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Autore: Domenico Del Coco
Titolo: Il Profumo del Cay
Genere Romanzo Storico
Lettori 3569 36 59
Il Profumo del Cay
Turchia. 1915. Una famiglia viene distrutta dal genocidio armeno. Raccontato in prima persona sotto forma di diario il resoconto farà conoscere una delle pagine più buie della Storia che anticiperà un altro grande sterminio negli anni 30 e 40 ossia l'Olocausto. Personaggi reali e fittizi si fonderanno in una storia dal sapore amaro ma anche capace di dare speranza al protagonista che ha vissuto quel periodo. Non è solo la Turchia del passato. È anche un viaggio nella Turchia attuale con i suoi attentati e la sua politica caotica. La storia di Ekran, un curdo che lascia la Turchia per vivere in Italia, in cerca di una sua "redenzione" ma anche di un amore vero. Un romanzo intenso e vero per chi vuole conoscere la Turchia.

Nel periodo precedente alla prima guerra mondiale, nell'Impero ottomano si era affermato il governo dei - Giovani Turchi - . Essi temevano che gli armeni potessero allearsi con i russi, di cui erano nemici. Nel 1909 i soldati ottomani guidati dal governo dei Giovani Turchi ispirati da un forte nazionalismo musulmano attuarono con l'aiuto di zingari e Basci-bazuk, lo sterminio di armeni nella regione della Cilicia procurando la morte di circa trentamila persone. Questo era solo il preludio del genocidio armeno.
Il genocidio vero e proprio avvenne nel 1915. Un elemento determinante fu la proclamazione del jihad da parte del sultano-califfo Maometto V il 14 novembre 1914. Nel 1915 alcuni battaglioni armeni dell'esercito russo cominciarono a reclutare fra le loro file armeni che prima avevano militato nell'esercito ottomano. Intanto, l'esercito francese finanziava e armava a sua volta gli armeni, incitandoli alla rivolta contro il nascente potere repubblicano. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 vennero eseguiti i primi arresti tra l'élite armena di Costantinopoli.
L'operazione continuò l'indomani e nei giorni seguenti. In un solo mese, più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e perfino delegati al parlamento furono deportati verso l'interno dell'Anatolia e massacrati lungo la strada. Friedrich Bronsart von Schellendorf, il Maggiore Generale dell'Impero Ottomano, venne dipinto come "l'iniziatore del regime delle deportazioni armene". Arresti e deportazioni furono compiuti in massima parte dai - Giovani Turchi - . Nelle marce della morte, che coinvolsero un milione e duecentomila persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. Queste marce furono organizzate con la supervisione di ufficiali dell'esercito tedesco in collegamento con l'esercito turco, secondo le alleanze ancora valide tra Germania e Impero Ottomano (e oggi con la Turchia) e si possono considerare come "prova generale" ante litteram delle più note marce della morte perpetrate dai nazisti ai danni dei deportati nei propri lager durante la seconda guerra mondiale. Centinaia di migliaia di armeni furono massacrati dalla milizia curda e dall'esercito turco.
Le fotografie di Armin T. Wegner sono ora la testimonianza di quei fatti. Malgrado le controversie storico-politiche, un ampio ventaglio di analisti concorda nel qualificare questo accadimento come il primo genocidio moderno, e soprattutto molte fonti occidentali enfatizzano la "scientifica" programmazione delle esecuzioni. Secondo lo studioso tedesco Michael Hesemann, si dovrebbe più compiutamente parlare di genocidio cristiano, così scrive nel suo libro Völkermord an den Armeniern (Herbig Verlag), pubblicato nel 2012. Il Genocidio Armeno causò circa 1,5 milioni di morti. Le fonti turche tendono a minimizzare la cifra. Secondo il Patriarcato armeno di Costantinopoli, nel 1914 gli Armeni anatolici andavano da un minimo di 1.845.000 ad un massimo di 2.100.000. Lo storico Arnold J. Toynbee, che fu ufficiale dell'intelligence britannica in Anatolia nella prima guerra mondiale, stima in 1.800.000 il numero complessivo degli Armeni di quel paese. L'Enciclopedia Britannica indica come probabile il numero di 1.750.000. Toynbee ritiene che i morti furono 1.200.000. Gli storici stimano che la cifra vari fra i 1.200.000 e 2.000.000 di morti, ma il totale di 1.500.000 è quello più diffuso e comunemente accettato.
Il libro che state per leggere nasce da questi fatti storici. Il romanzo è narrato in prima persona da parte di un armeno nella prima parte del libro. I nomi dei personaggi sono fittizi. Nella seconda parte uno studente turco di origine curda fa un viaggio in Italia, a Milano, per studiare arte. Porta con sé un quaderno scritto da un armeno che diventa oggetto di interesse. Il lettore quindi conoscerà la realtà turca dell'inizio del secolo scorso e quella attuale.

La mia memoria è labile. La vita umana è troppo corta. Le cose accadono tanto in fretta che non hai il tempo di capire la relazione che unisce gli eventi. Un'infanzia felice e un'adolescenza distrutta dai capricci di un popolo che aveva la ferma intenzione di formare una nazione.
Sto per sposarmi, qui negli Stati Uniti, ma prima in questo quaderno lascio i ricordi un po' confusionari di quello che ho vissuto quando ero un ragazzino. Non sono preciso come lo era il nonno. Alcuni avvenimenti sono talmente forti da confondersi nella memoria. Ma peggio degli eccessi, in un essere umano non c'è nulla. Non so che fine farà questo quaderno. Non credo che gli daranno importanza. Sto scrivendo memorie cercando di usare tutte le mie energie. Lasciare qualcosa di personale ai posteri sperando che la storia che vi racconterò serva per non far dimenticare gli orrori del passato. Ho visto cosi tanta morte nella mia giovane età che, sinceramente, che Dio mi perdoni, non ho paura di morire.
Quando penso alla mia terra mi viene in mente la casa di Istanbul. Non è una casa grande. Ma è sempre una casa. Forse, se non ricordo male, una delle case più importanti di Istanbul. C'era un cancello nero e un vialetto che correva tra le siepi fiorite di scalogno rosa. La casa era in stile inglese credo neogeorgiano, e ha un porticato con frontone sopra la porta d'ingresso. Dall'altra parte dell'ingresso vi era un giardino con varie statue e una panchina di marmo.
L'impero ottomano, sconfitto durante la prima guerra mondiale, finì ufficialmente il 1º novembre 1922. Quando nel 1923 fu fondata la Repubblica di Turchia, la capitale venne spostata da Istanbul ad Ankara.
La Turchia non fu mai ospitale con me e con la mia famiglia, negli anni precedenti al 1922. Gli stessi turchi non sono mai stati accoglienti. Ma esiste chi viene sconfitto e sa chiedere scusa e chi invece non l'ha mai fatto. Almeno fino ad ora.

