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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
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Writer Officina
Autore: Gabriella Grieco
Titolo: Il silenzio di Rosa
Genere Mainstream
Lettori 3407 35 55
Il silenzio di Rosa
Rosa socchiude l'uscio che dà sull'orto e una abbagliante lama di luce ferisce la fresca penombra del sottoscala.
La vecchia porta cigola sui cardini rosi dalla salsedine mentre la bambina, con un rapido movimento, la apre di quel tanto che consente al grosso cane nero di uscire e poi la richiude immediatamente, immergendosi nella calura pomeridiana dell'esterno.
L'afa opprimente le trasmette una sensazione di ovattata solitudine. Il resto del mondo può anche aver cessato di esistere, annichilito dal sole rovente.
Tra le piante tremolanti per le onde di calore che si sprigionano dal suolo occhieggiano i rossi pomodorini. Pare che la invitino, ammiccanti tra il verde.
Lei si inoltra tra i solchi, affondando i piedi scalzi nella terra riarsa. A ogni passo si solleva una piccola nube di polvere. Il terreno scotta, ma non avverte alcun fastidio: i suoi piedi, induriti dall'abitudine a camminare scalza, hanno le piante callose e dure come il cuoio vecchio.
Afferra un piccolo frutto e lo addenta. Il succo ne sprizza punteggiando la mano con i suoi semi. È caldo di sole, dolce e dissetante. Finisce lentamente di mangiarlo, poi si asciuga la bocca col dorso della mano.
Non c'è un alito di vento, nulla che smuova l'afa di un primo pomeriggio di agosto. Il cielo è di un azzurro slavato dal calore, e solo il monotono canto delle cicale, dalla pineta poco distante, smuove il silenzio di queste ore sonnolente. Nemmeno gli insetti fanno sentire il loro ronzio, l'aria è troppo pesante per il loro volo, e tacciono in attesa che il trascorrere della giornata gli consenta di riprendere l'attività.
Questo è il momento del giorno che più le piace. È in queste ore quiete, quando tutti riposano dietro il fresco riparo delle imposte accostate a tener fuori il caldo e la vivida luce, che Rosa riacquista il possesso delle sue cose, del suo paese.
È un piccolo paese della costa cilentana, un paese di vecchi e di bambini: i giovani l'hanno in gran parte abbandonato, costretti a lasciarlo da una terra avara in cui solo l'olivo riesce a sopravvivere.
Da qualche tempo, tuttavia, sembra aver finalmente trovato un inizio di prosperità col turismo. Ogni anno sempre di più, l'estate porta un'umanità in cerca di mare azzurro e spiagge pulite.
Persone stanche del convulso affrettarsi delle città, delle strade senza alberi, del calore maleodorante che sale senza tregua dall'asfalto, hanno trovato in questo tranquillo paese che si affaccia sul mare turchino un angolo di pace, un'oasi nell'affollato deserto della loro esistenza.
Purtroppo portano con loro la stessa folla da cui tentano di evadere e l'affannoso ciclo si ripete. Vengono via dalle frettolose città, col desiderio di vivere giornate calme e rilassanti. Ma non sanno godere delle ore vissute lentamente, una alla volta. Arrivano carichi di ansia, ansia di abbronzarsi in fretta, di divertirsi ogni istante, di non sprecare neanche un solo minuto... come se l'ozio senza colpa non fosse di per se stesso rilassante. Forse hanno anche paura, quando i giorni trascorrono senza impegni, di ritrovarsi al fianco estranei con cui si è persa l'abitudine a parlare. E allora vanno di corsa contro il tempo che, se solo lo lasciassero scorrere sonnolento e quieto come merita, saprebbe offrire loro una dolcezza antica.

Rosa ha già imparato, come tutti i suoi compaesani, che questa folla estranea porta nuova linfa, vantaggi economici che altrimenti si farebbero ancora attendere. La sua stessa esistenza dipende in gran parte dai guadagni estivi, ma è al tempo stesso gelosa della solitudine, del silenzio, della quieta tranquillità degli stretti vicoli in cui si insinua la salsedine, portata dal vento.
Mal sopporta gli inusuali passi che calpestano le strade, lastricate con i ciottoli levigati dal mare, e provocano un ininterrotto tamburellare con gli zoccoli di legno.
In estate anche la sua casa cessa di essere il sicuro rifugio dal mondo e dalla confusione.
