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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Fara Candela
Titolo: La Patanara
Genere Fantasy Thriller
Lettori 3327 30 48
La Patanara
Enrico tentava di telefonare ad Elisa da un quarto d'ora,
le aveva già lasciato una ventina di messaggi senza ricevere risposta, eppure era sicuro che avesse già finito di lavorare.
– È inutile, non risponde! – disse ad alta voce, anche se non vi era nessun altro in casa per poterlo udire.

Quasi rassegnato, ripose il cellulare nello zaino insieme al caricatore e a un paio di vestiti, aprì il cassetto della scrivania e prese una chiave che mise in tasca.
Era pronto per partire, sarebbe stato via per quattro giorni e avrebbe preferito avvisarla di quella telefonata improvvisa che aveva appena ricevuto.

Mise lo zaino in spalla e chiuse la porta a chiave.
Scendendo le scale pensò che forse non le sarebbe importato più di tanto della sua partenza, dopotutto, la sfuriata avuta durante la cena della sera prima, poteva benissimo considerarsi l'ultima.

La sua Bmw era parcheggiata davanti al portone del palazzo, una volta entrato in auto si ritrovò con le ginocchia schiacciate tra il petto e il volante. Per mettersi comodo dovette riposizionare il sedile indietro e il pensiero immancabilmente tornò a lei. Una donna tanto piccola quanto grande, con sempre mille idee nella testa che lo affascinavano ogni qual volta ne tirava fuori una. Amore sin dal primo incontro come fosse un segno del destino.

Quella notte dopo la discussione non aveva chiuso occhio, l'amava nonostante gli alti e bassi della loro relazione, ma non riuscendo a trovare il modo per farsi perdonare era sicuro che questa volta Elisa lo avrebbe lasciato.

Un paio di lunedì prima si erano scambiati le auto perché quella di Elisa, una piccola utilitaria molto in là con gli anni, aveva iniziato a perdere olio e necessitava di una revisione, una commissione che Enrico si era incaricato di fare prendendo accordi con il suo meccanico ma che come al solito per un motivo o per un altro non aveva portato a termine.

Una dimenticanza? Non lo sapeva nemmeno lui. Aveva saltato l'appuntamento e come al solito rimandato al giorno seguente e al giorno dopo ancora. In quel periodo non stava molto bene, iniziava ad avere forti mal di testa improvvisi e l'umore ne aveva risentito parecchio.
Ormai il problema dell'auto non era più suo e nel mentre tentava di mettersi il cuore in pace, girò la chiave e partì.

Prima tappa distributore di benzina e poi bar, per un accendino e un sacchetto di patatine.
Il sole stava per tramontare e il viaggio, almeno all'andata, si prospettava tranquillo.
Dopo circa cento chilometri e una marea di briciole sul sedile passeggero, gli arrivò una chiamata.
– Enrico sei partito?
– Sì Nico, sono già in autostrada. Come sta Stefano?
– Come vuoi che stia, è vicino a sua madre che piange disperata, stiamo aspettando il prete.
– Non arriverò prima di domattina purtroppo. – Concluse e si rimise concentrato alla guida.

Nico era uno dei suoi amici d'infanzia.
Più di un amico, quasi un fratello.
Si somigliavano sia fisicamente che nel carattere, anche se tra i due Enrico era quello più alto e più coraggioso.

Figlio di due contadini e proprietario di alcuni appezzamenti di terreno intorno al paese, aveva perso i genitori da pochi anni senza dargli il piacere di diventare nonni, nonostante una ragazza di buona famiglia fosse interessata a lui.
Non era mai stato fidanzato ufficialmente, ebbe solo qualche rapporto superficiale senza impegnarsi mai veramente.

Quando Enrico gli parlò di Elisa e della decisione di andare a convivere, gli remò contro senza conoscerla per parecchio tempo, fin quando non si arrese, vista l'insistenza da parte dell'altro di raccontargli di come fosse speciale e sembrasse un segno del destino il loro incontro.

Erano ben ottocento i chilometri che Enrico doveva percorrere, avrebbe potuto prendere l'aereo ma per raggiungere il paesello dall'aeroporto, non avrebbe trovato né autobus né taxi per gli ultimi venti chilometri di stradina ripidissima che conduceva a casa sua.

