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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Donatella Rodighiero
Titolo: Dopo gli ultimi girasoli
Genere Narrativa Contemporanea
Lettori 3593 44 57
Dopo gli ultimi girasoli
Si era alzata presto come tutti i giorni che andavano da lunedì a sabato.
Per l'ennesima volta aveva dovuto subirsi le classiche e solite lamentele di Valerio, solite lamentele inesistenti ma che lo facevano sentire padrone di tutto, specialmente di lei. Con la sua faccia tosta incredibile, quella mattina, aveva preteso da lei il bacio del buongiorno. E dopo aver dato lui ciò che chiedeva, sforzato un sorriso, aveva chiuso la porta dietro alle sue spalle.
Un secondo e lo sentì bussare. Aveva riaperto e non aveva fatto in tempo a dire qualcosa che senti il suo pugno contro il suo viso. Era riuscita a tenersi alla libreria accanto alla porta così che la caduta fosse meno tremenda.
- Non ti azzardare più a chiudere la porta mentre ti sto parlando! Ti stavo dicendo che non tornerò a pranzo, sono in riunione. Ci vediamo questa sera - .
E se ne andò sbattendo la porta. Dalia era rimasta seduta sul pavimento senza lacrime. Solo l'ennesimo dolore che sarebbe sparito dopo alcuni giorni e che lui nemmeno avrebbe visto. Invisibile ai suoi occhi. Come il livido all'addome provocato dal calcio che le aveva rotto una costola. O il polso, rottosi cadendo dalla scala da lui tolta mentre lavava la finestra della cucina. Quella mattina dai suoi occhi non uscì nemmeno una lacrima. Sentiva il viso bruciare e il dolore al petto. Quel cuore che ancora soffriva nonostante ci fosse abituato.
Quel giorno era diverso. Si era alzata, per inerzia entrò nel piccolo bagno dove si era lavata il viso, fissò la Dalia dall'altra parte dello specchio, guardò il viso di lei, quel livido che andava formandosi attorno al suo occhio e gonfiarsi allo zigomo. Aprì il cassetto dove teneva il suo beauty case. Prese dal suo interno una scatoletta che fino al giorno prima conteneva il rossetto regalatole da Valerio. Non lo aveva mai usato. Un rosso intenso, le sarebbe stato anche bene, ma era rimasto li. Non aveva mai avuto l'occasione di metterlo. E decise che quella mattina era il giorno giusto. Passò lo stick sulle labbra, era veramente bello, lo richiuse con cura e lo ripose nel cassetto da cui ne tirò fuori un altro simile.
Lì dentro però non c'era un rossetto ma una fiala con all'interno un liquido trasparente. Quanto le era costata quella fialetta, tantissimo, quanto un biglietto aereo di sola andata in alta stagione, ed era quello che voleva, era quello di cui aveva bisogno. Aveva usato quasi tutti i suoi risparmi. Quelli che Valerio le aveva permesso di tenere. Un viaggio di sola andata via da tutto e tutti. Lo aveva trovato girando per il vasto mondo d'Internet, aveva salvato quella pagina con un falso nome, in modo che Valerio non la potesse trovare.
Per un certo tempo l'aveva anche dimenticata, un lasso di tempo dove Valerio era spesso fuori casa e di lei si era dimenticato, così da permetterle di respirare e guarire la sua costola rotta.
Ma come la costola guarì, anche Valerio tornò a ricordarsi di Dalia, in ogni senso. Passava dall'affettuosità alla rabbia in un nanosecondo. “Non ti azzardare ad alzare la voce”, “Non rispondermi”, “Non vali nulla”, “Quando parlo io, tu devi solo e sempre startene zitta”.
Non cambiò nemmeno quando Dalia gli disse che era incinta. Aspettava un bambino. Il suo volto s'illumino a quella notizia e per i primi tempi era addirittura contento e Dalia fece l'errore di abbassare la guardia. Perché non immaginava a quanto potesse arrivare il suo egoismo.
Dalia vedeva il suo corpo cambiare giorno per giorno e con quella mutazione fisica sentiva nascere in lei qualcosa che le regalava un briciolo di felicità.