Nei primi giorni di giugno, quando l'aria comincia appena ad acquistare la mollezza estiva, preludio dei giorni a venire, lei e la nonna lasciano le solite stanze dagli spessi muri di tufo, grandi e accoglienti e amiche, per restringersi nell'oscura cavità creata nel sottoscala. Solo una piccola finestrella difesa da una rete di ferro impolverata consente che entri un po' di luce. In quell'ambiente di per sé già triste non c'è spazio per gli oggetti che è solita tener vicino e che le danno conforto e sicurezza e lei se ne allontana appena possibile.
Sa che le loro camere devono essere lasciate libere per gli inquilini estivi che ogni mese, fino a settembre, si alternano ad abitarle. Chiude le sue cose nel grande armadio a muro che il nonno, molto prima che lei nascesse, aveva ricavato in un anfratto della parete (era bravo lui con le mani, sapeva fare tante cose...) e lascia libera la sua cameretta per gli inquilini che subentreranno. Sono proprio i soldi dell'affitto estivo, quelli che la nonna prende sempre con mano esitante, vergognosa quasi di farsi pagare per godere di bellezze di cui non ha alcun merito, che danno loro da vivere. La modesta pensione di vedova di guerra non basterebbe per tutte e due. Una bambina cresce ogni giorno, ha bisogno di scarpe nuove e di vestiti... Rosa lo sa e non fa storie.
È da quando possono far conto sui turisti, che hanno potuto concedersi anche piccoli lussi, come l'acquisto di un nuovo paio di occhiali per l'anziana donna.
In tal modo la vecchia può di nuovo trascorrere le giornate invernali ricamando tovaglie, lenzuola e centrini: in estate trova sempre qualcuno interessato ad acquistare i suoi lavori, signore che hanno perso l'antica arte del ricamo ma che tuttavia ne apprezzano la bellezza, madri che, come un tempo, preparano il corredo alle figlie o altri che, semplicemente, amano le cose belle.
Rosa aiuta pescando maruzzelle (*) e granchiolini, raccogliendo fichi d'india e sorbe, more e gelsi che poi vende alla vicina trattoria. È poca cosa, ma le dà la sensazione di contribuire e ne trae grande soddisfazione.
Si arrangiano insomma e insieme, la bimba all'inizio del lungo percorso che la porterà a diventar donna e la nonna ormai giunta alla fine dello stesso sentiero, tirano a campare senza angosce. La vita può essere bella anche così.

Rosa richiama il cane che si era steso all'ombra del fico con uno schiocco della lingua. Lui la guarda esitante (è proprio necessario che venga anch'io?), non gli va di camminare sotto il sole cocente.
È un cane che si trova a suo agio nel freddo e soffre la calda estate cilentana.
La bambina non si dà pena di controllare che il suo amico la segua, sa che lui non la lascerà andar via da sola, e prosegue verso il muretto a secco che delimita la proprietà. Un piccolo cancello arrugginito ne segna l'accesso. Lo scavalca mentre la gonna si solleva scoprendo le gambe, magre e abbronzate come il resto del corpo.

Il cane è al suo fianco. Non ha potuto resistere al richiamo d'amore, più costringente di mille guinzagli. Avrebbe preferito starsene tranquillo sul pavimento, al fresco, ma se la sua amica va, ebbene va anche lui.
Rosa è piccola e magra, dimostra molto meno dei suoi tredici anni. È un classico tipo mediterraneo, carnagione olivastra, capelli d'un nero così lucente che la luce del sole pare riflettersi, la configurazione minuta. Ma in tempi remoti sicuramente una delle donne della sua famiglia ha incrociato un normanno e ogni tanto quella razza ricompare negli occhi azzurri di qualche discendente. La ragazzina è una di loro.
Fa uno strano effetto vedere i suoi occhi cerulei sul volto moresco e pochi riescono a sostenerne lo sguardo.
Non è bella. La fronte troppo alta, a malapena nascosta da una disordinata frangetta, gli zigomi sporgenti nel viso affilato, il naso lungo ... E poi è troppo magra, con braccia e gambe nodose. Ma i suoi movimenti sono pieni di grazia istintiva e di agilità ferina, mentre gli occhi esprimono tutto il mondo racchiuso nella sua mente, e che la sua bocca non dice.