Dopo circa quattro ore il sonno prese il sopravvento e per qualche secondo chiuse gli occhi, se ne accorse quando dopo aver imboccato un'intersezione dell'autostrada, l'auto era andata a finire sulle bande sonore.
Uno schiocco fortissimo all'interno dell'orecchio lo fece svegliare.

Era quasi mezzanotte ed Enrico pensò bene di fermarsi al primo autogrill per fare rifornimento.
Prese una bella boccata d'aria e di nicotina appoggiato alla portiera della sua auto mentre alla radio davano una canzone.
Era la loro canzone, quella del primo appuntamento. Elisa era la romantica fra i due e aveva deciso lei che quella sarebbe stata la colonna sonora del loro matrimonio. Peccato che lui, dopo 4 anni di convivenza, ancora non le avesse fatto la proposta.
Spense la sigaretta e rientrò in macchina, alla radio erano partite le notizie.

– Buonasera a tutti da Mezzanotte news, le notizie di oggi prima della mezzanotte.
La ragazza di 32 anni portata d'urgenza al Niguarda questo pomeriggio, dapprima in coma a causa dell'incidente avvenuto in viale Roma, purtroppo è deceduta poco fa.
Lo scontro delle due auto è avvenuto verso le ore 17.30 ora di punta. Distrutte entrambi, soprattutto l'utilitaria della donna. Il traffico in tilt.
Secondo quanto appreso da Milano Today non è escluso che la sua auto abbia avuto un guasto mentre era alla guida e abbia quindi innescato l'incidente.

Enrico sgranò gli occhi, in un solo istante tutti i sensi di colpa si presentarono ammassati l'uno sull'altro come fosse una pila di libri caduta da uno scaffale stracolmo.
Prese immediatamente il cellulare dal portaoggetti dell'auto per chiamarla.
Le mani gli tremavano, il cuore stava per uscirgli dal petto mentre con il pollice cercava il suo numero nel registro delle ultime chiamate.
– ..., ..., pronto...
Al suono della sua voce Enrico ebbe una forte fibrillazione.
– Elisa sei tu?
– Chi vuoi che sia, hai fatto il mio numero o sbaglio?– Disse con voce assonnata.
– Sì, sì, Elisa. Scusami se ti ho svegliata a quest'ora, ho pensato... niente scusami, anzi, volevo dirti che non sono andato via di casa, ma sono partito per...
–Sì Enrico ho sentito tutti i tuoi messaggi, stai tranquillo e fai buon viaggio.
Elisa non chiuse la telefonata ma la sua mano lasciò semplicemente la presa e si rigirò dall'altro lato del letto.
Dopo essere rimasto qualche secondo ancora con la chiamata aperta e dopo aver sentito nel silenzio il rumore del suo respiro, la paura di averla persa per sempre era adesso scomparsa.
Enrico reclinò il sedile guidatore e si addormentò all'istante.


Capitolo 2


Dalle bocchette dell'aria arrivò un gelo pungente che lo fece svegliare.
Enrico guardò l'ora e decise di riprendere il cammino.
Alle 6.00 del mattino era arrivato a valle, oltrepassato il boschetto ancora pianeggiante, mise in seconda ed iniziò la salita. Dopo qualche curva era già molto in alto, la strada era libera e riusciva a godere del panorama in pieno. Da un lato costeggiava la montagna e dall'altro la scarpata, non ricordava più la bellezza di quella veduta, infatti da quella altezza si vedeva tutta la vallata con le pale eoliche in funzione e i campi coltivati variopinti, con i loro colori nell'insieme gli ricordavano le coperte calde che sua nonna realizzava all'uncinetto e che facevano concorrenza alle migliori stoffe di patchwork in commercio.

I ciottoli dello sterrato sfrecciavano sotto le ruote che spesso perdevano presa.
Non ricordava che la stradina fosse così ardua da sembrare una Parigi Dakar e si ritenne fortunato che il periodo di neve fosse ancora lontano, dato che la sua auto, nonostante avesse la trazione posteriore e fosse in ottime condizioni, avrebbe potuto avere problemi senza le catene a bordo.