E a Valerio quel cambiamento d'umore in Dalia non piacque. E come quel bambino fu creato, morì. In un atto che avrebbe dovuto essere amore, fu sfogo inimmaginabile di rabbia da parte di Valerio.
Il giorno prima aveva sentito per la prima volta il piccolo cuore battere forte. Dalia si risvegliò alcune ore dopo in ospedale, accanto al letto un'infermiera dai modi gentili che vedendola aprire gli occhi le strinse forte la mano. Seduta su di una seggiola fredda infondo al suo letto c'era Ivonne, la madre di Valerio, che la guardava stringendo a sé la sua borsetta griffata, i capelli in ordine perfetto, probabilmente appena uscita dal parrucchiere, conferma del completo di lana pesante color terra bruciata che le stava benissimo.
Dalia ricordò di aver richiuso gli occhi, quando la vide alzarsi e invece che lasciare la stanza le venne vicino prendendole la mano. E udì quelle parole facendo finta di dormire.
- Cara Dalia. La vita con un De Blasi non è facile, non lo è per nessuno, credimi, ne so qualcosa. Ma se puoi, appena puoi, vattene, vai lontano, non farti interdire dalle parole di Valerio, che, come suo padre, vuole solo un manichino muto accanto. Questo bambino lo aspettavo tanto anch'io. Forse è stato meglio così. Un bambino non deve nascere nella paura, o peggio, rischiando di diventare come suo padre. Vai lontano e creati una nuova vita. Ti aiuterò come posso, ma capirai che non ho tutta questa... Questa libertà. Rifatti una nuova vita, sono certa che potrai così godere della nascita di un altro bambino, da crescere in un ambiente sereno e non malsano. Ti voglio bene Dalia. Avrei tanto preferito che fossi tu mia figlia e non Valerio - .
La voce spezzata da un singhiozzo, dall'emozione e dalla paura provocata dal rumore di passi nel corridoio. L'infermiera accanto al carrello delle medicazioni aveva udito tutto, nonostante Ivonne avesse parlato a fil di voce accanto al viso di Dalia. Lesse la cartella di Dalia e la diagnosi: “Aborto spontaneo alla quindicesima settimana, provocato da febbre?”. La donna rimase con gli occhi puntati su quel punto interrogativo. E quell'aborto era tutto un interrogativo. Era tornata a casa Dalia. Ma nulla era cambiato. Nel silenzio del bosco poteva udire solo i suoi passi, che rallentò volontariamente. Le piaceva sentire il silenzio completo. Avrebbe voluto saper volare per non spezzarlo con i suoi passi.
Arrivò alla passerella che girava attorno al primo stagno, asciutto per le poche piogge, andò oltre, passando tra la fitta vegetazione che pareva inghiottirla. Ancora un sentiero e fu accanto al secondo stagno, scavalcò il piccolo torrente dove l'acqua allegra spezzava quel silenzio senza dare noia.
La panchina di legno era ricoperta da venti centimetri di neve, lo stagno era diventato argenteo per via della sottile coltre ghiacciata, che con gli alberi chinati su di esso dava l'impressione di un luogo abitato da esseri fatati.
Un incanto che lasciò Dalia a bocca aperta, gli occhi sgranati da quella meraviglia. Abitava in quel paesino che portava parte del nome, in onore al fiume Olona, che addormentato passava poco distante, da tanti anni percorreva le strade del paesino e i sentieri del parco pineta, non era la prima volta che arrivava ad addentrarsi nel bosco con tutta quella neve, e ne era felice. Era qualcosa di surreale.
Con la manica della giacca si fece un poco di spazio sulla panchina, tirò la giacca in modo da non sentire la neve sui pantaloni e si sedette li, ferma ad ammirare ciò che la natura regalava ai suoi occhi. Le mani chiuse in fondo alle tasche e una fiala quasi bella da vedere, chiusa nel pugno. Unica realtà in tutto quello.
