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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Autore: Arnaldo Citterio
Titolo: Il ritorno di Quel piccolo bastardo
Genere Fantascienza Esoterica
Lettori 3445 37 58
Il ritorno di Quel piccolo bastardo
Rapa Nui
“L'anima è l'unica cosa che per sempre rimarrà indelebile nel ricordo di chi ci ha amato”.

Sembrava una sera d'estate dove le cicale accompagnano il calare del sole fino al sopraggiungere dell'oscurità. Solo che era inverno. Il gelo impediva alle cicale di cantare e la bru-ma sostituiva il tramonto. John doveva portare a termine il suo compito. Prima dell'alba l'ambasciatore del Turkmeni-stan doveva morire. Così gli avevano ordinato. Scese dal crossover blindato di colore nero con targa diplomatica. Si alzò il bavero del trench che indossava e si assicurò che il suo Desert Eagle Silencer fosse pronto al suo fianco con il silenziatore montato. Non si chiedeva il perché, era adde-strato ad eseguire gli ordini senza pensare. Si appoggiò a un lampione, all'apparenza incurante di quanto gli succedeva intorno. L'obiettivo arrivò davanti all'entrata del palazzo sede delle Nazioni Unite su una berlina scura e si fermò a pochi metri di distanza. L'ambasciatore, ignaro di quanto gli stava per succedere, scese dall'auto dirigendosi verso l'entrata dell'edificio. John sostava nell'ombra.
Quando l'ambasciatore si accorse di lui era ormai troppo tardi. Estrasse il suo fedele revolver e mirò alla fronte del suo obiettivo. Per un attimo gli sguardi s'incrociarono. Esi-tò. L'ambasciatore era suo padre, che dopo essersi ritirato dal mondo del lavoro, aveva accettato quell'incarico, pro-posto da una delle sue “alte” conoscenze. John premette il grilletto.

“Un rumore assordante è simile al silenzio
quando non si sente nemmeno il battito del cuore”.

Capitolo 1: Epurazione

L'organizzazione chiamata la “Confraternita della Verità”, aveva deciso di eliminare dai propri ranghi tutti gli agenti deviati che due anni prima cercarono di creare un ennesi-mo cataclisma universale, quello che sarebbe accaduto se il reattore del CERN fosse esploso causando, non solo lo scioglimento dei ghiacciai come immediato effetto a cate-na, ma anche il contagio del Virus a tutte le apparecchiatu-re elettroniche del mondo.
Solo una persona con coraggio e sacrificio riuscì a fermare il complotto. Quella persona era John, che morì su un mar-ciapiede davanti ad una vecchia osteria di Ginevra, appena dopo aver portato a termine il suo compito.
Morì...

La “Confraternita della Verità” non poteva permetterlo.
All'interno dell'osteria Ouldrick si accorse di qualcosa.
Finalmente capì perché la donna dal volto coperto gli aves-se ordinato di frequentare quel luogo tutti i giorni; il mo-mento era arrivato.
Ouldrick chiamò subito un mezzo dalla base: il solito 238, il veicolo di trasporto terrestre, fornito di ogni accessorio compatibile con la tecnologia attuale, compreso un motore a idrogeno da 300HP, non ancora a disposizione della mas-sa. Il mezzo arrivò in due minuti con una squadra a bordo. Caricarono John nel vano posteriore, scherzando con i pas-santi sul fatto che come al solito era ubriaco e facendo pas-sare la pozza di sangue per del vino sbadatamente finito a terra. La squadra di pulizia fece il suo lavoro.

Gli scienziati teosofi della Confraternita sapevano come agire. Studiando gli antichi manoscritti segreti dei Templa-ri, avevano capito come ridare vita ad un corpo esanime. Scienza e misticismo, esoterismo, cellule staminali e... un biochip. Un insieme di arte e conoscenza che somministra-vano solo in casi eccezionali per le persone più meritevoli o per quelle che non avevano ancora portato a termine il proprio scopo.

“...Li strapperò di mano agli inferi, li riscatterò dalla morte” (Isaia 26:19; Daniele 12:2,13).

