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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
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Writer Officina
Autore: Liliana Martissa Mengoli
Titolo: Quell'autunno a Budapest
Genere Romance
Lettori 3241 30 49
Quell'autunno a Budapest
Ungheria, estate del 1956.

Erano rimasti d'accordo di incontrarsi alle otto di mattina alla stazione ferroviaria già in tenuta da cavallo e Cecilia quella domenica, uscendo di casa, si sentì un po' a disagio così vestita anche perché indossava degli stivali nuovi. Era certa che sarebbero sembrati quasi una ostentazione a Budapest dove le scarpe poco usate erano una merce rara, tanto che per le strade si sentiva risuonare quel caratteristico ticchettio metallico causato - glielo aveva spiegato suo padre - dai ferretti a mezzaluna che si mettevano sotto le suole per evitare che si consumassero troppo in fretta.
Si ritrovarono nell'atrio della stazione e Mátyás comprò i biglietti per una località dal nome impronunciabile che Cecilia scordò subito e dopo pochi minuti arrivò, lento, un convoglio locale. Presero posto sui sedili di legno di uno scompartimento semivuoto, Margit e Cecilia sedute vicine e, di fronte a loro, Mátyás che tosto spiegò un quotidiano isolandosi nella lettura.
Cecilia avvertiva acutamente la sua presenza anche se il giovane non partecipava alla loro conversazione. In quel suo atteggiamento distaccato, quasi indolente, avvertiva una forza contenuta ma sempre vigile, come pronta a scattare...
Parlarono di argomenti di poco conto finché Margit non chiese a Cecilia dei suoi programmi per l'estate.
“Per le vacanze, dopo un soggiorno in Trentino dai miei parenti, andrò al mare. Passerò il mese di agosto su una spiaggia dell'Adriatico.”
“Che bello! E quando partirai?”
“Molto presto, credo. Mia madre lo ha già deciso.”
Incrociò una occhiata penetrante e rapida di Mátyás, che aveva abbassato il giornale per un attimo.
“Mi dispiace”, stava dicendo Margit. “Dico per me, naturalmente.” si affrettò a precisare.
“Anche a me, comunque, dispiace lasciare l'Ungheria”, confessò piano Cecilia.
“Sei molto gentile a dirlo.”
“Non è per gentilezza. È ...perché è così”, replicò con sincerità.
Nello scompartimento calò il silenzio. Nessuno fece commenti, poi Margit osservò: “Siamo quasi arrivati” e Cecilia guardò fuori dal finestrino, mentre il treno rallentava. Prima di scendere, Cecilia si accorse che Mátyás aveva lasciato sul sedile della carrozza il quotidiano che stava leggendo. Lo prese e glielo porse: “L'avevi dimenticato.”
“E' solo spazzatura”, replicò lui.
“Come? I giornalisti non sono bravi?”
“Sono bravi. Sono bravi a fare il loro mestiere, cioè ad uniformarsi al pensiero unico, nascondendo la verità.”
“Perché tu la verità la conosci?”, gli chiede Margit polemicamente.
“No, non la conosco neanch'io”, ammise Mátyás. “La cosa più terribile della nostra condizione”, continuò in tono grave, “è che, non solo non siamo liberi, ma che probabilmente non siamo più nemmeno in grado di pensare liberamente.”
Cecilia era senza parole e quando lui ne incontrò lo sguardo, in quel momento senza difese, gli parve quasi di affondare nei suoi occhi sgomenti e ne provò una leggera vertigine. ‘Questa ragazza ha qualcosa...' ammise fra sé, contagiato dal suo turbamento.
La stazioncina di campagna era deserta.
Si incamminarono a piedi anche perché non c'erano auto pubbliche in attesa e dopo una ventina di minuti arrivarono ad un rustico maneggio. Un bambino, probabilmente figlio dei contadini del luogo, comparve ad occhieggiare salutando goffamente e si mise a fissare Cecilia. Mormorò anche qualche parola continuando a guardarla. “Che cosa dice?”, chiese lei.
“Che sei bella”, tradusse Mátyás.
“Oh, come è gentile! Digli da parte mia che lo ringrazio.”
“Fallo tu, avrai imparato qualche parola di ungherese da che sei qui.” Il suo tono era un po' brusco.
“E' vero”, ammise lei. “Kessenem sepen...” pronunciò in tono incerto, ma con un sorriso così caloroso che il bambino confuso e intimidito fuggì via.
Mátyás si sentì colpito dalla grazia di Cecilia il cui atteggiamento non poteva essere dettato da alcun calcolo. C'era in lei, pensò, una capacità comunicativa priva di artificio che conquistava. Soprattutto era speciale il suo sorriso pieno di un intimo calore che sembrava illuminare ogni cosa. L'aveva notato quelle rare volte in cui lei si era lasciata andare, perché - e sicuramente ne era lui la causa - in sua presenza Cecilia appariva sempre sul chi vive, molto controllata, se non addirittura a disagio.
“La mia pronuncia deve essere veramente atroce se l'ho fatto scappare”, scherzò Cecilia.
“Non è poi tanto male”, sorrise Margit.
Alle stalle furono accolti da un uomo dall'aspetto naturalmente elegante, ma che indossava pantaloni da cavallo scoloriti e stivali dell'aspetto consunto. I giovani Ferenczi lo salutarono con affabilità e furono ricambiati allo stesso modo. Anche Cecilia venne presentata e il dipendente del maneggio le disse che aveva per lei una cavallina speciale.