Sono nato nel 1901 e se sono vivo è grazie agli insegnamenti di mio nonno. Sono stato battezzato come Fehrat. Fehrat Azadyan. Da bambino vivevo a Istanbul. Una città dove l'inverno era rigido e l'estate afosa. Nonno era importante. Era proprietario di una banca e grazie al suo lavoro potevamo possedere una tenuta in campagna. Nella banca lavoravano sia il papà che la mamma. Quando si sposarono andarono a fare il viaggio di nozze a Milano. Da quel matrimonio sono nati altri due fratelli. Arat era il più monello, mentre Cem era il più tranquillo di tutti. Tutti e tre ci contendevamo l'affetto del nonno. Mamma era una donna alta, di carnagione scura, sul finire della trentina, robusta di costituzione. Il suo abito da sposa era di un bianco crema, con un'ombra di rosato sul fondo. Era di seta, una seta comprata in Italia, perché mamma amava i tessuti italiani. Papà, invece, a dispetto del nonno nacque biondissimo con occhi azzurri. I capelli tagliati corti e una certa eleganza nei gesti. Magro con un'aria da intellettuale e i tratti un po' aspri e irregolari. Impeccabile nel suo stile, composto da camicia bianca, cravatta nera e abito grigio scuro. Le scarpe sempre lucide e pulite.
Il sabato e la domenica la passavamo nella casa di campagna. Un luogo fiabesco dove tutti vivevamo tranquillamente. I picnic all'aperto, le risate e l'odore del fumo delle sigarette che fumavano sia il papà che il nonno.
Era un'infanzia serena e tranquilla. Durante l'estate urlavo come un matto. Alla sera mi portava nelle giostre e poi prima di andare a dormire il nonno gettava solo me nel catino di zinco, per inzupparmi ben bene con la spugna e acqua bollente. Ricordo il sapone che aveva una strana forma di mattone.

- Fehrat girati e mostra il tuo bel culetto. Lesto che devi andare a dormire...

Io ubbidivo e con un asciugamano che sembrava carta vetrata mi asciugava tutto, compreso il mio sedere bello rosso. Poi mi dava una camicia da notte bianca e fresca e andavo a dormire. Nonno invece nel cassetto chiuso a chiave aveva un libro di Hagop Baronian da leggere prima di dormire.

A scuola andavamo in carrozza. Era un collegio dove le religiose armene non scherzavano con l'educazione. I ragazzi in un edificio mentre le ragazze in un altro. Ero bravo in tutto e i compiti li finivo in fretta e anche in maniera corretta. Quindi contemplavo fuori dalla finestra con la voglia di volare nell'infinito e di scoprire il mondo. Avevo un quaderno dove fissavo le mie emozioni. Ma la scuola non mi preparò alle sofferenze che avrei dovuto patire. La scuola era un enorme edificio circondato da un campo da giochi e da un'alta cancellata di ferro. Finita la scuola i miei compagni uscivano a piccoli gruppi ridendo e schiamazzando prima di disperdersi verso casa. Io avevo la carrozza che mi aspettava.
A casa il nonno ci apriva. Non voleva che lo facessero i domestici.

- Nonno apri siamo noi...
- Noi chi? – chiedeva cortesemente.
- Noi nonno. I tuoi nipoti preferiti.

Mamma e papà lavoravano tutto il giorno. Mangiavamo in un salotto destinato a noi. Il pranzo, la cena, avevamo tutto il cibo di questo mondo. Non ci mancava e sapevamo che mai potesse mancarci. I giorni della nostra infanzia sembravano interminabili. Eravamo dei re e i nostri servi erano ragazzi turchi che vivevano in condizione di povertà più totale. Non so il perché ma presi in simpatia Mazlum. Avrà avuto una trentina d'anni, però mi era simpatico. Mi aiutava nel fare i compiti e mi rispiegava alcuni concetti di matematica che per me erano tosti. Era bravo in matematica e quindi quando il nonno mi lasciava qualche soldino glielo regalavo. Era un turco, una persona gentile e disponibile. Mazlum l'unico buono in una vicenda drammatica. Spesso mi cucinava il theureg una treccia di pane fatta con uova, farina, zucchero, latte, burro, nigella e del sesamo bianco. Voleva farmi felice. E lui si impegnava a rendermi la persona più contenta sulla Terra.
La domenica la passavamo a pregare al mattino per poi fare un giro dagli amici e infine andare a casa. Nonno mi portava con sé in carrozza assieme a Mazlum. Una di quelle domeniche feci il mio exploit.

- Da grande voglio fare lo scrittore.
- Se vivrai scriverai qualcosa che non dimenticherai mai.- sentenziò il nonno.
- Ma io voglio fare lo scrittore...
- Lo farà lo farà... - diceva pacatamente Mazlum.
- E tu come lo sai? – chiese il nonno.
- Lo farà perché accadranno cose che nessuno potrà dimenticare.– profetizzò il servo turco.
- Dobbiamo temere al peggio? – chiese con ansia il nonno.
- Sì. I Giovani Turchi sono piuttosto violenti non solo a parole ma anche con le azioni...C'è un dissenso tra voi e il CUP. I Giovani turchi stanno acquisendo credito in Europa. Ricordatevi che tutto questo parte dal luglio di quel 1908 in Macedonia.

