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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Sharif
Titolo: Sogno Vendetta
Genere Thriller
Lettori 3238 28 46
Sogno Vendetta
ALLA FINE DEI SOGNI... INIZIA L'INCUBO

ORE 12:00
L'assassino era in piedi di fronte alla finestra e guardava il campanile di una chiesa, ma in realtà guardava un vecchio ricordo; un ricordo che a sua volta sembrava guardarlo da laggiù, dai merli della torretta.
Dietro di lui c'era Silach, svenuto e ferito alla testa; braccia e gambe erano saldamente legate a una sedia con del nastro adesivo grigio. Come riprese i sensi, cercò subito di liberarsi, ma invano. Allora si guardò intorno, mezzo intontito.
La grappa di rose sul tavolo barocco gli arrivò dritto in bocca e la gustò tra la lingua e il palato. Il mouse del portatile aperto sulla scrivania in teak lo sentì nella mano, che si mosse per salvare un documento di testo. La pelle del divano Camaleonda, sul quale aveva passato la notte, gli riempì le narici, e solo allora realizzò di trovarsi nel proprio lussuoso salotto.
«Perché mi hai colpito?» Il sangue sgocciolò giù dal mento, una goccia per ogni parola. «Chi diavolo sei? Che vuoi?»
Tentò di strappare il nastro a morsi, ma senza riuscire nemmeno a sfiorarlo, e cadde di lato con tutta la sedia, urlando frustrato a denti stretti.
A quel punto l'assassino si volse verso di lui — indossava una maschera, la faccia di Lala, la Teletubbies gialla — e svelò la propria identità solo dopo averlo fissato per alcuni secondi, lasciandolo a bocca aperta.
Quegli occhi, non più dietro la maschera, sembravano però occhi di maschera, fissi nel vuoto, color di confine, tra il triste e lo spietato, il passato e il presente.
«Tu?!»
«E chi, se non io?»
«Ma perché?»
«Perché, mi chiedi?» Sopracciglia e labbra inarcate, l'assassino sembrò riflettere, ma sapeva fin troppo bene cosa dire. «Perché quando non puoi più vivere non ti resta che sognare. Ma quando non puoi più nemmeno sognare... non ti resta che questo.» Con deliberata lentezza, estrasse dal bomber nero un coltello da cuoco, lungo, pesante, con il manico rosso. «Non ti resta che uccidere.»
«Ma che razza di scherzo è questo?»
«Ti sembra uno scherzo?» Si avvicinò a Silach e si piegò sulle ginocchia; gli anfibi di pelle cigolarono. Poi, gli occhi socchiusi a scrutarlo dall'alto, gli punse la guancia con la punta della lama fredda. «A me sembra invece molto affilato.»
«Pauli! Carlsen! Uscite fuori. Non mi diverto affatto.»
Silach aveva capito subito che non si trattava di uno scherzo, ma non gli restava che quella speranza involontaria, e non gli riuscì più di tenere ferma la testa.
Gli oggetti che metteva a fuoco sparivano subito, neanche li riconosceva. Non vedeva che ricordi, veloci, uno dietro l'altro: gli anni dell'università sfilavano al posto della libreria ad angolo; il primo processo e tutta la sua carriera, al posto del piccolo martelletto in oro massiccio; le settimane di astinenza da nicotina, al posto del robot di pacchetti vuoti di sigarette.
Fu così per ogni cambio di sguardo, ma poi tutto si condensò in un pensiero: allora è vero che... prima di morire la vita ti passa tutta davanti agli occhi.
«Credi davvero che si siano nascosti? Sì, in qualche modo hai ragione, si sono nascosti... proprio come te.» L'assassino tirò su Silach. «Ma il problema è che nessuno di loro verrà a salvarti. Come non sono venuti a salvare me.»
«Salvarti?! E come? Sei tu che...»
«Con un atto di coraggio, ecco come.» Faccia bassa e desolata, si girò a guardare di nuovo il campanile della chiesa, quel vecchio ricordo che lo guardava a sua volta. «Un piccolo... semplice atto d'amicizia.»
«Stai delirando.» Assieme al sangue, adesso gocciolavano anche le lacrime, ma queste non si potevano contare. «Non stai bene.»
«Tu invece stai bene?» Rabbioso, l'assassino si volse verso Silach. «Riesci a dormire la notte?»
«Non sei in te! Saranno i farmaci. Nella flebo c'erano anche...» Silach si interruppe, perché l'assassino era balzato alle sue spalle.
Gli afferrò quindi i capelli, li tirò forte e accostò la lama al collo ben disteso, come se impugnasse un violoncello, ma poi lo fissò in un momento d'esitazione, e un brillantino di commozione balenò in quegli occhi al limite.
«Ti prego, non farlo!» implorò Silach come un ventriloquo, solo che lui sembrava il pupazzo.
Di nuovo un'altra speranza senza speranza, e infatti, come fece per dire altro, la lama corse sul collo, da giugulare a giugulare, come l'archetto, da corda a corda.
Poi, mentre la gola gorgogliava, tra lacrime e sangue, l'assassino cacciò una spina dalla tasca, tagliata da un elettrodomestico a caso, e gliela ficcò in bocca.


ORE 15:30
«Alla fine dei sogni... inizia l'incubo» gracchiò Zrael. «Lo sapevi, Shane? Hihihi.»
«Quello che so è che mangerò la tua regina» risposi, gli occhi fissi sulla scacchiera di cristallo.
Ci trovavamo sulla cima di un'altissima torre bianca, all'angolo di una scacchiera chilometrica, anch'essa di cristallo.
Le fiamme ci circondavano, pure il cielo bruciava, ma quella tempesta rovente s'infrangeva contro l'invisibile cupolone che ci separava da tutto il resto.
Violoncelli orientali accompagnavano la nostra partita. Stavolta, la musica l'aveva scelta lui, e quando la sceglieva lui era sempre troppo malinconica.
«Certo che la mangerai.» Prima trasportate da un serio respirone, le parole uscirono poi da labbra irridenti. «È un sacrificio troppo ghiotto per non accettarlo. Ma perderai la partita, come sempre.»
«No, questa volta ti farò scacco matto.»
«E credi, così facendo... di non perdere? Hihihi.»
Tolsi lo sguardo dalla scacchiera e fissai quei suoi occhi diabolici, rossi dall'inferno; quel suo ghigno pungente, uno squarcio nel buio; e quella sua faccia pallida, una macchia di vitiligine sulla notte, immersa in un cappuccio tenebroso; tenebroso come tutto il resto del corpo. Zrael era infatti tutt'ombra, evanescente, sinuosa.
«A proposito di regine, come sta Erin?» Smise di sogghignare, lo fecero le sue parole.
Lo mandai a fanculo senza rispondere, lo fece il mio sguardo.
«Prima o poi, tua moglie morirà. E tu resterai da solo. Hihihi.»
«Credi che non lo sappia?» urlai.
«Hai mai pensato che, invece, potrebbe risvegliarsi?»
«Ci penso continuamente.» E in effetti pensavo a lei, all'ospedale, al suo infelice stato. «Ma non posso farci niente. Non posso proteggerla né dalla morte né... dalla vita.»
I suoi occhi rossi si assottigliarono, ridendo assieme alle guance gonfie. «E che cosa le dirai qualora si ridestasse?»