Margit e Mátyás dovevano avere dimestichezza con quel posto e conoscevano già i cavalli che avrebbero montato perché si apprestarono a sellarli e a farli uscire dalla stalla. In breve fu pronta anche la sua cavalla. “Si chiama Tempesta”, le spiegò l'addetto alle scuderie in un tedesco impeccabile, “ma a dispetto del suo nome, è tranquilla.”
“La ringrazio.”
“Siete di casa da queste parti”, constatò Cecilia. “Ho visto che avete molta familiarità con lo stalliere.”
“E' vero. Comunque quello che hai chiamato stalliere, in realtà è... anzi era, un maggiore di cavalleria sotto il regime di Horthy”, precisò Margit.
“Ma, come è possibile?”
“E' possibile. E il maggiore Benedek può solo ringraziare di essere ancora vivo.”
“Il nostro non è un regime sanguinario”, aggiunse Mátyás. “Non ti toglie la vita, ti toglie solo la voglia di vivere.”
Cecilia non disse niente, scossa da quelle parole. Ora si spiegava perché avesse trovato così distinto quell'ex ufficiale. Aveva l'aspetto di un militare, con i baffetti grigi nel volto severo, ma il suo atteggiamento non era marziale. Teneva le spalle leggermente incurvate, come sotto un peso invisibile e l'espressione, più che malinconica, era di spenta rassegnazione.
Uscirono in silenzio dallo spiazzo, al passo, per poi continuare al piccolo trotto. Ben presto si aprì alla loro vista una vasta radura.
“Pronte?” fece Mátyás.
“Sì”, risposero le ragazze all'unisono.
I cavalli fremevano per l'impazienza e i cavalieri non li trattennero oltre. A briglia sciolta li lasciarono affrontare lo spazio aperto al galoppo. Per Cecilia quella cavalcata fu inebriante. Era da tempo che non si lanciava così nella natura incontaminata, sentendo nelle narici l'aroma dell'erba del mattino che odorava di qualche essenza selvatica.
Quando i cavalli ansanti furono rimessi al passo, Mátyás che le si era affiancato, fu gratificato da un sorriso radioso. Vederla così bella con gli occhi che le brillavano per l'eccitazione, le guance colorite e i biondi capelli in disordine, come dopo una notte d'amore gli fece quasi male. “Sembri felice”, constatò in tono sommesso.
“Lo sono. Che cosa può esserci di più bello di tutto questo?” disse lei guardandosi lentamente attorno, mentre l'espressione luminosa non l'abbandonava.
Lui non rispose, combattuto. Poi disse del tutto inaspettatamente. “Pensavo che i tuoi gusti fossero più sofisticati.”
Il sorriso si spense sulle labbra di Cecilia. “Perché dici così'? Non mi conosci affatto.”
“Può darsi. Ma anche tu, credi forse di conoscermi?” E dopo una breve pausa: “Coraggio”, la sfidò, “dimmi che cosa pensi di me.”
Che cosa pensava di lui? Cecilia sentì in corpo un gran calore, mentre la confusione la metteva in uno stato di visibile imbarazzo.
“Vedi? Non sai che cosa dire”, commentò Mátyás e dopo una lunga occhiata, diede di sprone al cavallo e si allontanò al galoppo.
“Che facciamo? Lo seguiamo anche noi?” propose Margit, che poi però aggiunse. “Ma forse è meglio di no. I cavalli mi sembrano stanchi. Faremo un giro per conto nostro. Che ne dici? Per ora mettiamoli al passo.”
“Sì. Mi sembra che sia meglio”, disse Cecilia con sforzo.
Dopo una lunga passeggiata le due ragazze ritornarono alle scuderie. Mátyás non era ancora rientrato. Il maggiore Benedek si occupò dei cavalli, togliendo loro le selle e portandoli ad abbeverarsi.
Cecilia, seduta su una panca, si rilassava seguendo quelle lente operazioni mentre respirava l'odore di stallatico che trovava piacevolmente familiare.
“Lei è italiana, vero, signorina?” la interpellò l'ungherese. “Di che parte dell'Italia?”
“Del Trentino.” Diceva quasi sempre così per semplificare le cose, dato che non voleva fare la storia della sua vita.
“Glielo chiedo perché ho una figlia che vive in Italia. E' sposata con un giovane di Firenze.”
“Ah, davvero? Allora avrà anche dei nipoti, immagino.”
“Sì uno. Si chiama Giulio.”
“Bel nome. Lo vede spesso?”
“Purtroppo no. L'ho visto solo una volta, quando l'hanno portato in Ungheria per farmelo conoscere due anni fa.”
“Capisco.” Immaginava fin troppo bene che per lui fosse impossibile andare a trovarlo in Italia. “Quanti anni ha?”
“Ormai quasi quattordici anni. Quando è venuto qui, andava matto per i cavalli. Spero che a Firenze lo facciano montare.”
Quando ebbe finito il suo lavoro, l'ex ufficiale salutò cortesemente e se ne andò.
Cecilia commentò con l'amica. “In Italia frequentare un maneggio non è da tutti. Anche perché è molto costoso.”
“Se è per questo, non dovrebbero esserci problemi per il nipotino del maggiore. Sai, sua figlia ha sposato un conte.”
“Un conte?” Cecilia era stupita. “Buon per lei!”