Mazlum riusciva a capire le cose prima del tempo. E questa sua intelligenza servì a salvare me e i miei fratelli. Nonno comunque rise con gusto per il mio desiderio di diventare uno scrittore. Non immaginavo che sarebbe stata una delle sue ultime risate.
Mi affascinava il bazar. Turchi in abito europeo con bastone da passeggio, colletto rigido e il fez in testa. Vestivano così impiegati e commercianti. Armeni, greci, siriaci anche loro con abiti occidentali ma con copricapi diversi. Curdi e circassi con i loro costumi. Mi piaceva la sala destinata al bagno di sudore. I bagnini che massaggiavano la mia carne. Conversazioni con frasi mozze erano tipiche in quei bagni. Mi sentivo nudo, però il bagnino mi faceva sempre un trattamento impeccabile. Anche alcuni Bey turchi subivano compiaciuti lo stesso trattamento. Nonno mi portava spesso e io osservavo gli adulti. Voleva che fossi in contatto con più persone possibili di diverso ceto sociale. Dal mercante al funzionario bancario perché potessi apprendere più cose possibili. Gli insegnamenti del nonno erano preziosi. Alcune donne indossavano il tscharschaff la veste castigata delle musulmane. Altre donne decisamente emancipate avevano gonne fino alla caviglia e calze di seta. Le strade del mercato avevano odori forti. Olio di sesamo per le rosticcerie, frittelle di agnello all'aglio, ma anche verdure che stavano marcendo. L'odore più terribile era quello degli uomini i quali dormivano negli stessi vestiti che portavano di giorno. I turchi avevano un po' la mania di dormire con abiti usati il giorno stesso. Mazlum sempre mi spiegava l'uso di taluni alimenti in cucina. Voleva che io sapessi che il cibo non era solo forma di piacere o di sostentamento ma conoscessi alcune proprietà di certi frutti. Diceva che per diventare scrittore bisognava conoscere più cose possibili. A me piaceva imparare e sia nonno che Mazlum mi insegnavano facendomi divertire.

24 aprile 1915.

Il giorno più brutto per gli armeni che vivevano ad Istanbul. Nonno in banca cercava di dare incarichi importanti ad alcuni turchi di cui nutriva una certa fiducia. Ma comunque il suo sforzo di pace e di collaborazione fu totalmente vano. Quel giorno circa seicento intellettuali furono arrestati. Credo che la causa fosse dovuta a qualche giorno prima. Il 7 aprile la città di Van insorse e instaurò un governo provvisorio armeno. I Giovani turchi assetati di vendetta, con una nuova Costituzione, cercarono di eliminare più armeni possibili.
Tra i seicento arrestati c'era anche uno scrittore che il nonno leggeva e che teneva i suoi libri nel cassetto chiusi a chiave. Tentò di salvare i suoi amici ma fu invano. I Giovani turchi in apparenza si mostravano gentili con gli Armeni per conoscere informazioni segrete e i loro dirigenti per poi colpirli quando arrivava il momento giusto. Mi arrivò come notizia che i soldati armeni furono disarmati, inviati ai forzati e infine fucilati. Il colpo di grazia arrivò quando il ministro Talaat Pacha trasmise un telegramma alle cellule dei Giovani turchi.

Il governo ha deciso di farla finita con tutti gli armeni residenti in Turchia. È necessario porre fine alla loro esistenza per quanto criminali siano le misure da adottare. Non bisogna tener conto dell'età e del sesso. Gli scrupoli sono banditi.

Arrivò quindi la “legge provvisoria di deportazione” di quel terribile 27 maggio 1915. Era l'inizio della nostra fine. Mazlum ci diede alcuni indirizzi per poterci salvare. Avrei dovuto lasciare Istanbul, la mia casa con il giardino, i miei giochi, i miei amici e la mia scuola. Sarebbe iniziata una deportazione. Le donne e i bambini da una parte mentre gli uomini dall'altra. Non capivo il perché. Non avevamo fatto nulla di male. Ma per noi armeni vi erano già problemi prima del 1915.

A partire dagli anni '90 dell'Ottocento, gli Armeni iniziarono a chiedere la realizzazione delle riforme promesse loro dalla Conferenza di Berlino. Tra il 1892 ed il 1893 a Merzifone Tokat, gruppi di armeni iniziarono a protestare pubblicamente al punto che il sultano Abdul Hamid non esitò a schiacciare queste rivolte con metodi sanguinari, probabilmente per mostrare l'intangibilità del potere del monarca, servendosi dei musulmani locali (in molti casi curdi) contro gli armeni. Tra il 1894 e il 1896 Hamid II condusse una dura campagna di repressione contro gli armeni. Nel 1907, la Federazione Armena Rivoluzionaria tentò di assassinare Abdul Hamid II piazzando una bomba sotto la sua macchina durante un'apparizione pubblica, ma il sultano si salvò miracolosamente perché l'innesco partì prima del dovuto, uccidendo 26 persone e ferendone altre 58 (delle quali poi 4 morirono in ospedale) e distruggendo altre 17 automobili. Il nonno mi raccontava che con Abdul Hamid tutto era censurato. La stampa, la libertà di parola e gli scritti. Non si potevano dire patria, libertà, Armenia o indipendenza. I Giovani turchi lo deposero nel 1909 e diedero il potere a Enver Pacha sotto il benestare del sultano Mehmet V. Il contraccolpo del sultano, che era stato acclamato a gran voce dagli islamici conservatori contro le riforme liberali dei Giovani Turchi, si concluse con un massacro di decine di migliaia di cristiani armeni della provincia di Adana offuscando così la fiducia al nuovo governo ma stando a molti era un modo per far concludere il vecchio impero. La Costituzione e il governo dei giovani turchi aveva lasciato ben sperare per le minoranze ma non avevo dimenticato il massacro di Adana.