«La verità» risposi distratto, tanto che sembrò una domanda.
Il mio sguardo si perse oltre Zrael, un fastidioso ostacolo sfocato. Il mastodontico schieramento di scacchi neri alle sue spalle pareva un esercito di Moai arrivati direttamente dall'isola di Pasqua, ma questi erano cento volte più grandi, in diamante nero e perfettamente intagliati. Il cavallo, il mio preferito, era fantastico. Era su due zampe, imbizzarrito; un suo zoccolo avrebbe potuto schiacciare un palazzo di dieci piani. La criniera poderosa era uno tsunami di tenebre. Gli occhi urlavano al cielo. Le fauci spalancate volevano mangiarselo tutto.
Senza volerlo, i miei occhi rimisero a fuoco il fastidioso ostacolo, e tornai in me. «La verità. Non potrei dirle altro che... la verità.»
«Ma gliel'hai già detta. E non le è piaciuta per nulla... la verità. Hihihi.» Le sue risa scricchiolarono a lungo. «Vuoi che ti consigli una bugia da dirle?»
Lo ignorai e afferrai la mia regina, quella nera, pronto a mangiare la sua, ma mi arrestai. Era un giocatore troppo scaltro per commettere un simile errore. Si trattava sicuramente di una trappola, ma non riuscivo a vederla.
Il fuoco s'inferocì, crepitava sul gigantesco lucernario ricurvo come per sfondarlo. Pareva di essere sul Sole, dentro un grande globo di vetro.
«Oppure preferisci che dica una bugia a te?»
«Stai parlando a vanvera, Zrael, come sempre. Fatti i cazzi tuoi e limitati a giocare, ok?»
Invece continuò a punzecchiarmi. «Potresti portarla via, lontano da tutti e da tutto, e cercare di convincerla che vostra figlia Elodie non sia mai esistita. Oh, scusa, l'hai già fatto. Hihihi.»
«Smettila! Perché vuoi farmi incazzare?»
«Oppure potresti cancellarle la memoria. Ops, hai già fatto anche questo. Hihihi.»
Riabbassai lo sguardo sulla partita, masticando duro, ma lui rincarò la dose.
«Il vero problema, però, è che le tue bugie funzionano solo qui. Fuori non funzioneranno. Non hanno mai funzionato.»
«Ma che cos'hai oggi? Ti sei svegliato male?»
«Credi che io dorma?»
«Non me ne frega niente se dormi o no! Gioca e non rompere.»
«Povero amico mio. Sai qual è la verità?» Il suo ghigno si allargò cigolando. «La verità è che tu desideri, più di qualunque altra cosa... che Erin non si svegli mai. Speri con tutto il cuore che non si alzi mai da quel letto d'ospedale.» Sorrise di più. Le parole gli friggevano in bocca. «Non è mica una bella cosa da sperare.»
«Questa sarà la nostra ultima partita, poi ti manderò a fanculo per sempre, povero amico mio.»
Tornai a concentrarmi sulla scacchiera, ma in realtà pensavo alle sue parole.
«Pensaci, sì, bravo. Ma non ora. Ora... devi svegliarti, Shane!» E mi mollò uno sberlone. «Svegliati!»
«Come cazzo ti sei permesso?»
«Hihihi. Non sono stato mica io a colpirti.» Ma mi rifilò un altro schiaffone. «Svegliati!»
«Come sarebbe a dire che non sei stato tu?»
Scattai in piedi, pronto a rovesciargli addosso l'intera scacchiera, ma mi trattenni: non avevo mai vinto contro di lui, e non potevo certo buttare all'aria una partita così promettente.
«Non provare a toccarmi mai più, brutto demonio!»
«Hihihi. Svegliati, tossico puzzolente!»


ORE 16:00
Mi presi un altro ceffone e a quel punto mi risvegliai, sdraiato sul mio lettino portatile.
«Finalmente ce l'hai fatta!» Pauli mi diede un'altra sberla.
Fui in grado di parlare solo dopo essermi schiarito la voce più volte. «Mettiti quelle mani in culo. Toccami di nuovo e finisci su questo lettino.»
«Diamine! Siamo qui da almeno due ore! Ho dovuto staccarti quella dannata flebo per svegliarti.»
Fissò disgustato la pozzanghera di pipì sul pavimento; pipì che gocciolava sia dal lettino sia da una gamba del mio pigiama.
Poi, con le braccia larghe e un paio di smorfie, si guardò intorno: nel garage, oltre a un mucchio di cianfrusaglie lasciate dal precedente affittuario, c'erano solo il lettino, un grosso comò tarlato accanto a un frigorifero chiazzato di ruggine, un lavandino lurido sotto uno specchio opaco e crepato di traverso, e un fetente bagno chimico.
Non c'erano finestre, ovviamente, solo pareti grigie; e l'aria, viziata, sembrava avere lo stesso colore.
Pareva un grande loculo, ma in disordine e senza fiori.
«Perché vivi in un garage, Shane?»
«Per vedere chi si fa i cazzi i suoi. E tu non sei uno di quelli.»
«Ma come hai fatto a ridurti così? Nemmeno un barbone vivrebbe qui dentro.»
Non era dispiaciuto del mio degrado, anzi, era ben contento di potermelo sbattere in faccia, così lo ignorai e mi misi a sedere sul lettino.
Ahi. Avevo la schiena a pezzi, non stava in posizione eretta da parecchio tempo.
«Che giorno è?» chiesi.
«È giovedì.»
«Che data? Che mese?»
«Che mese?!» Mi guardò allibito. «Come sarebbe a dire che mese? È giovedì 4 maggio. Ma da quant'è che dormi?»
«Non sai proprio farteli i cazzi tuoi, eh? Dove diavolo è Darren?»
«Si sarà stufato di cambiarti il pannolone e di pulirti quell'uccellino che hai in mezzo alle gambe.»
«Si sarà pure stufato, ma è pagato per fare quello che fa. A te, invece, chi ti paga per essere così coglione?»
Avvicinò la sua faccia alla mia, come un cane che fiuta, e tirò fuori la lingua, schifato dalla mia fiatella.
Fui di nuovo costretto a schiarirmi la voce, non parlavo da parecchio tempo. «Vuoi un bacio, bellezza?»
«Un cesso puzza di meno.»
«Ma una merda, no.» La mano a coppa, alitai contro un palmo. «Adesso dimmi che vuoi. Perché mi hai svegliato?»
Urlò un respirone impaurito. «Silach è... Silach è morto.»
«Bene. Ora che me l'hai detto, puoi tornartene a fanculo da dove sei arrivato. Ma torna pure a trovarmi, se vuoi. Torna quando muori anche tu.»
Gli sorrisi velenoso, ma lui si allisciò quella sua ridicola frangetta castana spalmata sulla fronte e si coprì gli occhi. Cercava di tenerli fermi con le dita, come un compasso che si apre e si chiude, ma sbattevano anche da chiusi; come la bocca, che si muoveva anche senza parlare.
«È stato ucciso, Shane... Verso mezzogiorno, nemmeno quattro ore fa.» Era più preoccupato che triste. «Datti una ripulita. Ci incontriamo tutti allo Spirito tra un'ora. Carlsen è qui fuori, ti porta lui. Te la dai una ripulita, vero?»