Era sollevata per quanto aveva appreso. Pensò che per lo “stalliere” almeno una ragione di vita rimaneva: una figlia e un nipotino che vivevano in Italia. Abitavano lontani, ma probabilmente il maggiore Benedek provava conforto nel sapere che almeno loro conducevano una vita agiata e senza problemi.
Un'ora più tardi Cecilia e i due Ferenczi erano seduti al tavolo di una rustica csárda e la proprietaria si affaccendava intorno a loro aprendo spesso al sorriso la sua larga faccia di contadina. C'erano pochi avventori nel locale e le sue attenzioni erano tutte per i ragazzi di Pest.
Fu loro servito dell'ottimo gulyás nel tradizionale tegame di coccio e Cecilia ne gustò il sapore piccante. Incominciava ad apprezzare la cucina ungherese, anche se i cibi abbondantemente conditi con la paprika erano un po' lontani dalle consuetudini culinarie di sua madre.
Poco dopo, una scena insolita doveva colpire la sua immaginazione. Una vecchia contadina, col capo coperto da un fazzoletto nero a mo' di celata, si era avvicinata al loro tavolo e si era quasi inginocchiata a baciare la mano di Margit. La ragazza, pur schermendosi, non sembrava affatto imbarazzata da quel gesto. Aveva invitato la donna ad alzarsi e ora le parlava con simpatia tenendole affettuosamente una mano sul braccio.
Cecilia era esterrefatta per quella scena per lei inconcepibile, dal sapore quasi feudale.
Mátyás le indirizzò un mezzo sorriso, avvertendo il suo stupore. “Non devi stupirti se in campagna sopravvivono ancora dei vecchi costumi...”
“Vecchi? Medioevali vuoi dire. Ma non capisco. Non c'è il comunismo in Ungheria?”
“Sono convinto che per uno straniero sia difficile capire molte cose da noi, ma vedi, Cecilia, a volte il vecchio e il nuovo coesistono stranamente mescolati. D'altra parte, dubito che questa vecchia contadina abbia veramente compreso quello che è avvenuto negli ultimi tempi.”
“Ma perché ha baciato le mani proprio a Margit?”
Mátyás rimase in silenzio. Poi spiegò con noncuranza: “Non è che una superata forma di ossequio.”
Cecilia non era convinta. Poi all'improvviso credé di capire, come se le si fosse squarciato un velario. Come aveva fatto a non pensarci prima? Si trovava sulle terre dei Ferenczi, o meglio in quella che doveva essere stata una tenuta della famiglia. Anche se Mátyás e Margit non ne avevano mai fatto cenno, Cecilia era convinta che fossero esponenti della vecchia aristocrazia magiara.
“Erano le vostre terre?” chiese sommessamente.
Mátyás parve sorpreso del suo acume. “Hai indovinato”, le disse lanciandole una lunga occhiata. E non aggiunse altro.
Lei rimase in silenzio, meditando su quella rivelazione.
Quando la donna se ne fu andata, Margit, spiegò che la conosceva fin da quando era bambina e Cecilia ne approfittò per chiederle se venissero spesso da quelle parti.
“Sì. Ci torniamo volentieri, soprattutto per andare a cavallo. Un tempo vi passavamo gran parte dell'estate, quando eravamo piccoli, anche se alla mamma non piaceva la campagna.”
“Vostra mamma, è da molto che è... morta?”
“Chi ti ha detto che è morta?” chiese quasi con violenza Mátyás.
“Non so... Margit.”
“Non ho detto che è morta”, precisò pacatamente Margit, “ho solo detto che non c'è più.”
Che voleva dire? si chiese Cecilia confusa.
“La nostra cara mamma non è morta, ci ha solo abbandonato”, spiegò Mátyás amaro. “Ha preferito una vita brillante all'estero a quella grama che avrebbe condotto qui con noi.”
“Mátyás...” lo rimproverò dolcemente sua sorella.
“Che c'è? Non dovrei dire la verità?”
Cecilia li guardava incredula. Aveva pensato che non si sarebbe stupita più di niente in Ungheria, ma questo era troppo.
“Vedi, Cecilia”, tentò di spiegarle l'amica. “E' difficile capire la situazione per chi è straniero. Quando tutto da noi è cambiato, c'è stata molta paura. Parecchie persone sono fuggite. Mia madre si trovava all'estero e non se l'è sentita di rientrare.”
“Vuoi dire che ha abbandonato la sua famiglia?”
L'amica annuì. “Sperava che almeno noi, i suoi figli, avremmo potuto raggiungerla, ma non ci è stato possibile.”
Ammutolita, Cecilia rifletté su come dovevano essersi sentiti Margit e Mátyás privati dall'affetto di una madre che aveva addirittura scelto volontariamente di non vederli più. E ripensando a quanto fosse stato essenziale per lei l'affetto della mamma che l'aveva tante volte confortata quando era ammalata, impaurita o sofferente, le si riempirono gli occhi di lacrime. Sbatté con forza le palpebre per ricacciarle indietro.
Nel silenzio generale, Margit, lanciò un'occhiata al fratello e si accorse che era rimasto colpito dalla reazione di Cecilia. Aveva i lineamenti tirati come gli succedeva quando era in preda all'emozione e guardava la ragazza italiana con una espressione intensa che non gli conosceva. Che gli stava capitando? Mátyás così duro e sarcastico nei confronti di ogni manifestazione di sentimentalismo si lasciava commuovere scoprendo la sensibilità di Cecilia?