Dalia alzò gli occhi al cielo che tornava ad essere bianco. In quel gesto il cappuccio della giacca tornò sulle sue spalle lasciando liberi i capelli neri che sfioravano il collo, tanto scuri da far risaltare la sua pelle chiara ancor più pallida e il rosso sulle labbra parve ancor più vivo. Tirò fuori le mani dalla giacca. La mano si aprì e davanti agli occhi ebbe quella fiala. Non aveva con sé il biglietto delle istruzioni, non le serviva, lo sapeva a memoria e quel bugiardino con la sua scatola era diventato fumo tra le braci con cui aveva cucinato la grigliata giorni prima. Sulla pagina del medico americano c'era la possibilità di scegliere tra vari dosaggi, tutto dipendeva dal peso che si aveva. Lei prese il maggiore, non per il peso ma per un più rapido effetto e sicurezza.
Glielo aveva consigliato il medico stesso “Non si può vivere quando non ne si ha più la forza”, lo aveva scritto sotto le modalità di utilizzo. Non aveva fretta. Sicura di restar sola per moltissimo tempo, e si guardò attorno, tutto era avvolto da un candido manto bianco, dove tronchi d'albero parevano disegnati a matita.
Quando guardava alla sua sinistra vedeva offuscato, segno che il suo viso e il suo occhio si erano gonfiati. Ma non le interessò, sfiorò quella parte e la sentì nitidamente sotto le dita. La coprì con un ciuffo di capelli e con gli occhiali scuri, chiuse gli occhi, la schiena appoggiata al tavolo accanto, e restò lì per vari minuti nel silenzio più assoluto.
- Ehi Biancaneve - .
Dalia fece per alzarsi velocemente colta di sorpresa da quella voce, ma finì per scivolare rovinosamente. Il terreno inclinato l'aveva portata a scivolare finendo sdraiata nella neve fresca.
Le venne da ridere, ma cercò di trattenersi pensando alla magra figura fatta davanti a quello sconosciuto che ancora non aveva ancora visto in volto.
- Stai bene Biancaneve? Ti devo baciare? Prenderti in braccio? Sei tutta intatta? Non volevo farti spaventare giuro! - .
Dalia cercò di alzarsi facendo forza sul suo polso difettoso ma faceva fatica, le doleva e il suo pensiero andò alla fiala che aveva in mano fino a pochi istanti prima e che ora non c'era più. Nel cadere le era scivolata dalle mani, la poteva vedere poco distante da sé. Sentì la mano di quello sconosciuto afferrare le sue ed aiutarla ad alzarsi, anche se non era necessario. Si sentì quasi sollevare come se fosse una bambina, anche perché le sue mani in quelle di lui parevano veramente tanto piccole.
- Capelli neri, incarnato bianco e labbra rosso scarlatto, veramente sembri Biancaneve. Non vedo il colore degli occhi però... - .
E fece per scostare la ciocca dal suo volto, ma non fece in tempo che Dalia girò si girò chiudendosi la giacca fino quasi al naso, da ché gli occhiali le erano scivolati via.

- Tranquilla non sono la strega cattiva, pensa che non digerisco nemmeno le mele - .
- La strega cattiva le mele le usa per gli altri non le mangia... - .
- Vorresti farmi intendere che sarei io la strega cattiva? - .
- Non ho detto nulla, e poi non credo nelle streghe cattive. C'è di peggio... - .
- Verissimo, c'è di peggio, per esempio quella cosa che hai appena messo in tasca, spero che tu sia qui solo per goderti questo silenzio - .
Dalia alzò finalmente lo sguardo verso lo sconosciuto. Gli scarponcini blu scuro da trekking, i pantaloni telati dello stesso colore, gambe lunghe e robuste, la giacca a vento bianca. “Ma non finisce più? Quanto cavolo alto è? Altro che strega cattiva, questo è il gigante in cima alla pianta di fagioli”.
Il suo alzare il capo permise a lui di veder il colore dei suoi occhi, ma anche lo zigomo e l'occhio livido gonfio e scuro che fin troppo risaltava sulla pelle tanto chiara. Dalia sentì qualcosa scombussolarsi dentro di lei. Guardava i capelli mossi e scuri di lui, lunghi fino alle spalle, la barba incolta e occhi tanto azzurri da sembrare privi di colore. La stava guardando mentre lei lo squadrava, cercando di non farsi notare.