Mi ricordo cosa chiesi al nonno quel giorno del 24 aprile.

- Perché i turchi hanno massacrato gli armeni a Adana?
- Il governo dei Giovani Turchi pensa che gli armeni vogliano fondare un nuovo regno armeno e che stiano lavorando alla distruzione dell'unità dell'impero. Ricordi vero che il primo massacro di armeni era avvenuto tra il 1894 e il 1896 sotto Abdul Hamid II? 200.000 morti. In quel tempo alcune zone dell'Impero Ottomano, abitate da popolazione di origine armena, soprattutto nell'Anatolia, si erano sollevate contro l'Impero ormai in declino. La repressione ottomana per schiacciare la dissidenza fu brutale. Nonostante simili eccidi fossero già avvenuti nel corso della storia contro il popolo armeno sotto l'Impero Ottomano, questa volta, grazie all'invenzione del telegrafo nel 1890, la notizia dei massacri si diffuse velocemente in tutto il mondo, causando la condanna dell'accaduto da parte di gran parte delle nazioni civilizzate. L'origine dei tumulti armeni ebbe origine in gran parte dall'indebolimento dell'Impero Ottomano a seguito della sua sconfitta da parte dell'Impero russo nella guerra russo-turca del 1877-1878. Alla fine del conflitto venne siglato il Trattato di Santo Stefano con il quale l'Impero ottomano rinunciò a una larga porzione del suo territorio in favore dei Russi. Il governo russo, da parte sua, cercò di fomentare le sommosse instillando speranza nei sudditi cristiani-ortodossi dell'Impero Ottomano proclamandosi loro difensore e paladino. Il Trattato di Berlino del 1878 ridusse nondimeno di molto le conquiste russe oltre il Mar Nero, stabilendo che l'Impero Ottomano dovesse garantire maggiori diritti a suoi sudditi Armeni cristiani, voce del trattato che in realtà non venne mai rispettata. I successi militari russi, insieme alla speranza di vedere un giorno l'intero territorio armeno governato dal nuovo protettore russo, ispirarono negli Armeni cristiani nuovo entusiasmo che sfociò in altre sommosse. Un ulteriore motivo di ribellione fu la costante discriminazione in campo giuridico nelle dispute tra cristiani e ottomani a favore di questi ultimi. A quel tempo (1890), nell'Impero ottomano, si contavano circa 2 milioni di armeni, in maggioranza appartenenti alla Chiesa apostolica armena. Fu così che intorno al 1890 gli Armeni iniziarono nuove manifestazioni per reclamare il rispetto delle garanzie promesse loro a Berlino. Tumulti si ebbero nel 1892 a Marsovan e nel 1893 a Tokat. Gli Armeni chiedevano delle riforme nell'Impero Ottomano e la fine della loro discriminazione, oltre al diritto di voto e all'istituzione di un governo costituzionale. Una vicina rivolta scoppiò nelle montagne di Sassoun nella provincia di Bitlis. I contadini Armeni si rifiutarono di pagare la tassa incrementale curda, una doppia tassazione imposta loro dai capi Curdi. Nel 1892 il governatore del distretto di Mus della provincia di Bitlis incoraggiò gli Armeni, dichiarando che essi non potevano servire due padroni allo stesso tempo. In risposta della resistenza armena nel Sassoun, il governo turco di Mus rispose incitando i musulmani locali alla violenza contro gli armeni. Lo storico del mondo musulmano Lord Kinross afferma che era pratica molto frequente chiamare a raccolta i musulmani nelle moschee locali e dichiarare loro che gli Armeni avevano lo scopo di "colpire l'Islam". L'oppressione esercitata dai curdi e l'aumento delle imposte deciso dal governo turco, esasperarono gli armeni fino alla rivolta, alla quale l'esercito ottomano inviato dal sultano Abdul Hamid II, affiancato da milizie irregolari curde, rispose assassinando migliaia di armeni e bruciandone i villaggi (1894). La violenza si diffuse velocemente e colpì gran parte delle città abitate da Armeni nell'Impero Ottomano. Le atrocità peggiori riguardarono la cattedrale di Urfa, nella quale avevano trovato rifugio tremila armeni, che vennero bruciati vivi. Lo storico Osman Nuri, nel secondo volume della sua biografia di Abdul Hamid, accusa il contingente militare del Sultano di avere "bruciato e ucciso migliaia di persone". Due anni dopo, il 26 agosto 1896, un gruppo di rivoluzionari armeni assalì la sede centrale della Banca Ottomana ad Istanbul. Le guardie vennero uccise e più di 140 impiegati vennero presi in ostaggio con lo scopo di guadagnare l'attenzione del mondo internazionale per le rivendicazioni del popolo armeno. La reazione a questo colpo di mano clamoroso fu il massacro di decine di migliaia di armeni a Istanbul e nel resto del territorio ottomano. Il segretario privato di Abdul Hamid scrisse nelle sue memorie che Abdul Hamid aveva deciso di perseguire una politica di fermezza e terrore contro gli Armeni ed ordinò di non intraprendere nessun negoziato o trattativa con essi. Gli eccidi continuarono dal 1895 fino al 1897. In quest'ultimo anno, il sultano Sultan Hamid dichiarò chiusa e risolta la questione Armena. Tutti i rivoluzionari armeni vennero uccisi o dovettero fuggire in Russia. Il governo Ottomano chiuse tutte le associazioni e le società armene e attuò un giro di vite sui movimenti politici.
- Ed ora, nonno, perché noi armeni siamo presi di mira dai turchi?
- Forse per una probabile alleanza con la Russia nemica della Turchia. Alcuni armeni si sono voluti aggregare nell'esercito russo. Noi armeni comunque abbiamo le nostre colpe. Non è solo che siamo partiti volontari con l'esercito russo. Si dice che commettano omicidi contro i musulmani turchi. È da verificare. Tu non fare del male a nessuno. Tu sai bene che gli armeni costituiscono una minoranza cristiana in questo paese, governato dai musulmani da sei secoli. I turchi ci stanno studiando in tutto. Da come portiamo il fez all'intonazione della voce perché questi dettagli possano essere utili per commettere le loro atrocità. Motivi per cui i turchi ce l'hanno a morte con gli armeni.