“Non è stato poi così brutto”, disse in tono deciso per dissipare quell'atmosfera carica di emotività. “Ce la siamo cavati bene anche senza di lei. Non è vero, Mátyás?”
Lui annuì cupamente.
“E dopo? Non avete avuto più rapporti con lei?” insistette a chiedere Cecilia.
“E perché mai?”, intervenne ruvido Mátyás. “Perché avremmo dovuto interessarci alla sua storia con il suo amante veneziano, una storia, fra l'altro che doveva essere cominciata già fin dai tempi di Abbazia? Parlo del conte Faliero naturalmente.”
“Faliero?” Cecilia rimase di stucco sentendo pronunciare il proprio cognome.
“Già. Gian Antonio Faliero di Venezia. Per caso lo conosci?”
“No.” Confusamente a Cecilia venne in mente la reazione di ostilità che le aveva manifestato Mátyás quando lei si era presentata il primo giorno a casa sua. Era stato forse per via del suo cognome? Ora se ne spiegava la ragione. E comprendeva anche perché sia lui che Margit le avessero chiesto se era di Venezia.
“Non lo conosco”, continuò piano. Poi spiegò: “So che il nostro nome è di origine veneziana, ma la nostra famiglia fa parte di un ramo stabilitosi a Capodistria secoli fa.”
Abbassò lo sguardo sulla gustosa palacsinta che le era stata portata come dessert e respinse il piatto, sentendo la bocca dello stomaco chiusa. Era scombussolata e si sentiva mortificata come se fosse in qualche modo responsabile di qualcosa.
“Non te la prendere, tu non c'entri con questa storia”, le disse Margit, affabile, ricoprendole una mano con la sua, mentre Mátyás continuava a non staccarle gli occhi di dosso.
“Lo so. Certo...” Ora Cecilia avvertiva prepotente il desiderio di rimanere da sola. “Se volete scusarmi, ho bisogno di fare due passi”, disse e senza guardarli, si alzò da tavola scostando bruscamente la seggiola. Non le interessava che cosa avrebbero pensato del suo comportamento. Aveva bisogno di andarsene da lì perché non poteva restare un minuto di più. Troppe erano state le rivelazioni sulla famiglia Ferenczi che l'avevano scombussolata. Si allontanò in fretta prendendo una direzione a casaccio, con il cuore gonfio per la gran voglia di piangere.
Mille pensieri si affollavano nella sua mente, opprimendola. Pensava a Mátyás, a come avesse reagito malamente a tutti i rivolgimenti della sua vita. Mentre Margit sembrava avere accettato con una certa serenità ogni cosa, Mátyás era rimasto segnato dai drammatici avvenimenti accaduti in Ungheria cui si era aggiunto l'incredibile abbandono della madre, la cui scelta egoistica doveva aver rappresentato per lui il più doloroso dei tradimenti.
Poteva meravigliarsi che il suo comportamento fosse talvolta così aspro, che il suo sguardo riflettesse un tormento interiore?
A poco a poco nel suo vagabondare agitato, Cecilia aveva raggiunto un piccolo ruscello che al mattino aveva oltrepassato a cavallo. Si sedette su di un masso e lasciò vagare la mano nell'acqua fresca. C'era una gran pace intorno. Ogni tanto una folata di vento faceva ondeggiare le cime degli alberi e lo stormire delle foglie si mescolava al mormorio del rivoletto d'acqua che scorreva sui sassi. Avrebbe voluto lasciarsi penetrare dalla serenità della natura ma non ne era capace.
Nella csárda intanto i due fratelli erano rimasti soli a consumare il dolce, ma anche Mátyás, dopo poche forchettate, aveva smesso di mangiare. Si era acceso una sigaretta e fumava nervosamente in silenzio, senza che Margit aprisse bocca.
Alla fine il giovane si alzò da tavola. “Me ne vado anch'io a fare due passi”, comunicò alla sorella che non ne rimase sorpresa. Si limitò a sospirare, vedendolo allontanarsi nella direzione che aveva preso Cecilia.
Quando la proprietaria della trattoria si accorse che le sue omelette erano rimaste quasi intatte nei piatti, chiese allarmata: “Non sono buone?”
“Sono buonissime, non si preoccupi, è solo che mio fratello e la mia amica non avevano molto appetito.”
Un sorriso di complicità apparve sul volto della contadina, che si dimostrò subito molto comprensiva. “Ah, l'amore...” sospirò.
‘L'amore? Ma che dice? Oh no! Non può essere così', si disse Margit quasi inorridita. E si augurò che almeno non fosse così per suo fratello. Lui aveva già fin troppi problemi senza che ad essi si aggiungesse anche una storia sentimentale senza sbocchi.

Guidato unicamente dal suo istinto, Mátyás stava andando alla ricerca di Cecilia. Non si chiedeva che cosa volesse da lei. Fino ad allora, dalle ragazze non aveva mai voluto niente al di fuori di una relazione fisica. Per sua fortuna, in Ungheria, il regime comunista aveva portato a un notevole rilassamento dei costumi, anche per la scomparsa dell'insegnamento religioso apertamente osteggiato, e la gioventù si lasciava andare con disinvoltura alla pratica del sesso senza complicazioni sentimentali. Del resto, di occasioni di svago ce n'erano poche, di prospettive per un futuro migliore ancora meno e l'imperativo più sentito e seguito era quello di non farsi mancare quel po' di piacere che la vita metteva a disposizione.