Dalia si accorse dello sguardo di lui su di lei, che aspettava una risposta, probabilmente. 19 Risposta che non aveva intenzione di dargli. Chi era alla fine? Non lo conosceva e né lei conosceva lui. Avrebbe dovuto lasciare quel posto surreale rincasare per ritornare più tardi, sperando di non avere “visitatori” indesiderati.
Ma a casa Dalia non ci voleva tornare, non gli importava nulla se Valerio non sarebbe rientrato fino a sera.
Aveva messo le sue poche cose in alcune scatole usate, sarebbe bastata un'auto e un solo viaggio per portare via tutto. E se anche fossero rimaste li, poco le sarebbe interessata. Aveva calcolato tutto, si sarebbe avvicinata alla riva del piccolo lago e seduta sulla riva avrebbe fatto quello che doveva fare, poi sarebbe scivolata di peso in quell'acqua gelata, finendo sul fondo e li sarebbe rimasta per sempre. Ma con “quello” a poco più di due metri da lei non poteva, doveva rimandare. Sentiva lo sguardo duro su di lei, e in sé sentì nascere il disagio. - Addio - .
Fu l'unica, sola parola che uscì dalla sua bocca prima di andarsene. Ripercorse la strada a ritroso cercando di non farsi vedere mentre si guardava alle spalle per capire se fosse rimasto al laghetto o no.
Aveva percorso qualche centinaio di metri che lo vide con la coda dell'occhio camminare dietro di lei. Si fermava di tanto in tanto per fotografare il bosco tutto bianco.
Dalia estrasse il telefono e fece la stessa cosa e così facendo, prese un sentiero nascosto dalla neve alta. Sperando che non l'avesse vista, nascosta dietro a un albero, facendo finta di scattare alcune foto si voltò verso il sentiero principale, accertandosi che fosse andato oltre.
Non lo vide più. Si sentì più tranquilla e dopo aver atteso qualche minuto tornò sul sentiero principale, guardò lo schermo del telefono, segnava le otto meno un quarto. Era in quel bosco da un'ora e non aveva fatto quello che si era prefissata. Guardò a destra e sinistra, di quell'uomo non c'era più traccia. Le impronte lasciate nella neve andavano solo in un'unica direzione, ovvero verso l'uscita. Dalia riprese la strada fatta già due volte quella mattina. Tornò a prendere la direzione che portava al laghetto. Questa volta sarebbe andata oltre, sull'altra riva, invisibile a chi fosse passato. Certo più difficile era il passaggio per arrivare a quella sponda, ma non le interessava.
Arrivò nuovamente al lago e cercò di farsi largo tra i rovi e i rami secchi. Arrivò nel punto preciso che voleva. Da quella sponda tutto parve diverso. Non ci era mai stata e ciò che vide fu una novità incredibile. Mancavano solo le luci di Natale per sembrare una cartolina natalizia illustrata.
“Quanto mi piace questo luogo. Il silenzio, il bosco addormentato, il profumo della neve fresca nell'aria. Tra qualche mese il bosco tornerà a ricolorarsi di verde, questo lago a ricoprirsi nuovamente di ninfee e ripopolarsi di ranocchi e tartarughe, tutto sotto il cielo azzurro. Come vorrei andare al mare. Ma per godersi tutti questo si deve avere l'occasione di poter vivere, in libertà, e non come sto vivendo io. Forse avrei dovuto prendere il treno e andare al mare. Aspettare sera e rimanere lì per sempre. Ma forse lo faccio. Alla fine, perché rimanere in un luogo dove non ho mai avuto un attimo di felicità?”.
Strinse la fiala in una tasca e il portafoglio nell'altra. Tornò così sui suoi passi. Presa dai pensieri, progetti e non si accorse che qualcuno le si era parato davanti. E gli fu addosso. Il profumo amaro le riempì le narici, le piaceva quella fragranza, per un'istante sentì che quelle mani si appoggiarono sulle sue spalle. Sentì una sensazione, uno scossone dentro. Quasi un senso di benessere, di umanità. Si scostò subito arrossendo.
- Mi scusi - .
- Sembra quasi che tu mi stia seguendo. Se avessi saputo che avevi voglia di passeggiare l'avremmo potuto fare insieme. Io qui sono nuovo e credo di essermi perso - .