Stavo per mandarlo a fanculo di nuovo, ma mi limitai a fissarlo con gli occhi socchiusi.
Basso e con le spalle troppo larghe, pareva il mostro del mostro di Frankenstein. La fronte era infatti un'accozzaglia di bozzi e il naso sembrava più schiacciato, come se si fosse preso un cazzottone ogni giorno per tutta la vita. Era più antipatico di quanto ricordassi. Lo avevo sempre odiato.
Avrei tanto voluto ridargli qualche schiaffone, non mi piaceva avere debiti, ma la situazione imponeva un certo contegno. In verità, però, malmesso com'ero, se fossimo venuti alle mani, avrebbe avuto facilmente la meglio.
Risentito per il mio silenzio, buttò le mani in avanti, come per lanciare un pallone da basket, e se ne andò.
Io scesi dal lettino solo dopo una decina di minuti, e caddi a terra, non muovevo le gambe da... cinque settimane esatte.
Dopo ogni risveglio, mi ci voleva sempre un po' di tempo per ricordarmi che il corpo pesa, che le cose sono dure, che i giorni... sono macigni che rotolano giù, e non li puoi fermare.
La realtà è così reale da esserlo davvero, aveva detto Erin una volta. Ma te ne accorgi solo dopo che sei caduta.
Che brutta faccia! Davanti allo specchio, quasi non mi ero riconosciuto. Passi la barba lunga, ma avevo più rughe e meno capelli di quanti ne avevo nei sogni; la mia stempiatura aveva preso il largo. Gli occhi non erano verdi, come avrei sempre voluto averli, ma marroni, come lo erano sempre stati, solo più sbiaditi. Ero decisamente più brutto; il mio artefatto fascino onirico, adesso, di fronte a me, non era che una faccia floscia, che cadeva lentamente. Un vecchio che invecchiava, così mi sentivo. Il problema è che non avevo nemmeno cinquant'anni.
Amen. Piangere di fronte a me stesso non mi avrebbe certo reso più bello né più giovane.
Inoltre, non avevo tempo da perdere: dovevo tornare a nanna prima possibile, dovevo tornare da Erin, mia moglie.
Attaccai quindi la pompa al lavandino, feci una doccia fredda e mi vestii. Tutto in dieci minuti.
Stavo per riabbassare la porta del garage e uscire, e invece rimasi a fissare la maschera sul comò: Lala, la Teletubbies gialla, la preferita di mia figlia, e non potei non pensare a lei.
Ma la mia bambina non c'era più, così me ne andai anch'io, e raggiunsi l'auto dell'altro coglione, Carlsen.


ORE 16:30
Fuori dall'auto, soltanto nebbia. Il mondo sembrava una galleria con l'uscita sempre più in là, sempre dopo.
Immersi in quell'umidità, il sole era una luna diurna che nessuno avrebbe visto, e il pomeriggio, solo una sfumatura tra un grigio e l'altro.
Oltre ai continui sorpassi della polizia, dei pompieri e delle ambulanze a sirene spiegate, non si riusciva a vedere nient'altro.
Carlsen andava così piano che sarebbe arrivato in ritardo anche con una macchina del tempo.
Guidava con la testa bassa, come sotto l'ipotenusa di una mansarda, e non smetteva di pulirsi le unghie con le unghie, lanciando a caso le palline di sporco accumulato.
Che fastidio. Non si era mai tolto quello schifo di vizio.
Come se non bastasse, la macchina puzzava di... bara appena aperta, ecco. Sì, era proprio quel tanfo che avevo sentito in quell'unico giorno di lavoro al cimitero; o meglio, in quell'unico giorno di lavoro, punto.
Due settimane d'incendi in tutto il mondo. A parlare era la voce femminile di una radio locale. Le foreste e i boschi attorno alla nostra città, nonostante i tempestivi interventi, sono stati colpiti anche loro: siamo circondati dalle fiamme.
Adesso mi era chiaro il perché di quell'andirivieni di sirene. E mi era chiaro anche il motivo per cui i sogni erano in fiamme: il mondo bruciava e gli uomini sognavano il fuoco.
Ma non finiva lì. Infatti, a detta della radio, stupidi piromani di ogni nazionalità avevano iniziato a bruciare auto, case, alberi, negozi e ogni altra cosa capitasse loro a tiro.
Molto probabilmente si trattava di alcuni di coloro che sognavano il fuoco: un grottesco circolo vizioso, e tutto il mondo era in stato di emergenza.
Carlsen cambiò stazione radio, nonostante il mio palese interesse. Cinque settimane prima, infatti, quando mi ero addormentato, lo avevo fatto in un mondo normale; o meglio, non in fiamme.
Gli lanciai quindi un'occhiataccia, ma non lo si poteva guardare. Era più pallido di me, che prendevo il sole meno di un vampiro. Anche le labbra erano più screpolate delle mie; un lebbroso ne avrebbe avuto pietà.
Sembrava uno zombi, forse uscito dalla bara di prima. Ecco perché stava così curvo; ecco perché i suoi occhi azzurri erano così cadaverici, e i suoi capelli castani, così unti.
Riusciva a essere ipocrita pure in silenzio. Avevo sempre odiato anche lui.
Sentendosi osservato, si volse verso di me, come se avesse il torcicollo, e indicò le mie mani. «Come mai hai un filo al posto della fede?»
Mi fissai l'anulare per alcuni secondi, sorpreso. «È come farsi un nodo al fazzoletto. Lo fai per ricordarti qualcosa. È una cosa che si faceva una volta. Erin... lo faceva spesso.»
«E tu che cosa dovresti ricordare?»
Bella domanda! Non ricordavo affatto di averlo messo, né quando né perché. Quella domanda, però, significava altro: cosa devi ricordare, tu, se dormi sempre?
«Devo ricordarmi... di non salire più in macchina di un coglione.»
Ci fissammo per alcuni istanti, poi, senza più niente da dirci, dopo circa un quarto d'ora, arrivammo finalmente allo Spirito, uno schifoso bar frequentato sia da quei ricconi che fanno finta di non esserlo, sia da quei poveracci che si comportano al contrario.
Mi facevano pena entrambi i gruppi, ma i primi un po' di più.
Fuori dalla porta, come ci vide, Pauli sgridò entrambi, manco fossimo due ragazzini.
«Ma come ti sei vestito, Shane? Jeans e camperos?! Pensi di essere a un rodeo? E quel giubbotto da montanaro? Ti sei accorto che i risvolti sono giallo piscio, invece che bianchi? Se pensi di presentarti così al funerale di Silach, quant'è vero Iddio che ti butto fuori dalla chiesa a calci. Perché l'hai fatto venire così, Carlsen?»
«Non è mica mio figlio» rispose lui seccato, non tanto da quel rimprovero, ma perché mi stava a fianco.
«Non potevi farti almeno la barba? Sembri un tossico, diamine!»
«Ma ti sei visto, cazzo?» Cercai un difetto nel suo abbigliamento, non ne aveva: lo smoking blu, il soprabito grigio e le Gucci a punta erano impeccabili. Ma a me faceva schifo quel look, e comunque dovevo controbattere. «Un tossico preferirebbe morire per overdose, piuttosto che vestirsi come te.»