Stanco del viaggio si recò direttamente nella sua vecchia casa, ci aveva vissuto per poco perché si trasferì a Milano quando aveva appena compiuto undici anni. Non aveva sofferto molto la lontananza dai suoi compagni, infatti si era sempre tenuto in contatto aspettando ogni estate per rivederli.
Dopo la morte di suo padre aveva pensato di venderla, poi però con l'insistenza di Elisa aveva deciso di tenerla per le vacanze estive, considerando che una bella boccata di aria di montagna gli avrebbe giovato quando fossero andati più in là con gli anni.
Aveva lasciato una copia della chiave a Nico, uno dei suoi amici d'infanzia per alcuni tratti simile a lui, attualmente operaio specializzato volenteroso che si era proposto di occuparsene in sua assenza.
Superato l'ingresso del paese e passata la piazza,  fece attenzione a non strisciare i lati dell'auto tra i muri delle case così vicini che si affacciavano sulla strada. Riconobbe con nostalgia tutte le abitazioni, erano più piccole rispetto a quel che ricordava e anche meno colorate, tutte ammassate in un accrocchio senza un ordine preciso.
La piazzetta del belvedere davanti casa era rimasta la stessa, era una delle poche davvero suggestive, il pavimento in marmo chiaro secolare le dava un tono regale e la balaustra in ferro sottile provocava ancora in lui una sensazione di vertigine come da bambino. Parcheggiò su di essa ed entrò in casa.

Infilò la chiave nella serratura e aprì il portoncino d'ingresso che interamente fatto di legno massiccio si era gonfiato a tal punto che strisciò sulle piastrelle in cotto così pesantemente da lasciare un solco a mezzaluna.
Il viottolo stretto e le imposte chiuse, non lasciavano modo alla luce del mattino di entrare.
Nel buio mise una mano sul muro dove ricordava ci fosse l'interruttore per cercare di accendere la luce, ma non si accese.
Le pareti spesse erano fredde e umide al tatto e  nonostante Nico fosse già andato ad accendere i riscaldamenti la sera prima, sapendo del suo arrivo, la casa era ancora gelida.
A tentoni si avvicinò a un cassetto della cucina per prendere una torcia e scese giù i cinque gradini del piccolo scantinato in fondo alla stanza.
Trovato il pannello elettrico vide che era saltato uno stotz. Riposizionato nella posizione giusta e accesa la luce, si sdraiò sul divano in attesa che il boiler scaldasse l'acqua.
Il tempo di una doccia calda ed erano già le 8.00, si vestì con gli abiti adeguati ad un funerale e si avviò verso casa di Stefano.
Per arrivarci dovette passare dalla piazza centrale e vedendo il bar aperto si fermò giusto per comprare le sigarette che erano quasi finite.
Scostò la tendina di perline ed aprì la porta. Il bar era tristemente vuoto.
Saranno tutti a casa di Stefano, pensò.
L'odore impregnato delle assi di legno che rivestivano i muri, lo riportò indietro nel tempo.
Il vecchio Lucio con molti capelli in meno, non aveva cambiato una virgola in quel posto. Era lì, seduto dietro al bancone, dava le spalle alla porta, con la solita pezza in mano e con lo sguardo fisso sulla piccola televisione a tubo catodico. Dopo aver sentito il rumore provocato dalla porta distolse lo sguardo dalla TV: – Enrico? Caspita figliolo da quanto tempo!– Disse, appoggiandosi con tutte e due le braccia possenti e pelose sul piano.
–Mi hanno detto che sei diventato un bravo avvocato. Hai saputo eh? Ci vediamo dopo alla messa. – Le sue poche parole mentre mi consegnava ciò che gli avevo chiesto.

Lucio era il proprietario del bar del paese.
L'aveva ereditato da suo padre che a sua volta l'aveva ricevuto da suo nonno.
Il bar era tenuto bene e accoglieva sempre un gran numero di persone.