Per Mátyás abbandonarsi a un sentimento era tabù, anche perché non aveva nessuna fiducia nelle donne, belle e senza cuore, proprio come sua madre! Sempre pronte a tradire chi avesse la debolezza di innamorarsi di loro...
Gettò a terra e schiacciò col piede la sigaretta per spegnerla, mentre si guardava intorno. Ancora pochi passi e scorse Cecilia che se ne stava seduta meditabonda nei pressi del ruscelletto. La osservò da lontano, incerto se proseguire o andarsene. Poi lei alzò il viso e lo vide.
Per lunghi momenti tutto sembrò fermarsi e cristallizzarsi nella mente di Mátyás. Solo il cuore gli batteva forte e rapido, mentre riprendeva a camminare verso di lei.
Come ipnotizzata dal suo sguardo, anche Cecilia gli mosse incontro. Poi senza esitazione, quando gli fu vicina, gli buttò le braccia al collo con spontaneità. Si strinse a lui in silenzio per comunicargli ciò che non sapeva dire a parole.
Fu un momento di grande emozione per entrambi, poi cautamente Mátyás incominciò a baciare il viso che lei gli porgeva, fino ad incontrarne le labbra morbide e cedevoli. La sentiva tremare leggermente fra le sue braccia.
“Non lo volevo...” sussurrò mentre la copriva di baci.
Che cosa non voleva? Cecilia se lo chiedeva confusamente, nello stordimento di sensazioni nuove. Più tardi si sarebbe domandata come avesse potuto abbandonarsi così, desiderando solo di essere baciata da Mátyás e di baciarlo a sua volta una volta, due volte, all'infinito...
Ma poi Mátyás si staccò da lei. “Non lo volevo”, ripeté ancora, profondamente turbato. “Credimi, non ho mai voluto provare...qualcosa per te.” E di fronte al suo sguardo smarrito proseguì. “E' successo, non so come, ma non doveva succedere.”
“Mátyás, che vuoi dire?”
“Vedi tu stessa come tutto è inutile.”
“Inutile, perché?” Non capiva. “Se noi...se noi ...”
“Se noi, cosa?” Lui scosse la testa “Vuoi forse passare questa notte con me?”
“La notte con te? No. Lo sai che non è possibile.”
“Infatti. Lo so.” Poi dopo una breve pausa Mátyás riprese: “E' tutto inutile, come ti dicevo. Inutile e senza senso.”
Cecilia abbassò il capo, senza trovare argomenti. Per loro non c'erano prospettive, lo sapeva fin troppo bene e questa certezza trapelava dal suo sguardo.
“Ora vattene... Va' via per favore”, la supplicò lui piano, ma mentre lo diceva continuava a trattenerla con una mano. Poi l'attirò a sé, guardandola con occhi che l'emozione rendeva di un verde più vivido e intenso.
“Va' via, szerelmem...” ripeté e le cercò di nuovo le labbra. Si baciarono a lungo con un trasporto che il senso di impotenza rendeva quasi disperato.
Da lontano la voce di Margit risuonò decisa. “Cecilia! Cecilia dove sei?”
“Devo andare. Margit sarà qui a momenti.” Si sciolse a fatica dall'abbraccio. Questa volta Mátyás la lasciò andare. “Va' con lei. Dille che io rimango...che ho da fare qui.”
Non si salutarono. Non si guardarono nemmeno, ma avevano negli occhi lo stesso sguardo infelice.
Cecilia si mosse con il cuore che le doleva. Aveva la mente ottenebrata, quasi incapace di capire che cosa era appena successo.
In treno, durante il viaggio di ritorno, Margit finse di non accorgersi dell'atteggiamento smarrito dell'amica. Fece qualche commento in tono leggero sulla campagna e ancora una volta ricordò sua madre e la sua antipatia per la vita che vi si conduceva.
Cecilia anelava conoscere qualcosa di più sulla donna che con tutta evidenza aveva tanto ferito Mátyás e chiese con circospezione all'amica se volesse parlargliene. Sempre che per lei non fosse troppo doloroso farlo.
“Posso dirti qualcosa, anche se ero molto piccola quando se ne è andata”, prese a raccontare Margit. “Il fatto è che si era sposata molto giovane, forse troppo, ad appena diciott'anni. Non lo dico per giustificarla, credimi. Era...me la ricordo come una donna sottile, elegante, con dei bellissimi occhi, verdi come quelli di Mátyás. So che amava la vita mondana, i bei vestiti, i viaggi. Mio padre - l'hai conosciuto - era molto più anziano di lei e aveva un carattere agli antipodi del suo. Sempre assorbito dal suo lavoro, non aveva né il tempo né, credo, la voglia di accompagnarla in società. Così lei ha incominciato a uscire sempre più spesso da sola, con i suoi amici e anche a viaggiare all'estero. Era molto irrequieta...credo che fosse insoddisfatta del suo matrimonio.” Fece una pausa prima di concludere: “Ma in casa non parliamo mai di lei...quindi non so veramente come siano andate le cose.”
“Ti è mancata?”
“Certo, ma non ne ho fatto il dramma della mia vita.”
Diversamente da Mátyás, pensò Cecilia che però non lo disse. “E non vorresti rivederla? Sapere qualcosa di lei?”
“Se dovesse succedere, perché no? Ma come ti ho detto si tratta di una vicenda superata. Morta e sepolta.”