Entrai. I due imbecilli entrarono invece dopo un paio di minuti, per non farsi vedere con me. Ci sistemammo nella sala fumatori, illuminata a zona da lampade basse, piene di polvere e ragnatele. I tavolini erano tutti uguali, vecchi e uno più schifoso dell'altro: una tavola di legno rivettata e quattro gambe di alluminio cave e traballanti. Le poltroncine erano anche peggio, tanto scomode e inconsistenti che neanche all'Ikea avrebbero avuto il coraggio di vendertele. In sottofondo, un jazz lento.
Oltre a noi, c'era poca gente seduta ai tavoli: una donna e un uomo troppo eleganti anche per un matrimonio, che si parlavano appena; tre uomini abbronzatissimi in tuta da sci, che neanche si guardavano; due giovani ragazze emo, che non smettevano di ridere. Infine, c'era uno smidollato con la sigaretta elettronica che si era impossessato del jukebox.
Ricarda, la moglie di Carlsen, era andata a prendere Marga all'aeroporto, e a breve ci avrebbero raggiunti.
Nell'attesa, ci perdemmo ognuno nei fatti propri, fra whisky e grappa gialla.
Carlsen era ipnotizzato di fronte al telefonino.
Pauli sospirava rumorosamente, fisso nel vuoto.
Io mi ero messo a fumare di fronte alla finestra, un rettangolo di cenere bagnata.
Non mi dispiaceva affatto per la morte di Silach. Non eravamo mai stati amici, non ero mai stato amico di nessuno di loro, e non li vedevo da due anni. Tutti loro facevano parte del gruppo dei primi.
Ci sono morti che ti mancano per sempre. Tanti vivi, invece, non vedi l'ora che spariscano una volta per tutte.
Io, per loro e per tutto il resto dell'umanità, ero uno di quei vivi, ed era una cosa reciproca.
Finalmente, dopo quasi mezz'ora, arrivarono Ricarda e Marga. Ci sedemmo tutti.
Per un po' nessuno parlò, come un minuto di silenzio per il morto, tra brevi sguardi reciproci.
Marga, invece, con un fazzolettino premuto contro il nasino perfetto, lanciava i suoi occhi egizi al pavimento, a sinistra e a destra.
«Chi può avere ucciso Silach?» attaccò Carlsen. «Conoscete qualcuno che ce l'aveva con lui?»
«Silach non aveva nemici, non ne ha mai avuti.» Pauli mi lanciò una smorfia disgustata. «Lui era davvero una brava persona. Qui, l'unico pezzo di merda sei tu, Shane. Lo sappiamo tutti chi eri, prima di diventare la bella addormentata nel bosco. Non è che c'entri qualcosa? Scommetto che sai chi l'ha sgozzato e perché.»
«Vai a fanculo!» Mi scolai un bicchierino di grappa e ne riempii subito un altro. «Prova a ripeterlo, e di sgozzati ce ne saranno due.»
Non sospettava davvero di me e sapeva bene che non c'entravo niente, gli dava semplicemente fastidio la mia presenza. Ma allora perché mi aveva svegliato?
«I bambini hanno finito?» Ricarda allargò in un sorriso la sua irritante bocca di pesce all'amo. Io e Pauli distogliemmo lo sguardo l'uno dall'altro. «Bene. Ora proviamo a comportarci tutti da persone civili. Non potrebbe semplicemente trattarsi di una rapina finita male?»
«Una rapina finita male?!» sbottò Pauli. «Ma se non hanno rubato nulla. E poi ti sfugge un piccolissimo dettaglio, Ricarda: dove diavolo è Luison? Perché il suo telefonino è spento? Diamine! Ti sembra un caso? Perché fai finta di niente?»
«Non faccio finta di niente. A differenza tua, io cerco di ragionare.»
Wow! Ero sveglio solo da un'ora e i colpi di scena si susseguivano serrati: Silach ucciso e Luison scomparso; senza dimenticare il mondo a fuoco e gli stupidi piromani di ogni nazionalità.
«Qual è la tua idea?» Sforzai un atteggiamento pacifico, ma niente, Pauli non mi sopportava, come non lo sopportavo io.
«E la tua qual è, genio? È chiaro, qualcuno ci sta uccidendo uno alla volta.»
«Ehi, adesso non facciamoci prendere dalla paranoia» suggerì Ricarda. «Capita spesso che Luison prenda e si faccia un giro nei boschi.»
«Boschi?!» Pauli diede una manata sul tavolino.
Le due emo cessarono di ridere. I due elegantoni rimasero con il bicchiere di vino a mezz'aria. Gli sciatori smisero di non fare nulla. Lo smidollato fumò il vapore nella nostra direzione.
Per alcuni secondi, ci trovammo con i loro occhi tutti puntati su di noi.
«Hai detto boschi?!» continuò Pauli. «Ma se non c'è nemmeno un maledetto albero che non stia arrostendo! E comunque, non spegne mai il cellulare.»
«Magari non prende. Magari si è scaricata la batteria. Oppure, magari... Luison e Silach hanno litigato, e...»
«Parli sul serio, Ricarda? Luison che uccide Silach? Luison che uccide qualcuno? Ma non dire stupidaggini. Luison è morto, ci scommetto le palle. È stato ucciso anche lui.» Pauli ci guardò tutti con attenzione; a me, come se avesse voluto sputare a terra. «Ascoltatemi bene. Dobbiamo beccare quel bastardo che li ha uccisi, e ucciderlo prima che uccida anche noi.»
«Smettila di dire che Luison è morto» ordinò Ricarda, come una madre al suo bambino. «E smettila anche di dire che vogliono ucciderci tutti.»
«Tu invece smettila di pensare che sia tutto normale» contrordinò Pauli. «Tieni a bada tua moglie, Carlsen. O cerca di farla ragionare, diamine.»
Ricarda strinse denti e occhi, prima su Pauli, dopo sul marito, non intervenuto in sua difesa, e lo fissò promettendogli una severa scenata una volta tornati a casa. Uno dei suoi tanti tic le fece sbattere insistentemente le palpebre e le raggrinzì il naso a più riprese. Poi, dopo essersi attorcigliata uno dei riccioli biondi all'altezza della guancia, congiunse le mani e parlò indispettita.
«Non si è trattata di una rapina, ok. Luison e Silach non hanno litigato, ok. Ma potrebbe tranquillamente essere una questione che riguarda solo Silach. Oppure, se anche Luison è morto, come dici tu, che riguarda solo loro due.»
Prima di risponderle, Pauli fece un respirone. «Ascoltami. Sei libera di credere a tutto quello che vuoi, ma io non starò senza far niente sperando che tu abbia ragione. Anche tuo marito la pensa come me. Avanti, diglielo, Carlsen.»
Quest'ultimo annuì, e gli occhi della moglie confermarono e inasprirono la strigliata promessa.
Lo smidollato fece partire la merdosa canzone di un coglione di trapper che si lodava per i tanti soldi guadagnati. Una nauseante folata di vapore al gusto di cannella attraversò la nostra conversazione, e tutti noi guardammo di storto verso il jukebox.
«D'ora in poi, dobbiamo rimanere sempre insieme» continuò Pauli. «Tutti, pure tu, Rosaspina. E dobbiamo muoverci in fretta, altrimenti, di questo passo, finiremo tutti belli che stecchiti nel giro di due o tre giorni.»