Occhi inquietanti, carichi di un dolore antico, di una sofferenza che non è giusto vedere nello sguardo di una bambina. E tuttavia quei pochi che riescono ad andare oltre, troppo innocenti o troppo cinici per farsene intimorire, non vi trovano ciò che pensavano. Non c'è rassegnazione in lei, ma una decisa voglia di sfidare il destino, di camminare a testa alta e prendersi dalla vita ciò che la vita le ha negato. E per questo è bella.
È una bambina scontrosa e solitaria e quando la scuola finisce trascorre le sue estati rifuggendo la compagnia dei coetanei.
Le piace andare a scuola. O meglio, le piacerebbe. Sarebbe bello imparare, spostare ogni giorno in avanti la linea dell'orizzonte, ma per lei scuola significa solo tormento: per la solitudine intellettuale in cui è lasciata - la sua menomazione scambiata per deficienza intellettiva - per la promiscuità indesiderata, per gli scherzi feroci dei suoi compagni che meno degli altri sanno capire le parole inespresse.
Rosa è muta dalla nascita.
E un senso errato di rivalsa la prende: se gli altri non vogliono o non sanno capirla perché mai deve essere lei a fare il primo sforzo verso la comprensione? Non ha bisogno di altro amore che non sia quello della nonna, né dell'affetto o dell'amicizia degli altri. Sono sentimenti che vede scorrere intorno a lei come un vasto, placido fiume che non arriva mai a lambirla.
Non ne ha bisogno. Indossa la sua solitudine come una corazza d'acciaio. Alle volte qualche colpo più profondo la ferisce e allora si nasconde da qualche parte a piangere il suo pianto silenzioso.
Ma più spesso è come adesso e percorre la sua via con sovrana, altera indifferenza, e senza rendersene conto il suo passo assume la gravità dei saggi.

Il cammino lungo l'assolata stradina la porta al mare poco distante. La via è delimitata sulla sinistra da un muro ricoperto d'edera e muschio secco su cui si affacciano i fichi d'india, troppo in alto perché lei arrivi ad afferrarli e da una ininterrotta teoria di casette imbiancate a calce sulla destra.
Senza alcun preavviso le case finiscono e, mentre il muro continua a correre fino a perdersi in lontananza, di fronte e a destra lo sguardo si apre sul mare abbagliante. La spiaggia è deserta. Tra qualche ora si riempirà ancora una volta, nell'incessante ripetersi di ogni altro giorno, ma per il momento è come piace a lei.
Alla sua destra c'è una grande estensione di scogli che affiorano dal fondo.
Questi scogli, che si protendono nel mare per un paio di chilometri e poi terminano improvvisamente cedendo il posto al fondale sabbioso dieci, venti metri più sotto , su cui nuotano e si celano le piccole sogliole marroncine del mediterraneo, sono la sua meta preferita.
Non oggi però. Oggi ha voglia di giocare con la spiaggia. Si toglie il vestito stinto dai troppi lavaggi e lo poggia su uno scoglio, incurante dell'acqua che arriverà a lambirlo con il sopraggiungere dell'alta marea.
Indossa un costumino azzurro, lo stesso da quattro anni a questa parte. Le tira un po' sulle spalle, ma questo è tutto. Non è cresciuta poi così tanto da non poterlo più indossare.
Corre sul bagnasciuga, lascia fugaci tracce nella sabbia umida, subito cancellate dal rivenire dell'onda. Il cane la segue, interrompendo a tratti la sua corsa per tuffarsi nell'acqua, ma ne trova scarso refrigerio. Certo, non è calda come l'aria, ma nemmeno fresca come gli piacerebbe. Se potesse parlare direbbe che assomiglia alla minestra tiepida che a volte gli danno da mangiare. Anche Rosa si butta in mare, scompare alla vista del cane immergendosi a raccogliere le pietre colorate del fondo o a raspar la sabbia con le dita in cerca di telline e cannolicchi.
Quando ne trova qualcuno emerge rapida col pugno levato, stringendo il bianco trofeo tra le dita scure. Con gesti precisi dettati da una lunga esperienza apre sicura le valve e mangia al momento i saporiti molluschi, crudi. Ogni boccone, un morso di mare. Il cane la guarda, in attesa. Sa che qualcuno toccherà anche a lui.
D'improvviso Rosa si allontana velocemente verso il mare aperto, poi smette di nuotare e si agita nell'acqua, muove frenetica le braccia sollevando alti spruzzi, fingendo di annegare.