Nonno scomparve nel giro di qualche giorno. Non potevo più ascoltare resoconti storici che mi faceva dettagliatamente.
Ho questo ricordo particolare del nonno. Era davvero una fonte storica. Preciso e scrupoloso nel dare informazioni, lui non si sbagliava mai. Aveva dei giudizi storici moderati ma che comunque rispettavano la realtà storica avvenuta. Non era un uomo che rimpiccioliva o ingigantiva le cose. Anche nel commercio e nel lavoro era preciso e puntuale. A volte troppo ma per lui la serietà era il primo biglietto da visita. Sapeva anche divertirsi ma non lo dava a vedere.
Nonno aveva una formazione simile a quella britannica. Nel parlare non esprimeva sentimenti o comunque li sapeva nascondere bene. Aveva un'eleganza nei gesti, a tratti ricercata. Inoltre i vocaboli che usava erano leziosi, studiati, fini e adatti per quelle occasioni. Poi con me invece diventava un giocherellone e si divertiva sfruttando l'occasione di non essere a contatto con il pubblico.
La guerra in Europa non era altro che nella sua alta aurora mietendo giorno per giorno inutili vittime e carne da macello. Prima o poi la morte dei soldati sarebbero terminate assieme agli orrori e massacri. Il governo turco era sotto il controllo degli alleati. L'Europa era un intero campo di battaglia. E quel sogno di poterla visitare era remoto.
Papà aveva mandato alcune lettere ad amici armeni appartenenti al partito Daschnakzagàn. Ma papà aveva i miei stessi dubbi. Perché? I turchi temevano che una minoranza così forte come l'armena con in mano armi moderne potesse strappare in caso di un infelice esito della guerra ai turchi (maggioranza etnica) certi diritti? Papà viveva nell'inquietudine più nervosa ed eccitata che mai. Le lettere le portava un ragazzo che si chiamava Ibrahim. Magro e curvo in avanti, pallido con baffi quasi impercettibili sotto il naso aquilino. Non era più giovane e le rughe erano giorno dopo giorno sempre più profonde. Con papà diceva che bisognava munirsi di pazienza e non andare contro le provocazioni. Pur essendo lui stesso un turco, il patriottismo ottomano era la mano del demonio.
Ibrahim non aveva sogni infantili di una liberazione nazionale e stare con lo zar o con il sultano per lui era indifferente. Alla fine aveva il suo motto “Meglio crepare in Turchia che morire spiritualmente in Russia”. Le autorità turche in maniera feroce mandarono al fronte storpi e malati armeni e turchi che dichiaravano abili e tra quelli vi era Ibrahim. Non seppi più nulla di lui.

Aprile 1915

Stavamo cenando quando sentimmo un bussare alla porta con tono minaccioso. Avevamo intuito che i toni non erano amichevoli. Nonno chiuse gli occhi come se facesse un'ultima preghiera. Come se sapesse o conoscesse il suo destino. Rimasi traumatizzato da quella scena.
Quattro turchi accompagnati da parecchi soldati lo presero come se fosse un assassino. Capii che qualcuno aveva denunciato solo perché in possesso di qualche arma. Ovviamente quello era il motivo per cui lo stavano arrestando. Mi strinse la mano. Capii che non era un arrivederci ma un addio definitivo.
Gli incarcerati dopo atroci torture erano condannati a morire. Gli europei e gli americani presenti in Turchia per motivi di affari o di studio non capirono mai questo obiettivo crudele e barbaro dei turchi: uccidere, sterminare e distruggere. A partire dal giorno in cui arrestarono nonno divenni cupo. Non sorrisi più. La mia espressione era avvolta da un velato pessimismo. Basta gioia, felicità e benessere. La vita sociale mi era diventata estranea. Assunsi le sembianze di un adolescente disturbato. Selvaggio e solo.
Per un po' di giorni feci i capricci. Non volevo mangiare e a scuola non provavo interesse. Mazlum ci disse che i turchi avrebbero portato in giro per la città alcuni prigionieri. Pensavo al nonno. Ero talmente irrequieto che non riuscivo a stare fermo seduto in casa. Allora papà decise di portarmi con la sua carrozza alla piazza del mercato. L'aria si fece cupa.
Papà si arrestò e cercò di coprirmi gli occhi.

- Non guardare! Non guardare! – disse.

Mi dibattei come una furia, riuscii a liberarmi e scesi dalla carrozza. Ciò che avevo visto mi fece rabbrividire e scoppiai in un pianto disperato.
I turchi portavano in giro per la città la testa del nonno infissa su di una picca come segno della loro potenza e superiorità e anche per avvisarci che avremmo fatto la stessa fine. Altri corpi invece erano appesi agli alberi e dondolavano lentamente alla brezza fredda della città. Un impiccato armeno era in una via di Istanbul. Una tavola appesa al petto indicava la colpa di tradimento. La gente osservava, per lo più tanti erano impauriti, altri guardavano come se fosse un macabro spettacolo. Nelle braccia di una donna un bimbo guardava tale orrore. Vicino all'impiccato un ufficiale turco, girato di spalle, faceva in modo di non essere fotografato probabilmente.
I turchi passavano incuranti delle espressioni agghiacciate dei viandanti. La processione era solenne. Alcuni turchi fumavano sigarette e ridevano come segno di sfida nei confronti degli armeni. Alla fine Mazlum e mio papà mi presero strattonandomi e mi riportarono in carrozza. Ritornammo a casa.