Era una persona all'apparenza mite, non si era mai sposato e non aveva avuto figli.
Da sempre prometteva che avrebbe lasciato il bar ad uno dei ragazzi che abitavano in paese e che considerava come figli suoi, quando un giorno sarebbe diventato vecchio e avrebbe dovuto lasciare il suo lavoro.
I bambini erano entusiasti di quella promessa e lo aiutavano volentieri nelle pulizie del bar pur di essere scelti, sfidandosi tra di loro a chi era il più meritevole.
Da ragazzi andavano pazzi per la saletta al suo interno, dove c'erano tre o quattro videogiochi e un solo flipper. Poi vi era una vecchia cabina telefonica con le porte a vetri oscurati di color fumo, che una volta chiuse, dava l'impressione di essere una macchina del tempo.
Nonostante gli schiamazzi Lucio non si era mai arrabbiato con loro, anzi cercava sempre di accontentarli.
Il bar era stato costruito appositamente sotto la base di alcune rovine del castello che a sua volta si ergeva in salita verso la zona più alta del paese.
Una volta non c'era la legge necessaria per dare tutela a valori come il patrimonio culturale ed artistico, quindi tirare su dei muri sfruttando le rovine era sembrata ai suoi avi una buona cosa.
A causa di ciò, d'estate era sempre fresco e d'inverno abbastanza caldo e accogliente.

Lucio conosceva tutti ed era a conoscenza di tutto. Quando qualcuno aveva bisogno di un favore o di un consiglio, si rivolgeva a lui che sapeva sempre trovare il modo di dare una mano.

Erano anni che Enrico non metteva piede in quel bar.

Dalla piazza si scorgevano in lontananza gruppi di persone in abito scuro come fossero piccoli gruppi di formiche operaie  brulicanti, intente a seguire i tracciati che conducono al cibo, cambiando anche spesso il percorso.
Avvicinandosi si poteva cogliere dal bisbiglio, che non si parlava d'altro che delle nuove elezioni.
Il padre di Stefano era il sindaco del piccolo comune da quindici anni. Lo stimavano tutti. Il paese aveva prosperato nell'ultimo periodo grazie a lui.
Era una bravissima persona. D'altronde si dice così quando vi è una dipartita improvvisa. Ovviamente il paese non poteva rimanere sprovvisto di un capo e quel capo doveva essere eletto al più presto.

Enrico dopo una breve passeggiata, era arrivato quasi sulla soglia di casa di Stefano.
Su piccole seggiole impagliate, due signore anziane con il velo a lutto sul capo, presenziavano come milizie ai lati della porta aperta.

– Ora pro nobis – Continuavano a ripetere.
Enrico scostò la tenda traforata di pizzo ed entrò.
Il tanfo di aria viziata misto al profumo dei fiori delle ceste, lo travolse e gli diede allo stomaco da provocargli quasi un conato.
Appena visto, Nico gli andò incontro.
– Grazie Enrico di essere venuto.
– Condoglianze.
Enrico si avvicinò a Stefano, salutò la madre e dopo i soliti convenevoli si dileguò volentieri e in fretta fuori. Nico lo seguì.
– Hai da accendere Enrico?– Disse con la sigaretta in bocca tastandosi ogni parte della giacca. –
– Purtroppo sì.– Tirò fuori l'accendino dalla tasca. – Cosa volevi dirmi al telefono ieri?
– Ascolta, non potevo parlare, ero con Stefano e all'inizio non voleva farlo sapere in giro, ma come tu ben sai, qui in paese sanno tutto di tutti. Hai fatto bene ad andare via tu.– Iniziò Nico tirando una grande boccata di fumo. – L'hanno trovato impiccato in campagna. Pendeva dal melo della "Patanara".

Capitolo 3


Enrico rimase qualche istante senza proferire parola.
D'istinto si portò una mano alla testa tenendola per un istante tra i riccioli, le parole pronunciate dall'amico avevano un peso difficile da sopportare.
Il pensiero andò a suo nonno che aveva lasciato questo mondo nello stesso identico modo quindici anni prima.
Le campane della chiesa lo destarono dai suoi pensieri con il loro suono improvviso.
Le persone che fino a un minuto prima erano in fermento si fermarono, presero tutte la via della chiesa seguendo il feretro appena uscito dalla casa di Stefano.
Durante la messa i mormorii non cessarono e al termine della solenne cerimonia, lentamente si ritirarono tutti nelle loro abitazioni.