Il grosso cane riconosce lo scherzo ma sta al gioco e accorre in aiuto della sua padroncina. Le zampe poderose affondano con forza nell'acqua. È quasi giunto ad afferrarla quando la traditrice smette di agitarsi, prende un gran respiro e si immerge, nuotando sott'acqua per non farsi scorgere.
Pochi metri più in là ricompare, la testina mora che lo dileggia affettuosamente con delle buffe boccacce.
Rosa esce dall'acqua, i lunghi capelli sgocciolanti, e si sdraia soddisfatta mentre lo sguardo fissa un punto che non esiste.
Il pacifico cagnone non si cura delle innocenti offese e ritorna lentamente a riva. Sulla spiaggia si scrolla vigorosamente con quello strano dimenarsi dei cani che parte dalla testa, prosegue a ondate lungo il corpo e finisce con l'ultima scrollata della coda potente.
Soddisfatto, si stende anche lui sulla sabbia e ci si rotola dentro. Scaglie d'oro e diamanti rimangono impigliate nel folto pelo. Tutta la lunga spiaggia è un brillio bianco e giallo fino all'orizzonte: è un luogo incantato in cui vivere una favola dolce.
Miraggi d'acqua appaiono allo sguardo e fantasmagoriche immagini solleticano la fantasia della bambina: ora è la principessa araba rapita dai predoni che l'hanno abbandonata nel deserto, destinandola a una morte crudele. Una nuvola di sabbia si affaccia all'orizzonte: è la tempesta che si avvicina e che - lei senza riparo alcuno - la seppellirà. Ma pure nel suo terrore non teme: chi l'ama giungerà in tempo, forte e impavido, e la porterà in salvo.
Il nero signore del deserto conosce le segrete vie per attraversarlo in fretta e verrà a prenderla.
Purché faccia in tempo. Il sole non conosce amici o nemici e dardeggia implacabile infuocando la duna. Il pensiero di lei cerca di valicare il deserto, di correre più veloce della tempesta che incalza. Un rosso dito roteante si avvicina sempre più e ogni metro che avanza diventa più grosso e pericoloso.
Finirà anche lei come la sabbia, prigioniera senza scampo della tempesta? La certezza le viene meno, china il capo ormai e si accuccia in una sterile difesa contro il vento violento. Se la morte deve venire, che giunga al più presto.
Immedesimata nella sua fantasia la bambina emette un gemito. Premuroso il cane le si avvicina, le lambisce la guancia con una confortante carezza, poi le si sdraia al fianco poggiando il grosso testone sul petto, lì dove piccoli seni stanno fiorendo piano. La guarda con occhi umidi, resi liquidi dall'amore per lei: una domanda inespressa. La manina scura affonda nel pelo, grattandogli lieve il torace.
È salva. Superando ogni frontiera chi l'ama è venuto da lei. La tempesta scompare in lontananza.

Il sole che si abbassa fa allungare le ombre. Ancora un poco e la spiaggia solitaria non sarà più tale. Per Rosa è giunta l'ora di allontanarsene lasciandola ai chiassosi invasori.
Gli ombrelloni dell'unico stabilimento, costruito con assi di legno grezzo, sono disposti in file ordinate che creano una macchia di colore sulla sabbia uniforme. Non resteranno chiusi a lungo. Già sul lungomare si vedono arrivare i primi bagnanti del pomeriggio, perlopiù ragazzini che le madri non sono riusciti a tenere ulteriormente in casa.
Lei si riveste in fretta, indossando l'abito sul costume ancora umido. Non vuole affrontare i loro sguardi curiosi. Si dirige verso il muro che costeggia la spiaggia, cercando il varco che le consente di entrare nella pineta. È la via meno frequentata.
La pineta appartiene ai "signori" locali e non vi fanno entrare gli estranei. Solo pochi amici sono ammessi nella proprietà.
Rosa non fa certo parte di quella ristretta schiera, ma non per questo si fa scrupolo di entrarvi: non l'hanno mai vista e anche se fosse successo, non le hanno mai detto niente. Probabilmente l'unico a sapere che lei sfrutta quel sentiero è soltanto il vecchio giardiniere della baronessa e lui è uno dei pochi amici di Rosa.
Sono tutti anziani, i suoi amici. Forse perché in loro trova la comprensione senza pena, perché troppo hanno visto per piangerle addosso. Negli altri, i suoi coetanei o i vari ospiti estivi, trova solo scherno o insopportabile pietà.