“Ma come ci si può perdere qui? Il sentiero principale è largo quanto una strada ed è segnato”.
- Basta stare sulla via principale e non ci si perde - .
- Io l'ho seguito, ma sono uscito da dove non sono entrato - .
- Cosa c'era nel punto in qui è entrato? - .
- Prati e prati, e il sentiero che portava qui - .
- Ho capito. Alla panchina deve tenere la sinistra e ci si arriva - .
- Ecco. Ma sono contento, non è da tutti i giorni incontrare Biancaneve - .
“Ma è fissato con Biancaneve. Parla lui che sembra un gigante...”.
Lo superò e, come poco prima, prese la strada di ritorno senza guardarsi indietro. - Di nuovo Addio - .
Questa volta percorse tutta la strada fino alla fine del bosco, prendendo la via verso casa. Arrivata davanti al portone inserì la chiave nella serratura, e poi fece la stessa cosa con il portone d'ingresso. Salì gli scalini velocemente. Quando la mano fece per toccare la maniglia sentì all'interno dei rumori e retrocesse. Restò in ascolto. Sentì le sedie scostate violentemente e porte sbattute. Udì i passi di Valerio avvicinarsi alla porta. Dalia sentì il cuore fermarsi nel petto un solo istante per poi prendere un battito rapido e doloroso. Si voltò e corse sul pianerottolo del piano superiore, disabitato e buio. Lei odiava stare li. Odiava il buio.
Sentì la porta di casa aprirsi e richiudersi sbattendo. Poi sentì la chiave girare nella serratura e i passi di Valerio che scendeva di corsa le scale.
- Come ho fatto a non vedere la sua auto? - .
Dalia si alzò dal suo angolo, aprì di un poco il piccolo finestrino che vi era sulla parete accanto a una porta sbarrata e guardò di sotto.
Capì così del perché non aveva visto l'auto di Valerio davanti casa. Era con un'altra auto, probabilmente quella dell'azienda.
Aspettò che l'auto sparisse dietro la curva per scendere. Entrò in casa, vide gli scatoloni in mezzo alla stanza e andò in camera da letto. L'armadio aperto dalla sua parte, i cassetti del comodino aperti e svuotati sul letto. Aprì la parte dell'armadio di Valerio, salì sul comodino e prese una scatola di latta tra i vestiti estivi. Vi erano tutti i suoi risparmi oltre a dei buoni postali, una piccola fortuna, fermi da tempo che aveva fatto ancor prima di andare a convivere con lui.
Li aveva messi da parte per quando sarebbe nato quel bambino, che però non nacque mai. Valerio non ne sapeva nemmeno l'esistenza di quei soldi e per essere sicura che lui non li trovasse, li aveva messi proprio in mezzo ai suoi vestiti. E accanto a quegli indumenti c'era la sua scatola azzurra, con dentro tutto ciò che i suoi genitori le avevano lasciato, un'immensa fortuna e mille ricordi, in gioielli, che lei non aveva mai usato, erano appartenuti a sua madre. E lì sarebbero stati al sicuro, Valerio non si prendeva nemmeno una maglietta da solo, figurarsi se spostava le cose.
Prese tutto. Mise i buoni nella tasca interna, i soldi li mise nel portafoglio e la scatola azzurra la rinfilò tra i vestiti di lui che non avrebbe toccato.
Sentì il rumore di un'auto fermarsi davanti casa. Non poteva essere la sua vicina, era via per alcuni giorni. Scostò la tenda e rivide l'auto aziendale con Valerio dentro fermarsi davanti casa.
Corse più veloce che poté. Aprì la porta, la richiuse e queste volte scese nella cantina appena in tempo. Nel frangente che lei chiudeva la porta lui entrava nell'androne del palazzo, furioso. Borbottava di non trovare la sua camicia portafortuna. Quella stessa camicia che quella mattina non aveva voluto indossare perché non ne aveva bisogno e quella stessa camicia che Dalia aveva buttato via. Quanto odiava quella camicia. Il tempo che doveva passare per lavarla a mano e stirarla, inamidarla e tutto il resto.