Il corpo di John fu portato a Forte Bramafan, una fortifica-zione adibita a museo che si trova alle appendici del Fréjus, e che in realtà nasconde un laboratorio segreto della Con-fraternita.
La procedura “Ghost-Resurrection”, così veniva chiamata in codice, prevedeva la riprogrammazione di tutte le cellule del corpo danneggiato utilizzando particolari computer quantici. Ma non era esente da rischi, un eccessivo valore di energia utilizzata poteva creare effetti collaterali davvero indesiderati, considerando anche che tale energia non era di tipo comune. Infatti i computer quantici non usano l'alimentazione standard, bensì quella emanata dalle menti dei Maestri della Confraternita.
Un biochip di ultima generazione aveva il compito di pre-servare il carattere e le peculiari caratteristiche della perso-na a cui era destinato. Ad ogni agente della Confraternita ne era stato assegnato uno, a sua insaputa. La memoria del biochip non solo raccoglieva tutti i dati psicologici dell'individuo, cominciando dalla cartella clinica natale, ma conteneva tutti dati sulle esperienze vissute raccolte da Echelon-3, il sistema di spionaggio che tramite un'intelligenza artificiale era in grado di decifrare e racco-gliere tutta la vita della persona a cui era indirizzato, com-presa la registrazione delle emozioni.

“Se un giorno il vento si fermasse
coriandoli e stelle filanti cadrebbero al suolo.
Ma i colori che abbiamo saputo donare
rimarranno per sempre".

Capitolo 2: Ghost-Resurrection

L'involucro di John fu trasportato con una barella “ellitti-ca” nei sotterranei del forte, dove un'equipe formata da chirurghi teosofi era già pronta. Ogni volta che Ouldrick entrava in quella sala operatoria, non poteva fare a meno di provare una strana sensazione: le mura medievali del forte e il lastricato di pietra improvvisamente lasciavano il posto ad un ambiente di ultima generazione. Un sistema di porte comandate da una centralina pneumatica, garantiva la steri-lità della camera bianca, dove una serie di apparati assicu-rava il supporto vitale sia del paziente sia degli stessi medi-ci. Poteva sembrare tutto normale, almeno per una clinica moderna, se non per il fatto che intorno alla sala, protetti da una vetrata, c'erano loro, i Maestri della Confraternita, vestiti di nero e a viso coperto, (‘come la signora', pensò Oul-drick); concentrandosi dovevano collegare l'energia dell'universo con quelle macchine. Infatti, tutto il percorso, dall'entrata dei sotterranei alla sala operatoria, era illumina-to solo da candele, mentre la luce della sala era di un tenue chiarore azzurro.
Il rituale iniziò appena John fu sistemato nel centro della sala. Ouldrick si girò ancora una volta, iniziò a farsi il se-gno della croce, ma si trattenne mentre un brivido gli corse lungo la schiena. Rimase indietro e vinto dalla curiosità, si appostò nell'ombra per osservare la scena.
I Maestri erano in piedi, le braccia alzate con i palmi delle mani rivolti al cielo. Una specie di vortice di luce inondò la sala.
Solo allora Ouldrick si accorse con stupore che i chirurghi erano bendati. Il cranio di John era stato completamente rasato e un lenzuolo nero copriva il resto del corpo posto supino. La luce fluttuava come se l'energia dell'universo, usata in quel modo, non fosse completamente d'accordo. I chirurghi teosofi ora apparivano più dei tecnici elettronici che dei medici. Il corpo di John, ora completamente nudo, venne collegato con decine di elettrodi agli apparati che si erano messi in funzione. Il programma di rigenerazione cellulare “Ghost-Resurrection” iniziò il suo lavoro. Ogni cellula del corpo ricevette l'energia trasmessa dai Maestri.
Una fresa intracranica comparve improvvisamente nelle mani del Primo chirurgo teosofico che praticò un'incisione all'altezza della ghiandola pituitaria. L'ipofisi comanda molti organi del sistema nervoso e governa il metabolismo della persona, inoltre è collegata all'epifisi, la ghiandola pi-neale in “letargo”, sede del Terzo Occhio. La scienza teo-sofica scoprì che per ridestare un “non-morto”, occorreva risvegliare questa ghiandola e questo era il compito del biochip che il primo chirurgo si apprestava a innestare nel cranio di John durante una sorta di rituale esoterico.
L'operazione non era esente da rischi, tutto dipendeva dall'essere che aveva abitato l'involucro del paziente. Se il sesto chakra, il cui colore è l'indaco, fosse stato aperto in maniera sbagliata o fosse precedentemente appartenuto a un essere malvagio, le facoltà acquisite al risveglio potreb-bero essere terribili.