«E cosa vorresti fare?» gli urlai sottovoce. «Tu sei un imprenditore, Carlsen lavora in borsa, Marga è una pittrice e Ricarda una blogger.»
«E tu un ghiro di merda!» Era stato ovviamente Pauli a continuare la mia lista.
«Sentimi bene, imbecille. Quello che voglio farti capire è che non potete fare proprio un bel niente.»
«Tu non puoi fare un bel niente. Non è quello che fai sempre?»
«Calmatevi, voi due» intervenne Carlsen, poco calmo. «Non siamo qui per litigare. Spero che Luison sia vivo, accidenti! Che non sia lui l'assassino e che sia davvero nei boschi. Ma per il momento lasciamolo perdere. Una cosa che possiamo fare c'è. Potremmo...» S'interruppe e mi fissò.
«Potremmo, che?» chiesi.
«Potremmo rivolgerci...» S'interruppe di nuovo, ma senza più fissarmi.
«Parla, cazzo!» Stavo esaurendo la pazienza. Non li reggevo proprio.
«Se ci affidiamo alla polizia, siamo spacciati» continuò Carlsen, grazie al cielo. «L'unica cosa che possono fare è sorvegliare le nostre abitazioni, ma solo per qualche giorno. Dopo, noi ci ritroveremo nella stessa identica situazione di adesso. Dobbiamo quindi rivolgerci a qualcuno che ci protegga e che al contempo cerchi il responsabile. Dobbiamo rivolgerci... alla malavita.»
«Malavita?! Ma come parli? Pensi di essere negli anni Venti?» Irritato, increspai un sorriso e li guardai male, come un necrologio di persone purtroppo ancora vive. «Adesso capisco: è solo per questo che mi avete svegliato.»
«No, Shane. Non è solo per questo. Sei qui perché sei in pericolo come tutti noi. Tu, però, sei anche l'unico...»
«L'unico che ha agganci con la malavita? È questo che stavi per dire? Andatevene tutti a fanculo!» Mi alzai incazzato. Di nuovo, tutti gli occhi si girarono verso di noi; o meglio, verso di me, ma li feci subito dileguare guardandone un paio alla volta. «Per voi, sono sempre stato soltanto un avanzo di galera.»
Pauli si alzò pure lui e mi si parò davanti, faccia a faccia. «Perché, non è quello che sei, Shane?»
Pensai di fracassargli una bottiglia sulla faccia, ma evitai di farlo, come prima al garage. Sveglio solo da poche ore, ero bello anchilosato, e me le sarei prese di santa ragione. Alzai quindi le mani, mostrando i palmi, e mi avviai all'uscita.
«Non svegliatemi più. Svegliatemi solo quando vi ammazzano tutti.»
«Aspetta!» Era stata Marga a chiamarmi, le sue prime parole. Mi ero quasi dimenticato che ci fosse.
Lei era l'unica per la quale sarei rimasto, l'unica di loro che non odiavo, ma andai via lo stesso: non avrei mai accettato di incontrarli se non avessi dovuto vedermi con Milko, e lui mi stava appunto aspettando fuori dal bar. Ne avevo quindi approfittato per sentire le loro cazzate e levarmeli dai piedi una volta per tutte. Ma anche per bermi qualche bicchierino e farlo pagare a loro.
Per quanto avessi rimandato il problema, era arrivato il momento di affrontarlo: ero al verde e Milko era la soluzione.
Non avevo paura di finire in mezzo alla strada come un barbone, avevo paura di dormire come le persone normali, qualche oretta al giorno.
Per me, invece, era imperativo dormire in modo continuato: dovevo stare con Erin, dovevo sognare.
Inoltre, senza di me, i sogni... funzionavano male.


ORE 18:00
La sera, sebbene appena iniziata, era già in fin di vita. Le mezze atmosfere avevano fatto la stessa fine delle mezze stagioni.
Era un mondo in nebbia e nero, i soli colori rimasti.
Degli altri, solo qualche fuggevole comparsata: come l'insegna del bar rosso elettrico alle mie spalle, il semaforo verde intermittente in mezzo alla strada o il lampione blu appannato che si accese al mio passaggio e che subito si spense.
Avvolto da quella spessa umidità, che sembrava aver inghiottito tutto il resto del mondo, attraversai il parcheggio senza nemmeno accorgermene. Salii in auto.
«Chi si rivede.» Milko mise in moto e partì.
«Come te la passi?»
«Meglio di te. Come mai sei sveglio?»
Rise ironico, e tutta la sua brutta faccia di iuta si raggrinzì intorno al naso storto e agli occhi scollegati; un pallone sgonfio che sembrava venisse preso a calci ogni volta che apriva bocca.
«Ma è vero che dormi per intere settimane? Da due anni? È vero che hai completamente perso la brocca?»
Stavo per mandarlo a fanculo, ma mi serviva il suo aiuto, così lasciai perdere. «Non ti ci mettere anche tu, per favore. Mi è già bastato l'aperitivo con quegli imbecilli.»
«Chi? I tuoi amici?»
«Non sono miei amici.»
«No, hai ragione. Noi non siamo tipi da averne... di amici.» Clacsonò guardando di storto il tizio che stava per attraversare la strada sulle strisce pedonali, e che imprecò contro di me quando lo superammo. «Eppure, il mese scorso prendo il cellulare e trovo delle chiamate di un vecchio amico. Si chiama Shane, lo conosci?»
«Piantala.»
«Sarà urgente, penso. Così lo richiamo, ma lui non risponde. Evidentemente la sveglia non era ancora suonata.»
«Neanche tu hai risposto, quindi siamo pari.» Mi accesi una sigaretta. «Ora parliamo di cose serie: mi serve una mano, e mi serve per davvero.»
«Lo so, altrimenti non mi avresti telefonato quindici volte. Ma prima o poi, si smette di fare certe cose.»
«Mi stai dicendo che hai smesso di fare il bricconcello e che sei diventato una persona perbene? Ma per favore.»
Abbassò tutto il mio finestrino; fumo e nebbia si abbracciarono dentro l'auto aleggiando sulla nostra conversazione.
«Infatti non parlavo di me. Ma di te.»
«Senti, finiscila. Mi servono dei soldi, Milko. Subito.»
«So anche questo. A quanto pare, per qualcuno, dormire non è più gratis. E sognare... gli costa addirittura di più.» Si guardò attorno con un ghigno. «Ti metterai nei guai. Non sei più quello di una volta.»
«Sì, invece» obiettai, ma poco convinto.
Mi guardò dalla testa ai piedi, per sottolineare la mia totale mancanza di forma e di vigore, nonché di eleganza.
Ma ce l'aveva uno specchio a casa? Potevo capire Pauli, ma lui sembrava vestito come un ottantenne in pensione da ottant'anni.
«Da quant'è che non ci vediamo, Shane?»
«Oh, cazzo. Hai sentito la mia mancanza, piccola? E tira su sto cazzo di finestrino, ho un orecchio congelato.»
Guardò la mia sigaretta: l'avrebbe abbassato solo se avessi smesso di fumare. Feci per spegnerla nel posacenere, ma lui lo coprì con una mano, e con la testa indicò il finestrino. Così la buttai fuori, o meglio, nel grigio nulla che ci circondava.