Cecilia rabbrividì. Com'era possibile liquidare così l'esistenza di una madre, che per quanto lontana era ancora in vita? Le sembrò un atteggiamento molto duro.
Dopo quelle tristi confidenze, Margit rimase in silenzio fino all'arrivo alla stazione di Pest. Al momento del commiato, facendosi molto seria le disse inaspettatamente: “Penso che in fondo sia un bene che tu te ne vada dall'Ungheria. Credimi, è la cosa più giusta da fare.”
Cecilia, per quanto stupita, annuì, chiedendosi fino a che punto l'amica avesse intuito quanto era successo fra lei e Mátyás.
“Chiamami, prima di partire”, la esortò l'amica ungherese.
“Lo farò.”
“Ci conto. Per ora, arrivederci”, e Margit, prima che si lasciassero, l'abbracciò con calore.
Cecilia mantenne la promessa. Pochi giorni dopo le telefonò per comunicarle che sarebbe partita entro pochi giorni.
“Hai fatto bene a dirmelo, così potrò restituirti quello che mi hai prestato.”
Che cosa le aveva prestato? si chiese Cecilia. Ah sì, il libro d'arte sul Carpaccio. Ora ricordava. “Non ha importanza”, le disse.
“Come no. Possiamo incontrarci, magari domani.” Margit rifletté un momento. “Va bene per te, domani alla cinque? Al caffè Fiume. Sai dov'è?”
“Si, quello sul viale del Museo. Alle cinque. Ti aspetterò.” Nessuna delle due fece caso al fruscio leggero di sottofondo durante la loro conversazione. Una piccola, insignificante interferenza.
L'indomani Cecilia arrivò puntuale al caffè. Aveva ordinato la solita aranciata insapore che si beveva in Ungheria e aspettava Margit. Probabilmente sarebbe stata l'ultima volta che si incontravano.
Aveva preso posto a un tavolino di ghisa dal piano di marmo, nei pressi della finestra che dava sulla strada e guardava distrattamente i passanti, quando assistette ad una scena che durò forse pochi secondi, ma che seguì quasi al rallentatore incapace, sulle prime, di capire. Vide Margit dirigersi verso il caffè in un vestitino estivo a fiori, con il passo elegante che le conosceva, per poi fermarsi a pochi passi dall'entrata, perché due uomini le si erano affiancati.
Per prima cosa le avevano preso il pacco che teneva in mano, presumibilmente il libro d'arte sul Carpaccio, poi l'avevano accompagnata ad una macchina scura che stazionava poco lontano e lei vi era salita senza opporre resistenza. Tutto si era svolto in modo apparentemente tranquillo e privo di violenza, ma Cecilia aveva la netta sensazione, dall'espressione sorpresa e poi quasi sgomenta dell'amica, che fosse successo qualcosa di grave. Margit era stata portata via, sequestrata. Ne era certa. Ma da chi?
Cominciò a tremare. Se ne accorse mentre prendeva in mano il bicchiere per inumidirsi le labbra inaridite. Rimase a lungo seduta al tavolino, incapace di riflettere con chiarezza, ma con in testa un nome che la terrorizzava...l'AVO. E se fossero tornati per prendere anche lei? Ebbe un momento di panico, prima di rammentarsi che lei era una straniera e per di più figlia di un diplomatico occidentale e quindi al sicuro. Alla fine pagò il conto e uscì guardandosi intorno circospetta. Poi piano piano, per quanto scombussolata, riuscì a tornare a casa.
Fulvio Faliero non le fu di grande conforto riguardo alle circostanze dell'arresto, se così si poteva definire, di Margit. Per quanto dispiaciuto per quello che era accaduto, non mostrò di considerarlo un avvenimento eccezionale e del tutto privo di senso, come credeva Cecilia. Purtroppo in Ungheria cose del genere accadevano e non erano infrequenti. Le disse anche che indagare apertamente non era consigliabile. Soprattutto se ci fosse stata di mezzo la polizia politica, come era molto probabile. Anzi, se un diplomatico italiano si fosse interessato alla faccenda, avrebbe probabilmente più nuociuto che aiutato la giovane Ferenczi. Per il momento non si poteva fare nulla, se non attivare qualche fonte di informazione riservata.
Di telefonare a casa di Margit, non era neanche il caso di parlare. Qualsiasi rapporto fra Cecilia e la famiglia ungherese sarebbe stato quanto mai imprudente, se non addirittura dannoso.
Per lei furono ore di angoscia. Sua madre per fortuna non infierì con qualche considerazione di saggezza a posteriori, rilevando come sarebbe stato meglio lasciare Budapest tempo prima, come aveva suggerito lei.
Alla fine si venne a sapere che Margit era tornata a casa. Il giorno stesso dell'arresto o qualche tempo più tardi, non era chiaro. Era comunque libera.
Cecilia si sentì sollevata da un gran peso. Ora poteva andarsene senza patemi, almeno riguardo alle sorti dell'amica.
Due giorni prima della partenza, nel tardo pomeriggio, Cecilia uscì per una passeggiata. Voleva imprimersi nella mente la fisionomia della città che l'aveva affascinata fin dal principio e che sentiva quasi di amare e si diresse in autobus a Buda, al Várhegy, come si chiamava la collina fatta a mo' di sperone, che era il cuore più antico della capitale ungherese. La cosiddetta Fortezza o Castello era stata l'ultima roccaforte dei nazisti, per questo durante i giorni dell'assedio russo era stata flagellata dall'artiglieria ed era in gran parte ancora da restaurare.