“La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tut-to il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”.

(Vangelo secondo Matteo 6,22-23).

Solo i Maestri erano autorizzati ad assistere, una minima interferenza esterna poteva mandare all'aria l'intera opera-zione o peggio: il paziente poteva risvegliarsi nel lato oscu-ro della coscienza.
Ouldrick, che in cuor suo aspirava a diventare Maestro, aveva gli occhi sbarrati, non riusciva a comprendere quello che vedeva e portandosi le mani al viso, urtò accidental-mente un candelabro che finì rovinosamente a terra. L'energia dei Maestri ebbe un attimo di fluttuazione pro-prio mentre il Primo chirurgo teosofo stava collegando il biochip all'epifisi di John.

"Quando la nebbia si fa respirare
e il gelo circonda la tua strada,
fermati e aspetta la primavera".

Capitolo 3: Il risveglio

Il marciapiede freddo, le auto che sfrecciavano incuranti, l'insegna della vecchia osteria accesa e una sensazione stra-na di benessere. Questo era quanto ricordava John quando riaprì gli occhi.

“Così è la morte?” Pensò, “dove sei Geppetto...”.

Non sentiva il corpo, ma nel silenzio assoluto poteva udire il flusso del suo sangue scorrere nelle vene spinto dal batti-to del suo organo cardiaco. La stanza in cui si trovava era bianca, circondata da vetri scuri. Con orrore realizzò di es-sere collegato a centinaia di cavetti che trasportavano i dati dei parametri vitali di ogni organo verso l'elaboratore cen-trale. Poi si accorse di una presenza.

- Ben tornato John, non cercare di comprendere dove ti tro-vi, perché appena il tuo corpo si sarà ristabilito, la tua men-te perderà ogni ricordo di questa stanza e di questa conver-sazione -

La donna dal volto coperto spense la luce e uscì dalla stan-za, doveva trovarsi con tutti i Maestri nell'Head Quarter della Confraternita per conoscere i dettagli sulla riuscita dell'operazione “Ghost-Resurrection”.

La mente decise di accettare quell'oscurità che improvvi-samente s'impadronì di John e spense tutti i sistemi cogni-tivi.
Quando si risvegliò, era sul solito marciapiede davanti alla vecchia osteria, si rialzò e provò a ricordare quanto era suc-cesso.
Il CERN era ancora attivo, i ghiacciai non si sarebbero sciolti, il virus era stato debellato, la fine del mondo scon-giurata. A fatica si alzò in piedi e si tastò il corpo.

“Strano, ero convinto di essere ferito”.

In realtà non provava nulla e qualcosa non gli tornava. Os-servò i dintorni, le case dagli scuri abbassati, le solite auto che transitavano in prossimità dell'incrocio, il semaforo... si stropicciò gli occhi, li chiuse più volte, si chiese se il se-maforo funzionasse e infine capì: non vedeva più i colori, la sua realtà era diventata in bianco e nero.

“Sì, così è la morte”.

ALLA MORTE
Pallido il sole, sul grigio suolo scarlatto
bianche orchidee sopra il nero selciato,
di soppiatto ti osservo vestita di scuro
sull'urlante piazza gremita di gente.
Non alzi lo sguardo, non ti poni dilemmi.
Lasci alle genti mari inquieti.
E con il pungente sapore di fragole amare
ridipingi l'aria di un gelido azzurro.
Udirò ancora il tuo canto discreto
morire e rinascere in un giorno qualunque?