«C'è stato un periodo in cui ho avuto bisogno di te.»
«Bisogno di me?! Ma di che parli, Milko? In città è pieno di balordi disposti a fare di tutto per mettersi in tasca due spiccioli. E tu avevi bisogno di me? Ma falla finita.»
«Avevo bisogno di uno con un po' d'esperienza. Uno che non mandasse tutto a puttane, come invece è successo.»
«Saranno passati almeno quattro anni da quella storia. Io ero già fuori dal giro.»
«Certo. Trovi una bella moglie... ricca. Trovi dei begli amici, ricchi anche loro. E dopo un po', di punto in bianco, decidi di scordarti da dove arrivi.» Si girò verso di me, ma con gli occhi sulla strada. «Tu arrivi dalla fogna, amico. Come me. E anche se indossa una cinghia di coccodrillo, un giubbotto di cammello e una sciarpa di ermellino, un topo resta sempre un topo.»
Dura come cemento, la nebbia era attraversata da deboli striature granata; erano gli alberi ai lati della strada che salutavano infuocati.
Non si vedevano che pezzi di persone: gambe, braccia, schiene e cappotti, ognuno per i fatti propri; i volti galleggiavano in quel silenzioso oceano grigio e svanivano in fretta.
Passeggiavano indifferenti alla guerra, quella contro il fuoco, tra i lampeggianti e le sirene assordanti di polizia, pompieri e infermieri, che correvano da una parte all'altra della città, in tutte le città del mondo.
«Avrei dovuto lasciare quella vita molto tempo prima. Ma quando è nata Elodie... è cambiato tutto. Quando l'ho presa in braccio la prima volta...» Dovetti tacere alcuni istanti, o avrei pianto; ma anche per evitare di fare la figura del tenerone. «Tu che cosa avresti fatto al mio posto? Sentiamo.»
«La stessa cosa che hai fatto tu, ma con la differenza che, sì, l'avrei fatto molto tempo prima.» Rise beffardo. «Devo continuare a fare il duro, perché è di questo che si è innamorata Erin: non ti ricordi di avermelo detto, vero? Certo che no, eri ubriaco marcio. Inoltre, diversamente da te, avrei salutato tutti i vecchi amici, mi sarei ubriacato con loro un'ultima volta e, di tanto in tanto, avrei fatto qualche soffiata su quei benestanti dei tuoi amici, in modo che potessero spillargli qualche soldo.»
Scossi la testa, perché non erano miei amici e lui lo sapeva bene, voleva solo irritarmi.
«Cosa che invece non hai mai fatto. Sono in molti a esserci rimasti male.»
«Fammi questo favore, e giuro che rimedierò.»
Non ci pensavo per niente a rimediare. Non me ne fregava niente né di lui né degli altri del vecchio giro.
«Certo che te lo faccio. Credi che ti abbia richiamato solo per vedere la tua bella faccia? L'ho fatto non appena mi è arrivato il messaggio che il tuo telefonino era di nuovo raggiungibile.»
«Di che si tratta?»
«È un lavoretto facile, e tu sei l'uomo giusto: devi rubare un libro.»
«Un libro?! Stai scherzando?»
«È un'edizione quasi unica, introvabile: Il sonno e i sogni di Aristotele.»
«Mi prendi per il culo?»
«Sì, in effetti potrebbe sembrare, ma non è così.» Rise divertito, per l'ennesima volta, e io iniziavo a non sopportarlo più. «Conosco un tizio disposto a sganciare un sacco di grana per quel libro e io so chi ce l'ha. Ti do venti bigliettoni da cento.»
«Preferirei fare un passaggio di coca o di erba. Oppure... qualcos'altro.»
«O questo o niente. Senti, Shane, se ti sei rifatto vivo dopo tutto questo tempo, vuol dire che hai a malapena i soldi per le sigarette. Forse, neanche quelli. La vecchia, una certa Amita Sartre, è fuori città, ma rientra a casa domani. Il lavoro quindi va fatto subito, stanotte. È come... un segno del destino, non ti sembra? Ti sei svegliato appena in tempo. Allora, ci stai?»
Riflettei per un momento, grattandomi il collo. «E va bene, cazzo!»
Non avevo altra scelta. Aveva ragione lui: avevo a malapena i soldi per le sigarette. Forse, neanche quelli.
«Ascoltami bene: deve essere un lavoro pulito, e non deve sembrare un furto mirato. Dovrai quindi rubare altri libri e altre cose. Tutta roba che puoi tenerti. Io voglio solo il libro di Aristotele.»
Mi diede l'indirizzo e mi fornì alcuni dettagli, affinché rubassi la copia giusta, anziché una senza valore.
Poi fermò l'auto e ci salutammo, ma quando scesi si allungò sul lato passeggero e mi trattenne afferrandomi per il giubbotto.
«Aspetta un attimo. Non sei mai stato uno stupido, e non mi sembri nemmeno uscito fuori di testa. Hai un aspetto che fa schifo, sì, e puzzi di piscio agli asparagi, ma questi sono tutti cazzi tuoi. Dimmi una cosa però: come riesci a essere sempre cosciente nei sogni? Io non sono mai riuscito a fare sogni lucidi. Sì, ci sono riuscito una volta, ma solo per caso.»
«Non si tratta di sogni lucidi. Si tratta di... Senti, lascia stare. Non ho voglia di parlarne.»
«Facciamo così, allora: insegnami a fare sogni lucidi e ti do altri venti bigliettoni.»
Stavo per ripetergli che non si trattava di sogni lucidi, ma non sarebbe servito a niente, così sbattei la porta e me ne andai via, subito ingoiato dalla bruma: non avrebbe creduto a quello che avevo scoperto, nessuno lo aveva mai fatto.


ORE 19:00
Dopo aver lasciato Milko, ero andato al cimitero.
Soffocato dalla nebbia e dalla sua luce viscida, pareva un purgatorio di nostalgia creato per custodire una sola tomba, quella di mia figlia Elodie.
Inginocchiato davanti alla sua lapide, ne accarezzavo la foto fredda e bagnata.
Ero arrabbiato, perché aveva un volto serio, in bianco e nero. Sembrava lei dopo la morte, non prima, triste per essere morta.
Chissà chi era stato a sceglierla, non certo io ed Erin, all'epoca troppo infelici.
Doveva essere assolutamente cambiata; un proposito che, però, avevo sempre rimandato.
Mi guardai l'anello di filo: forse era di questo che dovevo ricordarmi. Strano però, perché oltre a non ricordarmi affatto di averlo messo al dito, era una cosa che non avevo mai fatto, tranne una volta, quando...
«Chi ricorderà i nostri ricordi?» domandò a un tratto una voce affranta alle mie spalle.
Per il sussulto, roteai malamente su una caviglia, quasi cadendo, e sterzai lo sguardo: era Marga, gli occhi spalancati fissi in quelli di mia figlia. Giacchetta con maniche velate, pantaloni attillati e tacchi dodici, tutta in nero, sembrava la versione moderna di una strega del mondo antico, ma afflitta per aver perso tutta la propria magia.