Enrico si allontanò in fretta, non aveva né voglia né intenzione di salutare nessuno, sapendo che chiunque lo avesse riconosciuto lo avrebbe fermato e trattenuto per sapere chissà cosa della sua vita attuale.
Pensò ad Elisa sola a casa e la chiamò.
– ...,..., pronto...
– Eli come va? Stavo pensando di avviarmi oggi stesso, ormai il funerale c'è stato, proverò a dormire qualche ora e ripartirò in serata.
– Ok, fai come vuoi.
Credendo fosse ancora arrabbiata chiuse la telefonata senza dilungarsi.
Così si avviò su per la salita che conduceva verso casa mettendo alla prova sia i muscoli delle sue lunghe gambe, sia la capienza dei suoi polmoni.

Arrivato sulla piazzetta del belvedere davanti casa sua, si fermò per prendere fiato e si mise ad ammirare il vasto panorama, era sempre piacevole affacciarsi da quel punto del paese, soprattutto quando il sole toccava i tetti delle case sottostanti.
Era quasi mezzogiorno e i comignoli sbuffavano un fumo grigiastro che il vento portava al di là delle montagne, la visione gli fece pensare a quello che più gli mancava, il calore intimo familiare al momento del pranzo, con ottimi piatti pronti sulla tavola per essere gustati in compagnia.
Il vento stava aumentando.
Si staccò dalla ringhiera e si voltò tenendosi con una mano il bavero della giacca ben teso a coprirgli il fine collo.
Scorse dietro al busto di bronzo posizionato al centro della piazzetta, una bambina che lo osservava.
– E tu chi sei? – Chiese Enrico poco prima che una girandola di vento gli scombinasse i capelli.
La bambina corse via, infilandosi alla chetichella nella casetta adiacente alla sua.
Si sentì all'interno una voce di ammonimento.
Dalla piccola porticina, spostando la tendina che copriva l'ingresso, uscì una donna.
– Bentornato.
Enrico rimase fermo a due metri dall'uscio.
– Carolina?– Chiese, quasi sicuro di chi fosse.
– Vieni dentro che ti faccio un caffè.
Accomodatosi al tavolo da pranzo sotto sua indicazione, Enrico iniziò a fare domande.
– Avevo saputo del tuo trasferimento, come mai sei tornata.
– Mio marito si è ammalato due anni fa e ci ha lasciato nel giro di poco tempo. Ero ormai senza lavoro e senza soldi non potevamo mantenerci io e Sofia. Ho deciso di venire a vivere qui pochi mesi fa, nella casa che mia nonna mi ha lasciato, almeno la casa è nostra, riceviamo degli aiuti un po' da tutti e andiamo avanti.
– Non sei venuta in chiesa, almeno, non ti ho visto.
– No, ho la bambina a casa, in questi giorni non sta molto bene. Dovrebbe stare al caldo, ma ogni occasione è buona per sgattaiolare fuori.– Rispose mettendo la caffettiera sul fornello appena acceso.
–È una bella bambina, ti somiglia.
– Dimmi tu piuttosto, hai saputo?– Chiese inquieta.
–Se intendi parlare di quella vecchia e tetra storia, non sono dell'umore giusto. Ho altro a cui pensare e credo di partire questa sera stessa.
–Vedi che Nico ti ha fatto venire apposta. Non vuoi aiutarlo? Io non posso.
Sono una donna che ha avuto grazie a Dio una figlia femmina e non ho intenzione di averne altri. Fin quando Sofia non sarà madre non mi tocca la questione.
– E cosa potrei fare io? Perché si ostina a vivere qui? Posso capire Stefano che ha ancora la madre, ma lui...
– Lo sai perché. – Gli ricordò Carolina.
La caffettiera aveva smesso di gorgogliare, il profumo aveva inondato la cucina.