Capitolo 4: La Missione

“Macché, sono vivo e vegeto, anche se più “vegeto” che vi-vo...”.

Mentre formulava questi pensieri, le sensazioni di John erano confuse. Un 238 nero lo affiancò e il portellone late-rale si aprì.

- Salta su, John! -

L'interno del veicolo terrestre in dotazione ai membri della Confraternita era fantascientifico: uno sfarfallio di led mul-ticolori accompagnava il silenzioso ronzio degli strumenti di bordo. Anche la luce dell'abitacolo era azzurra. Peccato, John vedeva tutto grigio e bianco, anzi indaco.

La donna dal volto coperto gli consegnò un plico.

- È la tua missione, contenuto e busta si autodistruggeranno 60 secondi dopo l'apertura, leggi le istruzioni in fretta -

“Un'altra Mission impossibile?” Pensò John ricordandosi di una famosa serie di “action-film” del ventunesimo seco-lo.

Il 238 si fermò due isolati più in là, John fu spinto fuori e il mezzo si allontanò nell'oscurità della sera.
Fissò la busta, la rigirò tra le mani come indeciso, poi senza nemmeno volerlo davvero la aprì, estrasse un foglio e lesse.
Esattamente sessanta secondi dopo, il foglio e la busta sva-nirono come in un trucco di prestidigitazione, lasciando so-lo un refolo di fumo.
Le istruzioni contenevano solo un indirizzo e l'ordine di re-carvisi al più presto. John s'incamminò con fare deciso.

"La mente va allineata con il tempo".

Capitolo 5: La vecchia Osteria

Mentre camminava, pensò a com'era arrivato in quella si-tuazione e senza neanche accorgersene si ritrovò davanti alla vecchia Osteria. Immediatamente gli ritornò in mente Geppetto...
Si fermò in preda alla confusione più totale, l'ultima volta che era entrato in quell'Osteria una voce gli disse:

- Ciao Geppetto, ti stavo aspettando... -

Comprese quindi che Geppetto non esisteva, tutti i dialo-ghi, le elucubrazioni esistenziali, i suoi problemi... erano solo sue profonde meditazioni, un incontro con sé stesso.
“Perché proprio qui?” Si chiese.

Esistono dei luoghi speciali per ognuno di noi, dei posti, dove per qualche strana ragione ci sentiamo bene, dove riu-sciamo a percepire l'energia positiva e le persone sembrano amici di vecchia data. In questi posti possiamo ritrovare la giusta atmosfera per guardarci in fondo all'anima e fare i conti con noi stessi.
La vecchia Osteria sorgeva nel centro storico di Ginevra in Rue Rousseau, la via che portava al fiume Rodano che at-traversa la città. Ma quello che John non sapeva, era che il ponte sul fiume, Pont de la Machine, portava alla Grand-Rue dove al numero civico 40 nacque proprio Jean-Jacques Rousseau, il celebre filosofo calvinista del ‘700. Rousseau era considerato un illuminista, anche se in netto contrasto con le tendenze di pensiero del suo secolo. La sua filosofia è un'aspra critica della civiltà come causa di tutti i mali e le infelicità della vita dell'uomo, con il corrispondente elogio della natura vista come depositaria di tutte le qualità positi-ve e buone.
Si narra che Rousseau fosse un frequentatore dei locali di quella zona e con ogni probabilità proprio della vecchia Osteria. Per questo l'atmosfera del locale era particolare, lo spirito di Rousseau pervadeva ogni angolo e John lo aveva sentito senza rendersene conto.
Entrò. Il locale era semi-deserto, una fioca luce illuminava il bancone e i soliti tavoli di legno erano apparecchiati con le classiche tovaglie a quadri, “tutto come sempre”.
Scostò una vecchia sedia tarlata e si sedette vicino alla ve-trina, una bottiglia di vino rosso e un bicchiere erano già pronti sul tavolo come ad aspettarlo. Di colpo John piom-bò nell'atmosfera di sempre, ma questa volta non c'era nes-suno seduto di fronte a lui. La sua mente vagò come un ca-vallo a briglie sciolte e si fermò ancora una volta davanti a quella fabbrica nella via nativa, dove un uomo che credeva amico aveva abusato di lui cancellando in sol colpo la sua fanciullezza. Realizzò che l'indirizzo contenuto nella busta indicava esattamente quella destinazione.