«Quando non ci saremo più, intendo.» La bocca piangeva al posto degli occhi; le parole, al posto delle lacrime. «Qualcuno ricorderà i nostri ricordi o andranno perduti per sempre?»
Cercai una risposta, ma non avevo capito niente delle sue parole, così continuò.
«Quando Elodie morì, non fu solo la fine della tua famiglia, fu la fine di una storia. Lei era figlia di tutti noi. Per lei ero una seconda madre.» In effetti, era la sua madrina. «Le nostre vite torneranno mai normali, Shane?»
«Quelle vite sono sepolte lì sotto, con lei.»
Annuì con un sospiro dal naso e posò un fiorellino sulla tomba. I capelli che non erano stati imbrigliati nella lunga coda di cavallo, spalmati sulle guance, parevano due mani nere che la consolavano accarezzandole il viso da dietro. «Sì, la morte uccide chi resta in vita: famiglie, amici... ricordi. Quindi non smetteremo mai di soffrire?»
«Forse, un giorno, tu ci riuscirai. Io invece non posso, Marga. Ricordarla e soffrire... per me sono la stessa cosa.»
Mi ero dimenticato di quanto la realtà potesse fare male. Lo dimenticavo sempre.
Nei sogni, invece, il dolore fa meno male.
Mi tirai su, arrugginito, di fianco a lei, rivolto anch'io verso la lapide.
Il custode in bicicletta pestò la ghiaia del vialetto. La campana suonò soltanto una volta, ma a lungo, ancora adesso. Qualche tomba più in là, una donna scoppiò a piangere; o forse era la nebbia, le cui goccioline non erano altro che lacrime.
«Lo sai cosa dicono tutti di te?»
«Sì, che sono impazzito.»
«Dicono che dormi sempre, attaccato a una flebo. E che sei convinto di andare... nel mondo dei sogni.»
«È la verità. Il mondo dei sogni esiste. E posso dimostrartelo, se vuoi. Devi solame...»
Mi afferrò delicatamente un polso, sempre rapita dal visino della sua figlioccia. «Non devi dimostrarmi niente. Anche se fosse vero, io voglio che i miei sogni... restino sogni.» Abbassò lo sguardo, gli occhi in ginocchio, le labbra in bilico. «Dicono anche che sei convinto di aver trovato Erin in quel mondo.»
«Mi ci è voluto molto, e non è stato facile, ma ci sono riuscito. Devi credermi: non sono sogni e basta. Quel mondo...»
«Siete felici?» Mi guardò per la prima volta, dal basso, come si guarda una scala buia che non vuoi salire.
Stavo per dirle di sì, però preferii la verità, anche se non mi credeva. «Non lo so. Ma lì, perlomeno, lei non ha mai perduto Elodie, non l'ha mai... conosciuta. Lì, non ha mai tentato il suicidio e non è su un letto d'ospedale. Non sa nemmeno di essere nel mondo dei sogni.»
Marga si accese una sigaretta, bruciandosi la punta di alcuni capelli che il vento aveva schiaffeggiato e spinto sulla fiamma.
«Se non stai attento, finirai per confondere sogno e realtà, passato e presente. E la tua vita... la tua vita diventerà un incubo. È arrivato il momento di aggiungere una tomba, Shane.» Ingoiò a stento, chiudendo... ingoiando gli occhi. «Lì... accanto a quella di tua figlia.»
Mi voltai per domandarle che diavolo intendesse con quelle parole, ma mi arrestai spaventato: aveva appiccicata in faccia della roba scura, che in parte colava.
Nonostante rimasi a bocca aperta, non riuscii però ad aprir bocca per alcuni secondi.
«Che cos'hai in faccia, Marga?» Sembrava neve, ma nera, e iniziò a cadere copiosa.
«Ma da quanto tempo è che dormi?»
Quella domanda fu l'unica risposta che diede, ma io non ne capii il significato, e non ebbi nemmeno il tempo di chiedere chiarimenti. Infatti, prima salutò Elodie lanciandole un bacio, poi si congedò abbassando un mento di compassione rivolto a me, e infine rientrò nella nebbia, uno slargo di silenzi, come un fantasma del cimitero.



2° GIORNO
ORE 00:00
«L'unica cosa che posso fare è chiederti scusa» disse Pauli, con una lacrima per ogni sillaba. «Anche volendo, non avrei potuto fare niente!»
«Avresti potuto, invece.» L'assassino distolse lo sguardo da un lontano campanile; nonostante la nebbia, lo si intravedeva grazie alla luce arancione che illuminava la campana e alle lucine rosse poste tra un merlo e l'altro della torretta. Poi si allontanò dalla finestra, si avvicinò a Pauli e prese a fissarlo con i soliti occhi sfumatura, tra il triste e lo spietato, il passato e il presente. «Anzi, avresti dovuto. Solo che... non hai voluto.»
Pauli era legato a una sedia con del nastro adesivo grigio, il sangue gli colava dalla testa. Era stato sorpreso a casa sua mentre recuperava il necessario da portarsi a casa di Carlsen e Ricarda, dove aveva deciso di passare la notte, ed era stato colpito con un tubo di ferro fino a svenire.
«La colpa non è nostra! Avremmo dovuto... festeggiare. Non questo. Non... questo.» Pauli singhiozzava epilettico. La testa palleggiava a scossoni, fissa sulla valigia: se non si fosse preoccupato di farla, forse non si sarebbe trovato in quella situazione.
Poi, come per Silach, mobilio e oggetti divennero un film di ricordi: le serate di poker al tavolo verde; le bestemmie e i mouse lanciati contro il muro dalla postazione gaming; i successi commerciali tra i faldoni sullo scaffale.
Fu così per ogni diversa inquadratura; ogni istante che passava era un istante di vita che era passato. Ma adesso niente aveva più valore, quel groviglio di oggetti e ricordi non era che l'anticamera della morte.
«Non ricordiamo l'inizio di nessuno dei nostri sogni.» La voce dell'assassino era delicata, pareva recitasse una poesia di speranza, ma triste. «Allo stesso modo... non ricordiamo l'inizio della nostra vita. Che strana coincidenza, non trovi? E non trovi che sia una strana coincidenza che non ricordiamo neanche la fine?» Mentre carezzava la maschera di Lala poggiata sul tavolo verde, sembrò sorridere a Pauli, sembrò malinconia. Ma poi, con intenzionale calma, estrasse dal bomber nero il coltello da cuoco, lungo, pesante, con il manico rosso. «No, non credo che la vita sia un sogno, e neanche un incubo. Vivere è facile, molto più facile che sognare. Per sognare bisogna esserne capaci. Vivere... Vivere sei costretto a farlo.»
Pauli avrebbe tanto voluto urlare Liberami, ti prego, glielo si leggeva negli occhi, ma sapeva bene che non sarebbe servito a niente, e non poté non pensare al suo amico, a Silach. Chissà come si era comportato prima di morire.
Aveva chiesto scusa o aveva imprecato?
Aveva pianto e supplicato o si era rassegnato con orgoglio?
E la vita? Anche lui se l'era vista passare tutta davanti agli occhi riassunta in una manciata di secondi?
Ma erano domande inutili, stava per fare la stessa fine, e infatti l'assassino annuì, come se gli avesse letto il pensiero; o meglio, gli occhi.