Enrico aveva male alla testa, tante, troppe cose gli impedivano di rimanere lucido. Diede la colpa al poco sonno mentre Carolina gli porse la tazzina.
La prese, guardò all'interno e girando il cucchiaino nel caffè, si perse nel vortice scuro che aveva creato.
Dopo poco salutò la sua vecchia amica e si diresse a casa sua.
Cosa avrebbe potuto fare per aiutare il suo amico?
Aprì la porta e pigiò l'interruttore.
Non funzionò.

Capitolo 4

Enrico entrò nella cucina, prese la torcia per rifare l'iter precedente, si diresse verso lo scantinato e nel mentre si accingeva a scendere il primo gradino, sentì una leggera spinta sul petto che lo fece indietreggiare di qualche passo.
Strabuzzò gli occhi più che poté, tentando di scorgere qualcosa di più del profilo degli scaffali appena illuminati ma senza riuscirvi.
Una sensazione strana lo pervase, nell'oscurità della piccola stanza non vi era nessuno, eppure...
Tornò sui suoi passi indietreggiando, prese al volo una sedia che era sistemata sotto il tavolo al centro della stanza e si mise fuori dalla porta di casa a fumare una sigaretta. Prese il cellulare e fece un messaggio vocale: – Nico, scusa se ti disturbo. È la seconda volta oggi che in casa salta la corrente. So che tu te ne intendi. Puoi venire a dare un'occhiata? Ti aspetto.

Enrico aveva appena schiacciato con il tacco della scarpa il mozzicone rimasto della sigaretta, quando vide sbucare dal viottolo Nico.
–È saltato anche stamattina, ma ha funzionato fin quando ero in casa.
– Hai per caso superato i chilowatt? È facile che scatti il contatore.
– Ma va, ho solo il frigorifero e la lavatrice e non l'ho messa ancora in funzione! Enrico non raccontò nulla della presenza sentita poco prima, si fece coraggio e precedendo Nico entrò in casa.
Prese la torcia che aveva lasciato sul tavolo da pranzo.

Il pannello elettrico aveva nuovamente lo stotz abbassato.
Uno alzò lo stotz, l'altro pigiò l'interruttore della luce che non si accese.
– Non so che dirti, è strano, non può essere che ci sia stato un cortocircuito, altrimenti sarebbe rimasto abbassato. Bisognerebbe controllare.
– Ehm...non importa, sinceramente sono già in partenza.
– Di già? – Nico era visibilmente dispiaciuto, si notava dai suoi occhi che all'improvviso si spensero. Contava molto sul suo aiuto, d'altronde anche da piccoli tutti si affidavano a lui, era quello che riusciva a trovare sempre una soluzione a tutti i tipi di problemi che si ponevano, ma quella volta Enrico sembrava più strano del solito.

In quel momento, grazie al sottile filo di luce naturale che entrava, qualcosa fuori dalla porta d'ingresso fece ombra in casa.
Si voltarono, era Stefano.
– Ragazzi cosa ci fate al buio.
– Lascia stare, non va la corrente. Rispose Enrico camminando verso la porta per uscire a salutarlo. – Come stai?– Gli chiese sincero.
– Male – Rispose l'amico strofinandosi un occhio con le dita, alzando di poco gli occhiali da vista dal bordo metallico. – Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, ma non volevo crederci.
– Purtroppo è la vita, toccherà a tutti.
– Non intendo quello Enrico...
– Di cosa vuoi parlare Stefano? Evitiamo discorsi imbarazzanti per favore. Che ne dite, andiamo a prenderci qualcosa al bar in ricordo di tuo padre?– Invitò Enrico.
Accettarono e tutti e tre insieme si diressero verso il bar.
Si sedettero ad uno dei tavolini ed ordinarono una birra a testa.
Nico ci si appoggiò con i gomiti, tenendo le mani dietro la testa con il mento incassato nel collo.
Quando Lucio portò le birre, prese una delle bottiglie dal vassoio prima che venissero posate sul tavolo e con enfasi esasperata disse: – Ed ecco ragazzi che ora tocca a me! Cavolo non posso crederci, ho solo trentacinque anni!
Sul suo volto cereo vi era stampato un sorriso sardonico.