- Domani non andrai a scuola. Né te né i tuoi fratelli.
- Ma papà... - risposi senza capire molto quello che sarebbe successo.
- Papà ha ragione. È meglio che lasciate la casa di Istanbul e andate in campagna. Sarete al sicuro. – disse Mazlum.

Cenammo rapidamente e preparammo l'essenziale da portarci via. I servi turchi non ci seguirono se non Mazlum. Era un ragazzo turco che ci rispettava e faceva di tutto per velocizzare i tempi della partenza. La sera in cui ci allontanammo qualcuno appiccò il fuoco alla nostra casa. Viaggiammo durante la notte per strade secondarie per non dare nell'occhio. Lungo il percorso vidi case incendiate, magazzini saccheggiati e strade piene di cadaveri.

Arrivati alla casa di campagna, una villa enorme a più piani, alcuni servi turchi si avvicinarono.

- Da oggi non vi serviremo più. Ci dispiace. Troveremo lavoro altrove.
- Ma non vi trovate bene con noi?
- No. Non possiamo. Voi siete armeni e noi non dobbiamo essere servi di armeni. Non dobbiamo essere amici.

Così Mazlum rimase l'unico servo fedele per tutta la famiglia. Tra i servi che se ne andarono c'era Buğra Soyman. Era sempre stato un servo infido e cattivo. Mazlum lo sapeva bene. Il nonno teneva Buğra in quanto orfano. Nazionalista convinto fu tra i primi ad aggregarsi ai “Giovani Turchi”. Non era alto e per il suo modo di ingozzarsi era diventato pure tozzo. Con le ragazze si vantava della sua bellezza giovanile, ma non era in grado di tenere una relazione stabile. Le ragazze impazzivano per i suoi occhi senza sapere di che natura fosse realmente il servo. Il viso sempre pulito a dispetto di altri turchi che portavano baffi folti. Mazlum ci consigliò di prendere tutti i soldi e lasciare anche la casa di campagna.

- Ma perché? – domandò papà
- Perché Buğra può dire che siete armeni e sapete poi cosa può succedere? – disse Mazlum.
- La nostra condanna...- disse mamma piangendo.
- La fine come il nonno... - disse papà rinominandolo dopo qualche giorno.
- Buğra ha il peggio di un uomo e il peggio di una donna. È il demonio che vuole distruggere gli altri. Me ne occuperò io della vostra casa ma promettetemi che se vi salverete dovrete ritornare ad abitare sia qui che ad Istanbul. Quel ragazzo mi fa paura. Non ho mai compreso l'odio nei vostri confronti sebbene abbia ricevuto tanto da voi. – concluse Mazlum.

Alcuni armeni erano riusciti a scappare grazie ai soldi tenuti in disparte per diversi decenni. Prima di salire in carrozza mamma ci travestì da femmine mettendoci dei grossi orecchini. Non volevo essere una femmina ma accettai tale soluzione perché era l'unico modo per sopravvivere. Durante il viaggio verso Terkidağ alcuni militari turchi fermarono la carrozza. Papà non riuscì a scendere che uno con un colpo di pistola gli sparò in pieno petto uccidendolo. Nonostante lo stratagemma messo in atto dalla mamma, ci presero tutti.
Ci caricarono su un treno che ci avrebbe portato per destinazioni ignote. C'erano alcuni armeni forse affamati o colpiti da qualche febbre tifoide che aspettavano di partire.
Il treno arrivò. Il macchinista vedendo gli armeni sulle rotaie, di proposito spinse con forza la locomotiva contro la massa degli uomini in attesa. Poi saltò giù trionfante dalla macchina, si fregò le mani dalla gioia e con voce alta e vittoriosa disse ad un suo amico presente:

- Hai visto come ho schiacciato questi porci armeni?

Ci stiparono dentro ai vagoni merce. Intanto tra una destinazione e l'altra venivano gettati fuori dal carro, come vecchi stracci inutili, quegli armeni che man mano morivano di fame, stenti e tifo ed erano sostituiti con altri in arrivo.
Una volta arrivati ad una destinazione sconosciuta ci misero in una fila indiana con altre donne e bambine per i controlli. Gli uomini dai vent'anni in su erano stati messi ai lavori forzati. I più vecchi, invece, venivano uccisi assieme a quelli che tentavano di lasciare la Turchia. Ci arrivavano notizie angoscianti del tipo che ci volessero abbandonare nel deserto siriano e lasciarci lì a morire. Il treno si era fermato per noi a Bahçe

Dopo diversi giorni di marcia la colonia raggiunse il campo di Hasanbeyli. Camminavamo lentamente e tutti eravamo scalzi. Dicevano le guardie turche che gli uomini erano o a Malatia o Urfa. Invece non era così perché la verità era molto diversa: dopo averli costretti a marciare in condizione disumane venivano uccisi a colpi di fucile, spada o coltello. Altri morirono affogati nel fiume Seyhan e per i turchi sterminare gli armeni senza spreco di munizioni rappresentava un risparmio apprezzabile. Non dimenticherò mai quel luogo per quanto fui costretto a vedere. La fame si faceva sentire e nessuno aveva più le forze per andare avanti. Avevamo camminato per quasi una cinquantina di chilometri senza cibo e con sotto un caldo terribile. Eravamo sistemati in orribili tende.
Alcune guardie distribuirono del pane. Una ressa come animali. Un uomo chiese di avere ancora del pane. I turchi lo presero a bastonate e lo uccisero nell'indifferenza generale. Il giorno dopo riprendemmo la marcia. Una donna piangeva perché non poteva più dare del latte al suo neonato. Le guardie turche si avvicinarono e le strapparono il bambino. Mozzarono la testa al neonato e la gettarono lontano. Poi una di quelle guardie prese la pistola e sparò alla donna che morì subito. Di fronte alle lacrime di giovani ragazzi più o meno coetanei di Mazlum con espressioni innocenti degli occhi interrogatori, meravigliati, alcuni funzionari turchi con gendarmi e soldati accompagnarono orfani armeni per deportarli e taluni abbatterli.

