno vicino o sotto al grande ponte che metteva in comunicazione i due lati della città. La florida economia di Eternity poggiava soprattutto sull'agricoltura, con i popolani che lavoravano come schiavi per i nobili, ma anche sul commercio, sulle piccole e grandi attività delle arti e dei mestieri svolte dalle media e grande borghesia.
Era sempre stato un popolo bellicoso quello di Eternity e la classe più ricca, com'è ovvio, erano i borghesi, che acquistavano stabilimenti e fornaci. Vendevano al Gran Consiglio le migliori armature e scudi di tutta Sperantia; in mano a questi borghesi c'erano anche le scuderie per l'allevamento dei cavalli, sia a scopo ricreativo che militare, e i centri ippici. Esisteva una grande corporazione delle arti e dei mestieri e i loro membri si giuravano assistenza e difesa militare; due spade con al centro un fiore erano il simbolo della corporazione, il loro rappresentante era un certo Raffaello, un uomo di mezza età, tarchiato, pelato, con gli occhi marroni e la barba bianca, influente e potente all'interno della città e intimo amico del consigliere del re. La città era diventata col tempo una delle più ricche al mondo, grazie alle ricchezze che trovate nel regno degli Antichi Sacerdoti: oro, pietre preziose e argento, che erano custoditi nella cattedrale. A volte barattavano con i Lifgreen, sebbene questi ultimi odiassero gli uomini. Non esistevano sacerdoti o religiosi come negli altri popoli, perché l'uomo era la guida di sé stesso, a patto che seguisse scrupolosamente i dettami del Consiglio e il sapere imposto. Non esistevano maestri, perché la conoscenza presieduta dal regime oligarchico veicolava le informazioni inseguendo il falso mito della scoperta dell'immortalità.


La casa di Zefiro.

La casa di Zefiro era una casa antica molto spaziosa su tre piani, i muri erano imponenti e la facciata era bicolore, il rosso spento ma intenso la ricopriva a raggiera per circa un metro e poi il bianco fino al terrazzo dell'abitazione, dove vi erano delle piante nane di fichi d'India in vasi istoriati di terracotta che davano un tocco di sapore orientale a tutto l'edificio. Le entrate della casa erano due al piano terra e una al secondo piano, dove si accedeva salendo una scala rustica e poco curata nei dettagli; a dare luce e vita alla scala nelle notti estive era una piccola lucciola che aveva stabilito alla fine del ballatoio la sua dimora. Probabilmente proveniva dal terreno adiacente alla casa e Zefiro da bambino immaginava che quella lucciola gli portasse fortuna, che fosse un folletto, uno gnomo delle fiabe in un mondo magico ai suoi occhi.
Le due porte che davano sulla strada erano di colore marrone chiaro e sembrava potessero cadere alla prima folata di vento, mentre il portone che si affacciava sulle scale era di legno massiccio con il battente in ottone puro e intimoriva chiunque si accingesse a bussare. Dietro la porta si trovava una botola, un passaggio segreto che conduceva nel sotterraneo: era quello il nascondiglio segreto a Eternity delle Spade dell'Aurora, c'era una piccola fessura dove i membri dell'ordine lasciavano le lettere a Mistral, ma non poteva essere più utilizzato perché era stato scoperto dai membri della setta del Sole Nero che avevano distrutto quel prezioso adito. Le finestre erano persiane e si conciliavano a meraviglia con l'antichità della casa. Entrando nella dimora vi era una sala con un grande tavolo che pareva accogliere con premura gli ospiti invitandoli a sedersi sulle sue sedie in cuoio e altri due mobili, uno a destra che fungeva da piattaia con diversi compartimenti e a sinistra un mastodontico mobile che veniva usato per conservare altri servizi, piatti e bottiglie; il tutto sormontato da un grande affresco costituito da diversi animali che uniti insieme formavano un volto umano. In fondo a destra, invece, all'angolo del muro era ubicato un grande camino e Zefiro soleva sedersi lì vicino nelle gelide giornate invernali per riflettere ascoltando lo scoppiettio rassicurante dei rami divorati dalle fiamme. Le folate che uscivano dal comignolo si univano ai suoi pensieri, che si disperdevano nel cielo nuvoloso insieme a quel fumo nero e denso.