Enrico accomodatosi sulla sedia, dopo aver allungato le gambe sotto al tavolo, piegò il busto in avanti e parlò a bassa voce: – Ragazzi ma veramente voi ci credete?
– Se facessimo due conti, tutto combacia. – Stefano gli rinfrescò la memoria.
– Hai dimenticato quando quella notte di quindici anni fa, all'alba delle nuove elezioni, sbirciando dalla finestra di casa di tuo nonno, sentimmo i capofamiglia che parlavano della profezia? È una legge, è scritto nero su bianco. Può saltare una generazione se non ci sono figli maschi. Mio padre è stato l'ultimo, prima di lui tuo nonno. Prima ancora il nonno di Carolina. Ora tocca a Nico. Fin quando sarà a capo del paese vivrà.

– E dopo? – Esclamò Enrico. – Dopo toccherà a me!
– Sai bene che se non vivi qui, sei esonerato dalla candidatura, devi tenere presente che non puoi legarti a nessuno, perché la persona a cui tu terrai, non vivrà a lungo.
– Non c'è una minima possibilità che a noi non capiti? – Chiese Nico con occhi stanchi.
– Potresti esimerti dalla candidatura? Chi l'ha detto che sei obbligato? – Disse Enrico prendendo le sue difese.

Stefano lo interruppe: – Se volessimo ragionare sulla questione, vi basti pensare che alla morte di tuo nonno Enrico, tuo padre volle andare via e purtroppo tua madre è venuta a mancare prematuramente. Se pensassimo a Carolina, nonostante lei è una donna, dopo essersi trasferita lontano da questo posto, una volta sposata è morto suo marito nel giro di poco.
Io non ci penso neanche, fin quando ho mia madre qui. Quando sarà, andrò via e cercherò di non legarmi a nessuno. – Stefano batté il pugno sul tavolo. – È una condizione imprescindibile.– Concluse.
– E se Nico decidesse di andare via? Potrebbe avere salva la vita.
– E fare cosa? Rimanere tutta la vita senza affetti? Preferisco vivere ancora pochi anni in compagnia, ci conosciamo tutti qui. Tu piuttosto sai bene che la tua donna rischia. Perché non la lasci? Deve vivere la sua vita.

Enrico sapeva bene quello di cui stavano parlando, pensava a lei costantemente e uno dei motivi per i quali non le aveva ancora chiesto di sposarlo, era proprio a causa di questa diceria. Si sentì in colpa per la sofferenza che le stava creando e si alzò di scatto, la sedia strisciò sul pavimento stridendo.
Notando su di lui tutti gli sguardi dei presenti attratti dal rumore, uscì fuori per prendere aria.
Si era fatto già buio. Quanto tempo aveva perso? Per schiarirsi un po' le idee, prese la stradina dietro il bar che conduceva alla parte più alta del paese.
Sulla sinistra le abitazioni, sulla destra il terreno fortemente in pendenza che portava ai campi, sembrava quasi un dirupo. In lontananza un albero di cui si vedeva solo la sagoma, si manteneva stranamente in equilibrio con le sue piccole radici. Era circondato da migliaia di minuscole lucine. Pensò fossero delle lucciole anche se per via della stagione sarebbe stato impossibile.
Il vento era aumentato.
Si accese una sigaretta e iniziò la salita.

Capitolo 5


Passo dopo passo, le gambe iniziavano a fargli male. Non era più abituato a fare così tanto esercizio.
Dopo l'università, la sua vita era basata principalmente sul lavoro di avvocato che aveva intrapreso grazie alle insistenze di suo padre. Solo negli ultimi tempi però iniziava ad apprezzarlo veramente.
Oberato di lavoro non aveva mai tempo di far altro, figurarsi di andare in palestra, dopotutto aveva la fortuna di avere un fisico asciutto senza fare alcuno sforzo.
Puntò con lo sguardo l'albero dalle mille luci e si mise in testa di raggiungerlo.