Tralasciato il Palazzo Reale, ancora in rovina, girovagò per le stradine tortuose del quartiere di origine medioevale soffermandosi a guardare i palazzetti, le antiche case e le piccole piazze ornate di statue. Passò per Kapisztran tér, la piazza intitolata a Giovanni da Capestrano e si ritrovò davanti al Mátyás templom, la grande Chiesa dell'Incoronazione dei re d'Ungheria.
Sapeva che era un edificio risalente al XIII secolo, ma che era stato più volte distrutto e ricostruito e si chiese che cosa vi fosse rimasto di originale. Lo trovava tuttavia molto suggestivo con la sua facciata asimmetrica per le due torri di diversa altezza.
Era ormai ora di rientrare. Fra l'altro il tempo era cambiato. Soffiava forte il vento e in cielo dei nuvoloni neri non promettevano niente di buono. Incrociò rari passanti e ad un tratto ebbe un sussulto: da lontano aveva riconosciuto Mátyás.
Non poteva essere che lui quel giovane che avanzava con l'andatura sciolta che conosceva così bene.
Cecilia si fermò sentendo il cuore che le batteva forte. Lui parve sulle prime volerla evitare, ma poi riprese a camminare con decisione nella sua direzione.
“Mátyás...” gli sussurrò Cecilia.
Il giovane ungherese la salutò in tono distaccato, ma appariva teso.
“Come sta Margit?”
“Margit? Sta bene.”
“Che cosa le è successo?”
“Perché me lo chiedi? Non le è successo niente.”
“Mátyás...ero presente!” protestò lei. “Ho visto.”
“Ah...” L' impenetrabilità del giovane parve incrinarsi.
“Allora? Non vuoi dirmi niente?” lo incalzò lei. “Non puoi dirmi niente?”
Mátyás la prese per un braccio e dopo aver lanciato un'occhiata inquieta alle sue spalle la guidò in silenzio verso il Bastione dei pescatori. Insieme scesero qualche rampa di scalini e si ritrovarono in un luogo appartato.
“Tu non puoi neanche immaginare quello che succede da noi”, esordì. “Comunque ti dirò. Come forse avrai già immaginato, Margit ha avuto un...colloquio con la Polizia.”
“L'AVO?” chiese lei rabbrividendo.
“Esattamente. L'hanno interrogata sui suoi rapporti con te. Alla fine le è stato proibito, diciamo così, di frequentarti ancora.” Evitò di dirle che le era stato anche chiesto insistentemente di collaborare come “confidente”, dal momento che frequentava la famiglia di un diplomatico straniero. Lei aveva opposto un netto rifiuto ma, comunque, prima o poi gli agenti dell'AVO sarebbero tornati alla carica e l'unica soluzione era che Cecilia se ne andasse definitivamente dall'Ungheria. “Quindi non può più incontrarti”, le disse, aggiungendo anche che, se teneva al bene di Margit, non avrebbe dovuto cercarla.
“Non dovrai più vedere né lei, né me”, concluse con durezza.
Allarmata, Cecilia gli chiese: “Anche tu sei stato interrogato dalla Polizia?”
“Oh...io sono una loro vecchia conoscenza.” Il giovane scrollò le spalle con noncuranza. “Aspettano solo che faccia un passo falso.”
“Ma tu non lo farai vero?” Cecilia rabbrividì. “Sarai prudente! Promettimi che non farai niente per inimicarti quella gente.” Pensava con orrore alla prigionia, alle torture forse...
“Non farò gesti inutili. Ma non posso prometterti di rinunciare alla mia dignità”, pronunciò lui gravemente. “Questo non puoi chiedermelo.”
“Oh Mátyás, ma così mi farai stare in pena.”
“Ti farò stare in pena? Cosa dici?” Lui si mostrò stupito, prima di riprendere in tono deciso. “Per te io non devo neanche esistere. Fa' conto che non ci siamo mai incontrati.”
“Ma non è possibile! Fra noi c'è qualcosa.”
“Ti ho già detto che non esiste nessun noi. Cecilia, guardami e ascoltami... io esco dalla tua vita. Per sempre.” Lo disse lentamente perché lei comprendesse che non si sarebbero rivisti mai più.
“Oh no!” Gli occhi le si inumidirono. Non poteva accettare quelle parole e istintivamente cercò conforto fra le braccia di Mátyás. Qualcosa si sciolse nella determinazione del giovane che si ritrovò a stringerla a sé.
Si baciarono a lungo con abbandono. Cecilia affondò le dita nei capelli di Mátyás come avrebbe voluto fare già da tempo, mentre avvertiva le mani di lui che accarezzavano il suo corpo e la bocca che le toglieva il respiro. Per loro non esisteva più né luogo né tempo. Erano perduti nella ebbrezza di un sentimento che non si erano mai confessati. Dolce e amaro a un tempo.
Sentirono ridacchiare, mentre una coppia che si avvicinava fece qualche commento in ungherese. Si immobilizzarono e solo allora parvero rendersi conto di ciò che facevano.
“Siamo pazzi. Io sono pazzo”, esclamò Mátyás in tono alterato e ancora ansante si sciolse dall'abbraccio. “Ti prego, lasciami. Va' per la tua strada.”
Cecilia scosse debolmente la testa, mentre una lacrima le rigava il viso. Lui le prese il volto fra le mani e le disse gravemente con evidente sforzo: “Ascoltami Cecilia. Non scambiare questa...attrazione per qualcosa che non è.”