Quella sera suo padre non disse nulla, ma lo guardò con fare torvo misto a disprezzo o così gli sembrava. John deci-se che doveva liberarsi in modo definitivo da quel fantasma del passato.
Uscì dall'Osteria con un intento: recarsi a Milano, proprio in quella via, mentre lo spirito di vendetta si stava impa-dronendo del suo cuore.

"Diamo il giusto rispetto al passato
senza che la sua ombra offuschi il presente".

Capitolo 6: La fabbrica

Prima di decidersi ad andare direttamente in quella via, John ripercorse sette volte il tragitto in treno tra le stazioni di Rho-Fiera e Milano Centrale. In quel tratto di città, i bi-nari correvano su una massicciata costeggiando la grande fabbrica e offrendo quindi un'ampia vista del suo interno. John non era incerto sul da farsi, stava solo pianificando nei dettagli il suo piano.

Il treno correva attraversando il quartiere natio di John.
Gli alberi sfrecciavano con le fronde mosse dal vento cau-sato dal convoglio. Ecco l'ospedale Maggiore di Niguarda, con i suoi muri bianchi. Si potrebbe scrivere più di un libro su di esso, è enorme, pieno di palazzi e padiglioni costruiti originariamente da Mussolini.
È una città dentro una città. Un luogo purtroppo intriso di dolore e morte. “Lo conosco bene, so persino entrare con l'auto, corrompendo le guardie”.
La scuola dove si diplomò senza neanche troppa fatica. Cinque anni di assoluta ignoranza, libri ancora nuovi, quasi mai aperti e libri vecchi strappati, comprati strausati al mercatino della “Statale”, l'università di Milano. Cinque anni in una scuola maschile, dove gli ormoni inappagati fa-cevano a botte con la solitudine di un ragazzo che non stu-diava mai, perché non ne aveva la forza. Il treno, inarresta-bile, continuava la sua corsa sopraelevata, incrociando stra-de e viali e passando su ponti e cavalcavia che potevano raccontare le storie più fantasiose.
Da ragazzo girava molto, era sempre in strada, inizialmente a piedi, poi in bici e dopo in motorino. E a piedi, spesso si recava su quei binari, per gioco, come una stupida sfida. Quante monete schiacciate dai vagoni, quanti chiodi dive-nuti "scimitarre".
La scarpata che fiancheggia questo tratto di strada ferrata ospita ancora una fitta vegetazione. I ragazzi costruivano le capanne tra quelli arbusti e spesso si ferivano con le ortiche o le spine dei rovi. Un giorno, vicino a un campo incolto, trovarono persino una vipera.
“Ecco, ora sto attraversando la via dove sono nato”, una squallida via di periferia, dove le fabbriche attaccate alle case di rin-ghiera contribuivano a colorare di grigio il cielo. La sua ca-sa natia invece era una villa, eredità di famiglia.
Troppi ricordi dolorosi.

Arrivato al settimo viaggio, scese dal treno con la consape-volezza di aver elaborato ogni particolare. Dal suo nascon-diglio segreto, raggiunto tramite l'indirizzo che aveva rice-vuto dalla donna dal volto coperto, prelevò il materiale che occorreva quella notte stessa: una ventina di chilogrammi di esplosivi, attrezzi vari e quattro cellulari. Salito sull'auto, che aveva noleggiato una settimana prima, si diresse verso il suo quartiere natio.

Erano le 23.30 quando John arrivò nei pressi della fabbrica e parcheggiò dopo il ponte su cui passava il treno. Quel ponte che era stato un fedele compagno di giochi, con una palla di plastica che rimbalzava tra i muri come a nascon-dere la solitudine di un ragazzino di dieci anni. Scese dall'auto chiudendo piano lo sportello, il suo sguardo si soffermò sulla staccionata che ancora divideva la strada dal sentiero che conduceva all'antro della “strega”.
“Maria trebigoli” ricordò John mentre la sua mente iniziò a percorrere quella storia di bambini. Una piccola storia di quartiere, una leggenda che da bambino faceva tremare John di paura.