Dopo essersi ben chiuso la giacca, strinse le mani affusolate nelle tasche dei pantaloni e con la testa incassata nelle spalle, proseguì nel suo intento.
Nel salire, lo sguardo cadde sulle sue scarpe lucide, la destra oltre ad aver accusato già due pieghe nel cuoio, aveva il laccio sciolto. Erano nuove, gliele aveva comperate Elisa qualche mese prima, nell'evenienza di una occasione speciale che tuttavia non si era ancora presentata.
Si chinò per legarlo e nel mentre, vide al lato esterno del suo piede una moneta.
La raccolse e girandola da un lato e dall'altro nel palmo, si rese conto di non averla mai vista, pensò fosse molto antica, così la mise in tasca.
Continuando per la via, lo stomaco iniziò a gorgogliare.
Aveva dimenticato di pranzare e dopo due birre la testa era decisamente annebbiata, come la leggera condensa che aleggiava per la strada.
Mentre il freddo iniziava ad infiltrasi nelle ossa e le parti del suo corpo esposte gli ricordavano di essere vestito in modo inadeguato, i passi si facevano sempre più pesanti da costringerlo a rallentare l'andatura.
A pochi metri dal punto prefissato notò un piccolo caseggiato di pietra che non ricordava ci fosse mai stato.
La luce era accesa e una dolce voce arrivò alle sue orecchie.
Una donna affaccendata, con una cesta di paglia sotto al braccio, stava ritirando i panni stesi mentre intonava una melodia.
Gli rivolse lo sguardo e la parola al suo passaggio, salutando educatamente:
– Buonasera bel giovane, come mai da queste parti?
– Salve, sono Enrico il figlio di Vittorio, non vengo da qualche anno qui in paese.
Si era appena fermato davanti a lei che convenne di non conoscerla.
Pensò fosse nuova del paese e si vergognò di aver fatto una magra figura essendosi presentato alla vecchia maniera.

Poteva avere circa una trentina d'anni, forse sua coetanea.
Grazie alla luce proveniente dell'abitazione, il profilo del suo corpo era ben illuminato.
Una massa di capelli lunghi e scuri legati appena da un lato con un semplice fermaglio aveva incorniciato il suo viso liscio di color ambra. Un piccolo neo sulla guancia sinistra fissava con precisione una beltà assoluta.
Enrico, rapito dallo sguardo dolce e intenso della donna, non riusciva anche volendo a spostare un piede avanti l'altro per proseguire il suo cammino.
– Cosa fai Enrico, vuoi entrare?– Gli chiese con voce suadente.
Enrico dapprima immobile, udite quelle parole riuscì ad uscire da quello stallo con facilità, quasi a sentire i suoi movimenti levitati.
Colse l'invito ed entrò in casa, catturato dalla gentile offerta.
L'ambiente apparentemente scarno di mobilio risultava ai suoi occhi un focolare accogliente.
Il camino posto al centro della grande e unica stanza ardeva di un fuoco ammaliante con il suo crepitio.
La tavola era apparecchiata per una sola persona e lei lo invitò ad accomodarsi.
– Avrai fame a quest'ora. È già pronto in tavola, sarai stanco.
Mentre la donna parlava, nella sua mente offuscata si componeva una musica senza senso, quelle parole che si insinuavano in maniera lenta, sembrava scandissero il tempo come il ticchettio delle lancette di un orologio con la batteria scarica.

Il vapore che saliva dalla pietanza calda emanava un profumo irresistibile che avvolgeva la sua testa in un morbido abbraccio.
Con gli occhi semichiusi e la testa leggermente inclinata su un lato, faceva fatica a rimanere sveglio.
Come un automa il suo corpo si muoveva d'impulso, si avvicinò con la sedia e mise le braccia piegate accostate al tavolo, allungò una mano per prendere il cucchiaio al lato del piatto.
Nonostante la vista e la mente fossero offuscate, si accorse che c'era qualcosa che non andava e aprì gli occhi più che poté.
Guardò prima il dorso e dopo il palmo girando entrambe le sue mani, erano grandi e piene di calli. Allungò svelto davanti a sé le braccia, indossavano maniche larghe fatte di stoffa bianca, forse di cotone, attaccate a una blusa, larga anch'essa, che copriva il suo busto.
Scattando in piedi con la poca forza che gli era rimasta batté le gambe sotto il tavolo ma ricadde all'istante sulla sedia, che sotto il suo peso, si inclinò all'indietro e cadde a terra facendolo finire sul pavimento.
Fara Candela
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