Lei non riusciva a capire cosa intendesse dire con quelle parole e guardava attraverso un velo di lacrime gli occhi di lui che una fiamma interna aveva reso come trasparenti.
“Non devi farti del male da sola”, riprese Mátyás. “Ricordati che si tratta solo di una infatuazione.” Così dicendo le baciò le labbra per un'ultima volta con lentezza struggente poi la scostò da sé pronunciando un addio soffocato. Si allontanò in fretta salendo la rampa di scalini che portava alla piazza del duomo.
Attonita, Cecilia stentava a credere che Mátyás l'avesse abbandonata. Addossata ad una parete del Bastione dei pescatori, oppressa da un peso che le faceva dolere il cuore, era incapace di muoversi, mentre sentiva risuonare quelle parole: si tratta solo di una infatuazione.
Il rumore sordo e minaccioso di un tuono la riportò alla realtà. Stava per scoppiare un temporale e lei era molto lontana da casa. Con i piedi che erano diventati di piombo incominciò a risalire la scalinata. La temperatura si era abbassata di colpo e il leggero vestito estivo non la riparava abbastanza.
Riuscì a raggiungere l'autobus alla solita fermata, a salirvi sopra e a ritornare a Pest. Poi dovette correre in fretta sotto la pioggia che nel frattempo aveva investito le strade, divenute subito lucide per l'acqua battente. Arrivò a casa inzuppata e infreddolita.
“Sei tornata finalmente ...e in che stato!” Sua madre l'accolse con evidente irritazione mista a sollievo. “Mi sai dire perché te ne vai sempre così in giro, chissà dove? Va' subito a cambiarti.”
“Sì, mamma.”
“Speriamo che non ti venga un raffreddore o qualcosa di peggio”, brontolò ancora Annarosa Faliero che, distratta dall'immagine dei vestiti e dei capelli fradici di sua figlia, non si era accorta della sua espressione infelice e frastornata.
“Vado ad asciugarmi.” Cecilia era sollevata di avere una scusa per sottrarsi alla vista di sua madre. Non avrebbe potuto affrontare nessuno nelle condizioni di spirito in cui si trovava. E non aveva alcuna intenzione di confidare il suo dolore.
I suoi genitori comunque non erano ciechi e non tardarono ad accorgersi che Cecilia sembrava col morale a terra.
“C'è qualcosa che non va?”, le chiese suo padre mentre erano a tavola.
“No”, mentì lei.
“Eppure sembri cambiata, da un po' di tempo non sei vivace come al solito.”
“Sono un po' dispiaciuta di andarmene. Anche perché non ti rivedrò per molto tempo.”
“Capisco. E te ne sono grato. Però dovresti essere entusiasta della nuova vita che ti aspetta. Le vacanze al mare, l'università a Bologna. Invece sembri quasi abbattuta.”
“Le dispiace lasciare gli amici che si è fatta qui”, intervenne Annarosa Faliero.
“E' così?”
“Sì.”
“Qualcuno in particolare?” Suo padre la guardò a fondo negli occhi. Cecilia era stupita del suo acume. Era incerta se confidarsi o meno. Poi decise per il no. Scosse la testa, arrossendo leggermente.
La Faliero, pur sorpresa per quell'uscita del marito, dopo aver riflettuto un attimo, rispose per lei. “Se ti riferisci a qualche ragazzo, ne abbiamo già parlato qualche giorno fa. Sembra proprio che Cecilia sia refrattaria alle cotte.”
Oltre a Pallavicini che, ahimè, era solo un amico, sapeva che Cecilia non aveva frequentato assiduamente nessun altro. Essendo all'oscuro di gran parte degli incontri fra sua figlia e Mátyás, poteva affermarlo con convinzione.
“Allora sei preoccupata per Margit”, insistette suo padre.
“Non posso negarlo. E' la situazione sua...e quella in generale dell'Ungheria che mi rende triste.”
“Una ragione di più per lasciarsi tutto alle spalle”, disse giudiziosamente la Faliero.
“Temo che la mamma non abbia torto. Purtroppo è tutto molto avvilente, ma noi non possiamo farci niente. In ogni caso, anche per la tua amica è meglio troncare ogni rapporto con te. Il fatto di frequentare degli stranieri è visto con molto sospetto dalla polizia.”
“Lo so”, sospirò Cecilia e aggiunse addolorata: “E' un bene per tutti che me ne vada.”
“Brava!” Finalmente l'aveva capito, pensò Annarosa Faliero, sicura che non appena sua figlia si fosse tolta di dosso l'influenza deprimente che quella città esercitava sulle persone, sarebbe tornata la ragazza spensierata che era sempre stata.
Cecilia salutò i giovani conoscenti che aveva frequentato a Budapest e con particolare affetto Marcello Pallavicini che considerava un vero amico.
Due giorni dopo, insieme alla madre lasciò l'Ungheria, usufruendo di un passaggio in automobile offerto da una coppia di austriaci che tornavano a Vienna. Mentre attraversava la cupa frontiera, presidiata da militari che avevano addirittura fatto passare uno specchio sotto la loro auto per controllare che tutto fosse in ordine (sospettavano forse che ci fosse nascosto qualcuno?), al calar delle sbarre, lei ebbe la netta sensazione che una saracinesca si fosse pesantemente abbattuta alle sue spalle come a suggellare un periodo della sua vita.
Liliana Martissa Mengoli
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