Un pozzo ormai in disuso si trovava abbarbicato al muro dirimpetto al grande tavolo: era profondo nove metri, con un grosso legno sulla base per attingere l'acqua, e aveva più volte stuzzicato la fantasia di Zefiro, che vi immaginava storie impossibili di occultamenti di cadaveri. Un arco di cemento conduceva alla stanza attigua, dove c'era una cucina, e mentre il pavimento dell'intera casa era di marmo grigio, le pareti della cucina erano piastrellate di bianco con decori costituiti da grossi rosoni turchesi mentre l'intera stanza era dominata da un tavolo rivestito di marmo bianco con delle pesantissime sedie di quercia, infine un passavivande metteva in comunicazione i due ambienti.
Delle strette scale conducevano al piano superiore, dove il disegno sul pavimento di un rombo in marmo bianco al centro esatto della casa rapiva anche l'occhio più distratto. C'era una libreria vicino alla ringhiera delle scale e in quello spazio vuoto solo un tavolo rotondo con disegni floreali. A destra invece vi erano due stanze attigue: la prima era la stanza di Mistral, accogliente, con un letto con spalliera sormontato da un simbolo religioso appeso al muro, nascosto da occhi indiscreti, un tavolo di legno grezzo e un mobile di alta manifattura appartenuto forse a qualche casata decaduta con su inciso LB; la seconda era la stanza di Zefiro, con al suo interno un letto con una spalliera antica e cimasa floreale (gli piacevano molto i fiori, gli ricordavano la vita rigogliosa, la spontaneità e il profumo travolgente che egli ricercava in ogni cosa), un grazioso mobiletto con un'antica lampada a olio, che rispecchiava i gusti un po' retrò del nostro giovane amico, che si rilassava solo a guardarla illuminando quelle lunghe notti buie e insonni.
Nello spazio vuoto, a sinistra c'era un altro arco che conduceva a due ambienti, il bagno piastrellato con decori floreali che si intrecciavano come una pianta selvatica rampicante e una sala adibita allo studio. Una scala in legno conduceva al terzo piano: lì si trovava una stanza matrimoniale soleggiata dove balzava subito agli occhi il letto, con una spalliera elegante e maestosa. Vi erano anche due specchi, uno a grandezza d'uomo a forma d'uovo e un altro circolare molto piccolo, e un armadio di ottima manifattura con due rombi scolpiti sulle due antine e un severo baule di legno. La stanza usufruiva di due balconi, uno che si affacciava sulla strada e l'altro sul giardino adiacente alla casa.

La profezia.

Ogni mattina Zefiro si incontrava con il suo amico Iris: una persona singolare, un sognatore ribelle a detta di molti, perché non seguiva le regole sociali. Le uniche sue regole erano fai ciò che senti, segui il mondo nascosto dei sogni. Per questo era reputato un tipo sui generis dagli altri; la sua corporatura era snella e aveva un occhio di un marrone chiaro e uno verde come suo padre, i suoi capelli erano castani, per Zefiro era semplicemente una persona speciale. Si conoscevano da bambini, erano legati da un affetto che superava la semplice amicizia: infatti i genitori di Iris erano intimi amici di quelli di Zefiro, secondo la storia che gli raccontava da bambino suo zio Mistral, i genitori dei due ragazzi affrontavano coraggiosamente gli incubi credendo che il male dovesse essere estirpato. Il padre di Iris, l'oniromante Asar, credeva che bisognasse conoscere il sogno universale perché secondo il suo punto di vista esisteva un sogno antico quanto l'uomo condiviso da Dio, e bisognava svelarne il significato per capire chi avrebbe vinto la battaglia finale e conoscere il destino dell'uomo.
Ogni giorno era sempre lo stesso copione: i due ragazzi si incontravano all'incrocio sotto casa, vicino alla locanda degli alchimisti, e Moira la zingara gli veniva incontro pronunciando sempre le stesse parole: - L'arco del destino ha scagliato la sua freccia, ma è te che ha ucciso, non il suo sorriso! - e poi proseguiva per la propria strada. Aveva i capelli rossi come l'inferno, gli occhi azzurri, cinquant'anni di età, magra come un chiodo e nessuno conosceva il suo passato. Zefiro e Iris non la prendevano nemmeno in considerazione, il primo perché non credeva alla magia, Iris perché la considerava un po' matta, ma sentiva in sé qualcosa quando Moira pronunciava quelle parole.
Con la scusa di acquistare del buon pesce erano usciti di casa e si fermarono dal pescivendolo, che parlava con un uomo e diceva: - È stato messo a morte l'ennesimo fanatico che parlava di magia e di una certa setta! -
L'altro rispose a voce bassa: - L'ennesima follia del Gran Maestro... cosa cambiava? L'uomo in questione era già morto! -
- Non so che dirti, troppe vite stanno lasciando questa città e ancora non si trova il colpevole di tali orrori! - concluse il pescivendolo.