Lì nella pineta il canto delle cicale è quasi assordante, è un suono che diventa via via più intenso , fino a far dimenticare che esista altro al di fuori di esso. Sembra ripetere la stessa monotona cantilena in continuazione, ma non è mai uguale.
Grazie alla sua grande sensibilità Rosa avverte le lievi differenze di tonalità, l'ondeggiare del canto in crescendo e diminuendo, il diverso spessore della voce. No, non è sempre uguale.
Le piace tanto la pineta! Qui non c'è più la luce abbagliante che lo sguardo non può sostenere senza schermo. Raggi di sole filtrano tra i rami, creano zone d'ombra variegate di sole e lì dove la luce passa appare un pulviscolo dorato che aleggia fra gli alberi.
Il suolo è ricoperto dal folto tappeto degli aghi caduti che attutisce il rumore dei passi. Nell'aria permane l'odore pungente della resina che stuzzica il naso, facendole venir voglia di starnutire.
Il luogo è così invitante che Rosa decide di rimandare ancora un po' il suo ritorno a casa. A quest'ora avrebbe dovuto essere insieme alla nonna a lavorare nell'orto adesso in ombra, ma sa che non verrà sgridata. Nonna Rosa (seguendo l'antica tradizione alla piccola è stato dato lo stesso nome della nonna) rispetta la sua libertà: conosce bene la nipotina e sa bene che, per un'ora di lavoro rimandata, la piccola ne farà due dopo. È una bambina fin troppo responsabile e l'aiuta già tanto. Deve dirle ben poco.
Forse anche lei si sente a disagio con la nipote. Non lo ammetterebbe mai, non è mai scesa tanto in profondità da analizzare i suoi sentimenti, ma la piccola la sconcerta.
C'è affetto, certo, dall'una e dall'altra parte, ma Rosa non è come gli altri bambini. È autosufficiente, indifferente alle esistenze altrui. Il suo affetto lo dimostra aiutandola in tante cose, ma non si è mai lasciata andare a una carezza, a un bacio.
E come non concede tenerezza parimenti non ne chiede.
Quante volte la nonna ha teso la mano verso il suo viso in un accenno di carezza e l'ha poi furtivamente ritirata sconcertata dai suoi occhi scrutatori che parevano chiederle meravigliati: - Che fai ? -
Cresciuta isolata anche per sua scelta, non ha mai provato a far comprendere a chi le stava vicino il suo mondo interiore, silenzioso ma ricco di idee e sogni.
L'unico verso cui ha reali dimostrazioni d'affetto è il suo cane. Con lui, forse perché dividono la stessa pena, i gesti teneri sono spontanei.
Nonna Rosa era stata così felice di accontentare la nipotina quando, tre anni prima, si era presentata con quel cucciolo fra le braccia, regalo imprevisto da una imprevista gravidanza.
Vedendola in piedi di fronte a lei, con gli occhi lucidi di gioia e emozione, le era sembrato che finalmente potesse essere come tutti i bambini. Eppure avrebbe dovuto capire che anche in quello era stata diversa.
Non aveva chiesto.
È vero, non aveva parole parole per parlare, ma non v'era nessuna domanda, nessuna preghiera negli occhi, solo la constatazione di un dato di fatto: il cucciolo era lì.
Se le avesse detto che non era possibile tenerlo non ci sarebbero state lacrime, ne era certa. Il cucciolo sarebbe stato portato fuori casa senza che un solo singhiozzo lacerasse il velo del dolore. Rosa era fatta così.
Non ci fu nessun assenso perché non c'era stata richiesta. La donna prese il latte, lo versò in un recipiente di plastica e disse:
- Dà questo al tuo cane per adesso. Poi vedrò di cucinargli qualcosa. -
Nei giorni seguenti seppe come mai la piccola aveva ricevuto quel regalo: la terranova di un villeggiante aveva partorito due bastardini, frutto di un amore illecito, e quando Rosa era passata davanti al giardino in cui c'erano i cuccioli e incantata era rimasta a guardarli, incurante per una volta della presenza di estranei, il padrone si era affrettato a dargliene uno. Rosa aveva teso le braccia per accoglierlo in grembo ed era tornata a casa.

Ciò che la nonna ignorava, e come poteva saperlo?, era l'erompere impetuoso della gioia nel momento in cui il cane era stato posto fra le braccia di Rosa, una gioia tanto grande che quasi ne veniva soffocata.