«Hai ragione... ti ucciderò, e non giusto.» L'assassino, a occhi chiusi, negò anche con la testa, adagio. «Ma pensaci bene: non trovi che sarebbe più ingiusto se ti lasciassi vivere?»
Pauli stava per rispondere, sebbene quella domanda non avesse senso, ma l'assassino gli tappò la bocca con una mano e si mise dietro di lui.
«Shhh... Hai già risposto. E l'hai fatto quando non dovevi farlo.»
Lo afferrò per i capelli, tirò forte, e gli mise il coltello alla gola. Ma ecco di nuovo quell'attimo d'incertezza, quel brillantino di commozione negli occhi, giù a strapiombo nello sguardo di lui.
Solo un attimo però, un brillantino, e la lama corse sul collo, da giugulare a giugulare, come falce di luna rossa, da stella a stella.
Poi, tra gli ultimi sfiati di sangue e incredulità, mentre Pauli moriva, cacciò una spina dalla tasca, tagliata da un elettrodomestico a caso, e gliela ficcò in bocca.


ORE 01:00
Dopo essermene andato via dal cimitero, avevo camminato un po' per la città, ed ero ritornato al garage solo al calar della notte. Lì, avevo preso una torcia, un paio di guanti e due cacciaviti. Per non correre rischi, avevo lasciato documenti e telefonino. Poi, con il borsone in spalla, mi ero messo in cammino, in direzione della casa di Amita Sartre, la vecchia a cui dovevo rubare il libro.
L'odore di fumo era ovunque. Il cielo era un posacenere capovolto. Sfoglie di neve nera cadevano sporadiche e altalenanti: lontane, parevano gabbiani stanchi; vicine, insetti morenti.
Chissà che diavolo è sta robaccia!
Dopo circa una mezz'oretta, arrivai a destinazione.
Il villone era in stile gotico; o almeno, così credevo, non mi intendevo di architettura, non mi intendevo di niente. Ogni elemento sembrava volersi lanciare nello spazio, tutto finiva a punta, anche le finestre.
L'edera ricopriva buona parte della facciata e del cancello esterno; avvolte dalla nebbia e dal buio, le sue foglie sembravano grosse squame, la muta di un lunghissimo serpente attorcigliato su se stesso.
Mi guardai attorno, non c'era nessuno, così scavalcai; una picca del cancello non mi bucò la pancia solo per un pelo. Arrivai alla porta, la forzai con i cacciaviti ed entrai, torcia a terra e a bassa intensità.
Il pavimento del corridoio era morbido, uno strato di tappeti l'uno sull'altro. Entrai nel salotto, era altissimo; c'erano quadri ovunque, soprattutto per terra; mobili e vetrine arrivavano da troppi secoli prima; souvenir e soprammobili, da troppe parti del mondo.
Trovai il libro quasi subito, in una libreria grande quanto tutta la parete. La vecchia era stata astuta, lo aveva infilato in mezzo ad altri libri di nessun valore; o almeno, così pensavo.
Da non credere. Il sonno e i sogni di Aristotele: sembrava davvero un segno del destino, come aveva detto quell'idiota di Milko. Mi assicurai che fosse l'edizione richiesta da lui e lo avvolsi in un panno in modo che non si rovinasse.
Il lavoro era fatto. Non mi restava che riempire il borsone e andarmene via. Presi a caso una decina di libri, come mi era stato suggerito. Aprii cassetti e ante, scrigni e scatoline, borse e borsellini, e arraffai monete e ciondoli che sembravano molto antichi, nonché una stupenda testa di Nefertiti in pietra nera.
Poi entrai nell'ampia camera da letto. Il baldacchino era circondato da tendaggi porpora; tendaggi che scendevano anche dal soffitto e curvavano fino ad aggrapparsi alle pareti. Il pavimento era cosparso di cuscini, tra i quali spuntava un esercito di statuette dalle fattezze e dalle dimensioni più disparate, dorate o bianche gesso; un esercito che si estendeva a tutte e quattro le pareti, incassato in decine di nicchie: lì dentro, le statuette erano tutte nere, arrossate dalle fiammelle ondeggianti dei lumini posti ai loro piedi. Come cazzo facesse la vecchia Amita Sartre a dormire in quell'atmosfera di cimitero era un mistero.
D'un tratto, la luce morbida della torcia illuminò un tavolino rotondo di agata rossa con sopra una scacchiera di cristallo.
Wow! Non credevo ai miei occhi. Erano dei Siriani di pregiatissima fattura: alti circa dieci pollici, ogni pezzo era un capolavoro di artigianato, in oro e argento e filigrana di platino.
Entusiasta come un moccioso, presi a spostare i pezzi sulla scacchiera in modo da ricreare la partita che stavo giocando con Zrael, interrotta poi da quel coglione di Pauli.
Merda! Mancava un cavallo nero, uno dei miei pezzi, e senza di lui la scacchiera perdeva molto del suo valore.
Sperai in una svista, ma niente; e niente nemmeno sull'agata rossa. Così allargai la ricerca al pavimento, anche se trovarlo in mezzo a tutto quel casino di piedini sembrava un'impresa impossibile. Feci appena in tempo a spostare due cuscini, che si accese la luce della stanza.
Maledizione!
«In ginocchio, bastardo.»
Era la vecchia Amita Sartre. Grassottella ed eccessivamente elegante, con i capelli biondi sciolti, il naso grosso e gli occhialoni, pareva indossare un costume di carnevale.
La pistola che mi puntava contro, però, non era ad acqua.
«C'è un equivoco... Io sono... L'allarme! È suonato l'allarme, e io...»
«Non c'è nessun allarme, coglione. Inginocchiati!»
«Ok, ma non sparare, vecchia.»
Feci per piegarmi, e invece le lanciai la torcia in faccia. Mi scagliai quindi su di lei, rammollito ma pieno di adrenalina, e le strappai subito la pistola. Poi le legai le mani dietro la schiena e la imbavagliai con delle magliette. Infine, la costrinsi a mettersi in ginocchio abbassandola per le spalle. Le doghe del palchetto cigolarono sotto il suo peso.
Milko, figlio di puttana! Iniziai a tremare, e non per lo sforzo fisico.
«Perché sei qui?»
«Perché è casa mia, idiota!» rispose lei giustamente, e continuò a insultarmi, nonostante l'impaccio del bavaglio.
Così le ficcai un'altra maglietta in bocca, e gliene infilai una anche in testa, sebbene fosse ormai troppo tardi, mi aveva già visto in faccia.
Dovevo andarmene via subito: la vecchiaccia non era riuscita a sparare, ma magari aveva già chiamato gli sbirri o un servizio di vigilanza, così mi limitai a prendere la scacchiera.
«Sentimi bene, ho preso poche cose, potevo prendere molto di più. Potevo prenderti la vita! Scordati di questa storia. Altrimenti torno e ti ammazzo, vecchiaccia.»
Non fece una mossa, sembrava non avere paura, così le spinsi la testa con la pistola.
«Torno e ti ammazzo, hai capito? Ora dimmi dov'è il cavallo che manca. Rispondi!»
Tirai su la maglietta, le liberai la bocca e l'accecai con la luce della torcia. Ma lei continuò a tacere.
«Il pezzo degli scacchi! Dove sta? Parla! O ti spacco la testa!»
Sharif
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