"Nessuno dovrebbe dimostrare niente se non a sé stesso".

Capitolo 7: La leggenda di Maria, detta "trebigoli".

Lungo il sentiero che costeggiava il tratto di scarpata che dalla via portava nel viale parallelo, circa mille metri di uno stretto passaggio ricavato tra i muri delle fabbriche e la ve-getazione, c'era una caverna. E in quella caverna viveva una persona. Per la precisione una donna, una megera. John ri-percorse ogni dettaglio di quella storia.
A quel tempo viveva a Milano nella casa natia. Come ac-cennato, era una villa con annesso un cortile che dava su un'officina. In quel cortile era cresciuto tra scarti di fonde-ria e scarafaggi, uno in particolare: Cleto (in quel periodo era il suo migliore amico). Appena fu grande abbastanza da scappare dal cancello o scavalcare il muro, lo fece e si ri-trovò a giocare in strada tra le auto. La via era triste, cir-condata da ditte e case popolari. In fondo c'era il ponte sul quale transitava la ferrovia. Tra la scarpata e il recinto di una di queste ditte, c'era e c'è ancora, un sentiero lungo cir-ca un chilometro. La leggenda che circolava allora raccon-tava che a metà di questo sentiero sorgeva una caverna do-ve abitava una megera cattiva.
Negli incubi John, spesso si ritrovava a scappare dalle grin-fie di quella vecchia strega.
Quella sera del 31 ottobre 1974, con un gruppetto di amici, decise di avventurarsi sul sentiero per scoprire cosa c'era nel mezzo. In effetti qualcosa di strano c'era, perché ogni tanto passava qualche uomo, e del resto, il sentiero appari-va battuto. Un po' per noia, un po' per spirito d'avventura, i ragazzi iniziarono la perlustrazione alle prime ombre del crepuscolo. La sera avanzava veloce, come usa fare in que-sto periodo dell'anno e armati di una torcia, scavalcarono la staccionata che dava accesso alla stradina. Piano, piano si diressero verso la meta. Il sentiero non era illuminato e ac-cendendo la torcia elettrica, immediatamente delle ombre sinistre si disegnarono sui ciottoli. Anche i rumori soffusi in quel mentre sembravano confermare quell'atmosfera lu-gubre.
A un certo punto scoprirono qualcosa, il sentiero, allargan-dosi, si trasformò in una spelonca. Illuminarono l'antro "maledetto", notando per terra numerose impronte. I mat-toni rosso-scuri sembravano danzare alla fioca luce della torcia, senza dar modo di vedere la fine di quell'antro spa-ventoso che sembrava portare verso un'altra dimensione... oscura!
Improvvisamente una figura nera, avvolta da un mantello, comparse dal fondo della grotta.
E una voce cavernosa, accompagnata da rantoli demoniaci, intimò ai ragazzi di andare via.
Con i capelli dritti per lo spavento, percorsero quei cinque-cento metri di sentiero in un attimo e scavalcarono in fretta la staccionata, convinti di essere inseguiti dalla strega.
Per poco non ruzzolarono a terra per la foga, rischiando di farsi male.
Si ritrovarono lontano dal sentiero e guardandosi in faccia, un po' spaventati ma fieri di quello che avevano fatto, deci-sero di ritornare di giorno, spavaldi e armati di bastone.
Nei giorni seguenti il traffico in quel sentiero diminuì e dopo circa una settimana, un sabato verso le 11 di mattina, il gruppetto si recò al sentiero. Davanti alla caverna. Di giorno, con la luce, l'aspetto era decisamente meno spaven-toso. Si trattava di uno dei ponti della ferrovia costruito ogni tanto lungo la massicciata, ma non essendo utilizzato, era chiuso. Questa volta nessuno apparve e dopo una breve ispezione, i ragazzi fecero ritorno sui propri passi, un po' delusi.
La sera chiesero informazioni ai ragazzi più grandi.
Arnaldo Citterio
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