Avevo quattordici anni e avevo visto per la prima volta che l'uomo poteva diventare peggio di una bestia. La cattiveria contro altri uomini, donne e neonati fu una cosa terrificante. Sempre quel giorno alcune ragazze furono portate via, lontano. Durante la notte sentimmo delle urla.
Il mattino seguente c'erano alcune donne nude crocifisse. Altre invece erano state decapitate e poi successivamente crocifisse . Rimasi pietrificato. Il giorno dopo riprendemmo il cammino. Arrivammo a Islahiyé dopo giorni e giorni di camminata ininterrotta senza cibo né acqua se non soltanto erba. C'era un odore terribile di cadaveri di bambini morti. Non so il perché, ma ricordavo che Mazlum aveva lì una seconda casa. La moria di persone era inarrestabile. I vari campi erano pieni di cadaveri. Mamma morì di dissenteria a Islahiyé. Non avevo le forze per piangere. Ora i miei fratelli e io eravamo totalmente orfani. Non avevamo più nessuno. Senza i miei genitori e con i fratelli da proteggere dovevo farmi coraggio per non far pesare a loro ulteriori sofferenze.

Una sera mentre ero in tenda feci una preghiera al nonno.

Nonno nonnino
Non abbandonarmi. Assieme a Gesù proteggici e salvaci da questo orrore .
Ascolta la mia preghiera affinché tutto questo abbia fine.

Mi addormentai esausto. Speravo in un miracolo. Ma non immaginavo che sarebbe arrivato presto. Sognavo la mia casa di Istanbul, il giardino dove giocavo a nascondino ma anche dove potevo studiare all'aperto. Sognavo la libertà di leggere qualche buon libro, la compagnia del nonno che mi coccolava e qualche volta mi lasciava una banconota perché potessi pensare per il mio futuro che doveva essere sereno. Sognavo la residenza in campagna. La libertà nel girare per i campi con in mano un libro e poi sdraiarmi per sentire quell'odore di erba che mi rilassava.
Vivevo un incubo e i turchi ogni giorno erano sempre più malvagi. I militari che controllavano le file delle deportate erano indifferenti alla disperazione delle donne che anzi venivano insultate continuamente. I miei vestiti erano ridotti in stracci. Sporchi di polvere, capii a mie spese cosa volesse dire avere fame e soffrire la perdita della famiglia. Mi era rimasta solo la fede. Nonno mi aveva insegnato a credere in Dio anche nelle difficoltà. Eravamo cristiani e dovevamo rispettare Dio e Gesù sebbene le domande che mi ponevo fossero tante e troppe. Un giorno, pensavo, qualcuno si sarebbe ricordato di noi. Le notizie di quello che succedeva raggiungevano in maniera frammentaria il resto del mondo. Stavamo diventando scheletrici e la cosa più assurda era vedere non solo donne ma anche bambini privi di forza cadere in strada, vestiti di stracci, morenti.
I turchi allora ponevano fine alla loro agonia con un colpo di pistola. Non so il perché o il per come ma a vedere tutto quel sangue iniziai a farci l'abitudine anche senza volerlo. Ogni giorno che passava era una lenta agonia, perché stavamo dimenticando chi fossimo realmente. Avevamo dimenticato i profumi e l'odore del pane appena sfornato, avevamo dimenticato l'uso dell'acqua per bere ma anche per divertirci. E io avevo dimenticato quel profumo di lavanda che imperniava la casa in città per dare il benvenuto a chiunque arrivasse. Ero costretto nutrirmi di erba per sopravvivere. Ma qualcosa dentro di me mi diceva che prima o poi tutto questo sarebbe terminato.
Per le strade numerosi cadaveri nudi, gonfiati dal calore del sole. La fermentazione e varie reazioni chimiche nelle cavità toraciche e addominali avevano provocato quel rigonfiamento abnorme. L'odore nauseabondo. Eppure marciammo tutti, adulti e bambini, senza fiatare. Camminavamo otto ore al giorno con il sole cocente. Si marciava per ore e ore attraverso campi e montagne senza trovare una fonte.
Ogni mattina da ogni villaggio che raggiungevamo partiva dapprima una miseranda colonna di deportati. Una scorta militare prendeva gli espulsi. Cinquanta famiglie possidenti seguivano un centinaio meno abbienti fino all'abbassarsi delle varie classi sociali. Eravamo tutti orfani della nostra terra natale. Per noi armeni non c'era cenno né di protezione né di aiuto e la speranza era praticamente inesistente. Eravamo caduti nelle mani di un nemico libero da vincoli. L'Impero Ottomano.
I soldati turchi osservavano le donne armene e poi con volti tetri e cattivi dicevano a loro:

- Sapete vero che vi possiamo annientare come insetti? Solo un mio cenno e voi non avete mai vissuto.

Negli accampamenti che si trovavano in aperta campagna yailadjì vi andavano a trovare guardie turche. Fumavano assieme ciarlando di cose inutili.

Maggio 1915

La mattina seguente uno dei vecchi facenti parte della colonna dei deportati stramazzò all'improvviso. La colonna si arrestò. L'ufficiale arrabbiato nero urlò:

- Non fermatevi! È proibito! Avanti, muoversi!