Il cucciolo si era subito trovato a suo agio e dopo averla guardata con occhi attenti aveva allungato la linguetta rosea a carezzarle il mento. Lei aveva dovuto sedersi a terra appoggiando le spalle al muro per meglio reggersi sotto la forza dell'emozione: ora quel nero palpito di vita era suo!
Fosse stato anche solo per il breve tratto per giungere a casa, le sarebbe rimasta per sempre la gioia di quei momenti.
Nonna Rosa ancora adesso, a tre anni di distanza da quel giorno, non sa decidere se sia stato un bene o un male l'aver accettato il cane in casa. Aveva forse sperato che badare a lui servisse ad addolcire il carattere di lei, inducendola ad aprirsi anche con gli altri. Ma Rosa non aveva mai scoperto il suo cuore, non aveva mai offerto se stessa ad altri che non fosse quella bestia.
E così li aveva visti crescere insieme. Inizialmente era la bambina che lo curava e proteggeva, insegnandogli ciò che voleva (e come ci riuscisse era rimasto un mistero) ora invece è lui a prendersi cura di lei.
La segue ovunque e, tranne la scuola, non ci sono altri luoghi in cui la bambina vada dove il cane non può.
Rosa preferisce rinunciare ad andare piuttosto che farlo da sola.
La nonna non è molto soddisfatta di questo eccessivo attaccamento, ma almeno sa che in ogni momento la sua nipotina è al sicuro. Non che vi siano molti pericoli nel loro paese, ma specialmente d'estate, con tante persone nuove, non si può mai sapere. E il cagnone, normalmente dolce e pacifico, se vede pericoli per la sua protetta emette un ringhio basso, di gola e di cuore, raggrinza le labbra scoprendo i denti bianchissimi e con il suo solo aspetto scoraggia chiunque.
E dato il carattere libero e le abitudini vagabonde della bambina, non è certo un male per lei avere tale compagnia.
La nonna non sa mai di preciso dove Rosa passi le sue ore solitarie, e questo prima era causa di continua preoccupazione e di rimproveri ma ormai non se ne dà più cura. Chi meglio del grosso terranova può darle la sicurezza del suo ritorno a casa?
Questo atteggiamento apparentemente disinteressato spesso provoca discussioni con gli inquilini di turno. Non è raro infatti che qualcuno si erga a giudice del loro rapporto criticando l'eccessiva libertà di cui dispone la piccola.
Rosa detesta cordialmente questi estranei che vogliono intromettersi nella loro vita. A lei personalmente le loro parole non creano alcun problema, ma la nonna, già fin troppo ansiosa per il difficile compito di crescerla che grava solo sulle sue spalle, si agita e si pone altri dubbi sulla sua capacità di educarla.
Queste persone che parlano in maniera colta di educazione, di sviluppo armonico della personalità, di obiettivi primari, la confondono. Lei è solo una vecchia contadina ignorante che cerca di tirar su la bambina come meglio può, aiutata dalla sua esperienza e dall'amore che nutre per la figlia di sua figlia. Sfortunate entrambe.
La vita non è stata facile per nonna Rosa, sopravvissuta senza desiderarlo a coloro per cui il destino ha deciso una morte prematura; il destino, o forse il Dio della sua infanzia, terribile e imperscrutabile, il Dio in cui ancora crede senza più amarlo.
Il suo corpo precocemente insterilito aveva generato solamente due figli: del primo, morto pochi giorni dopo la nascita, le è rimasto solo l'atroce dolore provato, dolore che ha reso minori e indifferenti tutti gli altri, e insieme il cupo rimpianto dei giorni non vissuti; alla figlia preferisce non pensare, preferisce dimenticare l'angoscioso sollievo provato alla sua morte che aveva messo fine a anni di sofferenza.
Di tutte le promesse che la vita aveva fatto alla sua discendenza l'unica mantenuta era stata il nuovo frutto. Ma Rosa non ha mai conosciuto il volto di sua madre, né il sapore del suo seno: il primo latte bevuto aveva il gusto del caucciù della tettarella e mentre lei succhiava la sua mamma moriva.
Rosa non avrebbe dovuto nemmeno nascere anzi, non avrebbe dovuto nemmeno essere concepita: i medici avevano sconsigliato la madre di affrontare una gravidanza che avrebbe compromesso il fragilissimo equilibrio del suo corpo malato, inutilmente. Lei aveva voluto un figlio a tutti i costi, e ne aveva pagato coscientemente il prezzo più alto.
Gabriella Grieco
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