Dopo i loro acquisti decisero di proseguire fino alla cattedrale. Era il giorno solenne della cerimonia della conoscenza, si svolgeva ogni anno, e lì si riunivano scienziati e colti personaggi dell'alta borghesia. Le strade erano deserte, non pullulavano di vita come sempre. Appena giunti sul luogo uno scenario straordinario, e sinistro per il loro modo di vedere la realtà, apparve ai loro occhi: l'edificio aveva la forma di una gigantesca squadra che si ergeva verso l'alto e culminava in un grande campanile, che per quella cerimonia solenne era tappezzato di rosso porpora per ricordare le vite degli scienziati al servizio della Congrega immolate per la scoperta dell'immortalità. Sul portone vi erano dei bassorilievi in ottone, a ovest una mano protesa, a est un libro aperto, perché le nuove scoperte dovevano essere rese note al popolo.
Iris e Zefiro varcarono la soglia; l'edificio era affollato, ma uno strano silenzio pervadeva la sala. Un grande affresco dominava la scena: era ubicato alla fine del corridoio, immenso, copriva metà dell'edificio, raffigurava un uomo che scriveva con un calamaio su un orologio la parola fine. I doni erano come sempre rigorosamente posizionati ai tre angoli dell'altare: il calamaio d'oro (che rappresentava l'invisibile mente), la pergamena (rappresentava la vita) e la squadra e la gomma d'argento (rappresentavano rispettivamente la conoscenza, perché tracciava i confini del mondo, e la possibilità di cancellare gli errori del passato e riscrivere la storia). Al centro dell'altare era seduto il Gran Maestro Ubaldo il Guerriero, un uomo che nonostante i suoi sessant'anni aveva una corporatura muscolosa, due occhi marroni piccoli e astuti e i capelli lunghi fino alle spalle. Attendeva di pronunciare il discorso e dai movimenti del corpo mostrava un certo nervosismo.
Dopo una lunga pausa si alzò e disse: - Quest'oggi, nel 2020 d.G.C. (dopo la Grande Catastrofe), all'unisono diciamo che sono bandite la magia, la superstizione, la religione e ogni dottrina che non abbia basi solide nel sapere umano. Noi crediamo fermamente - aggiunse muovendo il braccio verso l'alto in segno di potenza, - che la nostra forza non viene dall'alto ma dalla terra, dalla conoscenza che i nostri padri ci hanno tramandato, dal sapere che forgia la spada che divide in due ciò che è vero da ciò che è falso, e tutto ciò ci condurrà un giorno a governare la vita, a fermare il tempo nello stesso istante in cui le lancette di quell'orologio che vedete dietro di me saranno i pensieri dell'uomo saggio, che riavvolgeranno il tempo per aprirci le porte dell'eternità. E non saranno le stupide magie, né quei falsi incubi di cui alcuni ancora parlano a intimorirci, perché il calamaio invisibile della nostra mente è riuscito a trafiggere il lento incedere del tempo, la vecchiaia, la morte! -
Fece una breve pausa, poi riprese con tono altisonante: - La conoscenza è la misura di tutte le cose, svela il segreto dell'immortalità! -
Tutti nella cattedrale si alzarono e applaudivano e osannavano il loro re. I membri del Gran Consiglio erano guidati dal vice reggente Austin, consigliere del Gran Maestro, un uomo di settantacinque anni, gobbo, dai lineamenti pesanti, gli occhi di ghiaccio da cui non trasparivano emozioni; era lui la seconda figura più importante del regno, con ampi poteri decisionali, e ricopriva anche il ruolo di capo delle spie, perché per una disgrazia era venuto a mancare colui che lo aveva preceduto, così il Gran Maestro aveva deciso di affidare a lui quell'incarico.
Alla cerimonia assistevano anche il generale dell'esercito dei Distruttori dei Mondi, Goffredo, e il co-mandante della polizia della Congrega, i Neri Vessilli, Adolfo.
Il Gran Maestro guardava attentamente i membri del Gran Consiglio avanzare, ma si accorse subito che mancava il signor Agrest e con occhi interrogativi continuava a fissare quegli uomini; ad un tratto una guardia irruppe nella sala, si avvicinò a Austin bisbigliandogli qualcosa all'orecchio. Il consigliere girandosi verso il re disse: - Vado a controllare l'accaduto, Gran Maestro. -
- La cerimonia continuerà con un lauto pasto - rispose lui per non diffondere allarmismi. - E ricordate, l'occhio della conoscenza è sempre vigile e vivo, perché apre le porte dell'immortalità! -
Giuseppe Giuliano Maria Isaja
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