Si ritrovò lì, sola, in quella cantina. Un ennesimo luogo buio ancor più dell'ultimo piano del palazzo. Doveva orientarsi senza accendere la luce, passando tra le cantine chiuse e quelle che lei odiava: Quelle con le porte aperte.
Arrivò finalmente alla porta di servizio, che accostò leggermente per poter vedere fuori. Lo vide accanto all'auto con il telefono all'orecchio. Improvvisamente il telefono che Dalia aveva in tasca iniziò a vibrare. Pochi istanti e sarebbe partita la suoneria. Lo prese e inserì il silenzioso appena in tempo, sudava e aveva un'angoscia incredibile addosso.
Le mancava il fiato. In quel momento le cantine le sembrarono più sicure. Vibrava, vibrava ancora. Vide la notifica arrivargli sul telefono, aprì il messaggio e lesse: “Dove dannazione sei? Voglio la mia camicia portafortuna. Torno a casa tra un'ora, vado in sede e torno, vedi di farti trovare! Dobbiamo fare un discorso”. Dalia rispose subito a quel messaggio: “Vado subito in lavanderia a ritirarla”.
Mentre scriveva lo vide salire sull'auto dalla parte del passeggero. Alla guida c'era Carlo, il suo collega e migliore amico. Lavoravano insieme da sempre.
L'auto ripartì, ma questa volta attese di rivederla passare nella strada di fronte e non si mosse fino a che sparì sulla provinciale. Anche se fosse tornato indietro subito avrebbe dovuto fare un'altra strada da che quella era a senso unico, e lei avrebbe fatto in tempo a uscire, prendere la bicicletta e fiondarsi in stazione.
Le occorreva un ultimo briciolo di fortuna. Fare il biglietto e salire sul treno che sarebbe arrivato a breve. E così fece. La bici non era chiusa col lucchetto.
Era l'unica bicicletta gialla del palazzo e onestamente era talmente vecchia che nessuno aveva mai provato a rubarla. Spinse la bicicletta tra la neve, fino oltre al cancello, che chiuse dietro di sé. Si guardò attorno. Sentiva il cuore scoppiarle nel petto e aveva il fiato corto.
“Un ultimo sforzo Dalia, forza”. Aveva appena messo un piede sul pedale che sentì un'auto fermarlesi accanto. Il cuore le si fermò. Sentì salirle la paura. Chiuse gli occhi tremando. Come faceva tutte le volte quando Valerio gli si avvicinava. Non abbassava più la guardia, aveva smesso di fidarsi. In quel momento tanta era la paura che avrebbe potuto toccarla.
- Veloce, lascia li quel trabiccolo e sali - .
Dalia non credette alle sue orecchie, si voltò e incrociò gli occhi dello sconosciuto del bosco. In quel momento avrebbe potuto essere anche un alieno o Dracula in persona, che le avrebbero fatto comunque meno paura.
Lasciò la bicicletta andare contro la recinzione del palazzo e salì in auto.
La portiera subito chiusa e lo sguardo di lui che guardava nella parte posteriore dell'auto attraverso lo specchietto retrovisore.
Dalia si voltò anche lei e subito tornò a guardare avanti. Aveva visto nuovamente l'auto di Valerio. “Ma lo fa apposta allora” pensò respirando affannosamente Dalia.
- Credo abbia capito che eri nei dintorni. È la seconda volta che fa il giro dalla via che c'è qui dietro - . Il viso di Dalia impallidì ulteriormente.
- Non sarei riuscita ad arrivare in stazione - .
- Non credo proprio, anche se non è distante, con la bicicletta gli saresti passata accanto. Dove volevi andare con il treno? E comunque io mi chiamo Andrea - . - Mi chiamo Dalia - .
- Bel nome veramente - .
Lo vide sorridere e guardarla con la coda dell'occhio.
- Allora, dove volevi andare con il treno? - .
- Al mare e comunque lontano da qui - .
- E la tua famiglia che direbbe? - .
- Non ho famiglia. Ne amici. Avevo solo... Lui - .
- Allora posso anche rapirti e non direbbe nulla nessuno? - .
- No. Sei liberissimo di fare quello che vuoi. A lui non interesserebbe, e a me nemmeno - .
Donatella Rodighiero
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