Gli zaptié imprecarono con colpi di randello contro i deportati. La colonna si scompigliò e iniziò a correre fin quando il corpo del vecchio era già lontano e gli uccelli si avvicinavano volteggiando certi di cibo sicuro. Dopo una giornata di marcia uomini nel vigore della loro età furono separati dal resto della schiera. Un uomo di quarantasei anni, ben vestito, un ingegnere probabilmente, con colpi di fucile venne strappato via alla sua famiglia. La figlioletta avrà avuto un anno e mezzo. Dicevano che lui doveva essere incorporato per una squadra addetta a lavori stradali. Andò assieme ad altri uomini. Quelli senza forze, a causa delle razioni scarse, crollarono a terra morenti. Lui tornò. La moglie di quell'uomo aveva preparato abiti femminili sperando di poterlo salvare. Ma nessuno di noi aveva previsto che quella notte un gruppo di tschettéh, alcuni volontari stranieri armati, avevano voglia di sesso. Presero una ragazza dai capelli rossi e quell'uomo di quarantasei anni dalla pelle giovane. Anche in abiti femminili mostrava comunque un suo fascino. Ma gli tschettéh appena scoperta l'amara verità lo uccisero senza fermarsi a ragionare. E di fatti quell'uomo venne ammazzato subito e con inaudita violenza gli amputarono un genitale e glielo misero in bocca mentre con l'henné gli colorarono le labbra di rosso da farlo sembrare sempre di più di una donna. Alla fine arrabbiati dalla presa in giro sputarono sul corpo inanime dell'ingegnere travestito da donna.

- Figlio di puttana, chi cazzo ti credevi di essere? Volevi salvarti travestendoti da donna? La morte hai incontrato visto che volevi fare il furbo. – disse un tschettéh che era impaziente di scopare.

Il giorno dopo sentimmo il rumore di una carrozza. Islahiyé era la città natale di Mazlum. Era proprio lui in carrozza con una ragazza. Parlò con alcune guardie turche. Diede dei soldi. Le guardie presero me e i miei fratelli e ci fecero sedere di fronte a Mazlum. Stavamo lasciando per sempre quella desolazione. Temevo di sentirmi in colpa. Le preghiere che facevo al nonno e ai miei genitori venivano accolte in paradiso. Non avevo perso la fede sebbene avessi motivazioni valide per perderla. Quando vedi violenza, morte e distruzione e ogni giorno la gente morire perché altri vogliono quella morte, c'è sì da domandarsi dov'è Dio e perché lascia fare tutto questo. Mazlum ci aveva fatto salire in carrozza. Eravamo sporchi, pieni di sabbia, la pelle scura quasi bruciata dal sole e soprattutto secca. La ragazza di Mazlum, indifferente al suo vestito di una grande bellezza, prese in braccio Cem. Lo accarezzava. Vedere un segno di affetto nei nostri confronti ci dava ancora speranza.

- Prendete, mangiate questa mela. A casa vi daremo qualcosa di più. – disse la ragazza.
- Fehrat, Cem e Arat di giorno sarete i nostri servi ma alla sera voi dovete studiare. Ozlem vero che li educherai bene? – ci disse Mazlum.
- Si. Comunque non vi faremo lavorare tanto, siete ancora dei bambini. – disse la ragazza che ci osservava mentre eravamo in viaggio.

Mangiavamo le mele con una certa voracità. Appena arrivati a casa una signora armena ci lavò. L'odore del sapone, come mi piaceva! Mi faceva ricordare il nonno e mi misi a piangere. Il sapone aveva il profumo di lavanda. La pelle ritornava a luccicare. Da un lato ero contento ma dall'altro pensavo a nonno quando per distrarsi dai suoi impegni lavorativi mi lavava nel catino di zinco.

- Ma cos'ha il bambino adesso? Non è contento che lo si lavi? – disse la serva.
- No, gli ricorda come lo lavava il nonno. È sensibile e adesso è senza nessuno. – disse Mazlum.
- Ma come potete tenere questi tre bambini in casa? Se vi beccano succedono dei guai... - continuò la donna.
- Formalmente sono servi. Date a loro abiti maschili possibilmente. Dopo esservi lavati vi aspetto per la cena. Fehrat prima della cena passa da me nel mio ufficio.

Mi rimisero a nuovo. Ero fragile. Non ero più quel ragazzo forte come qualche mese prima. Mazlum mi accolse nel suo ufficio. Sapevo che di lui potevo fidarmi.

- Da oggi avrete nomi diversi. Per i primi cinque, sei giorni vi chiamerete con altri nomi. I controlli sono frequenti. Voi siete i miei nipoti. Non una parola dalla bocca. Sono in debito con il nonno. E voglio ricambiare dando ciò che posso. Buğra ospita anche lui armeni ma per un tornaconto economico. Nasconde armeni dietro esborso di somme di denaro. La famiglia di Mehmet Soydan riuscì a salvarsi convertendosi all'Islam. Ma tu Fehrat rimani armeno con la tua religione. Adesso andiamo a cena. E poi andate a dormire in caldi letti. Siete al sicuro e nessuno potrà farvi del male.

Andammo a cena. C'era di tutto. Una crema di ceci, del pane, l'acqua pulita. Sembrava di rivivere lo splendore della casa di Istanbul. Cem mangiava con un certo appetito. Ozlem accarezzava i miei fratelli più piccoli mentre mangiavano.

- Poveri piccini. Avranno sofferto tanto. – diceva la ragazza di Mazlum.
- Sì. Noi siamo state fortunate ad essere state scelte da voi trattandoci con rispetto...altre donne e bambini non hanno avuto la stessa fortuna. Se Dio esiste dovrebbe castigare quel Buğra. Con tutto ciò che ha fatto il loro nonno guarda a che punto sono questi tre ragazzini. – diceva arrabbiato Mazlum.
- Amore possiamo salvare una donna anche? Di spazio ne abbiamo. In quelle marce ci sarà una maestra pure, no? Mandarli a scuola mi sembra rischioso. Domani ripassiamo? Non trovi un aiuto per questi bambini?
- Sì hai ragione. Fehrat non volevi diventare uno scrittore da grande?
- Sì ma i miei sogni sono morti dopo quello che ho visto. La desolazione, la morte, le donne morire di stenti lungo la strada, ridotte a pelle e ossa. I neonati uccisi, alcune bambine subire atrocità e violenze di ogni genere. Come potrò riprendere la mia vita, la mia scrittura e i miei sogni dopo tutta questa crudeltà?
- Qui sei al sicuro. Diventerai scrittore perché dovrai testimoniare la crudeltà dell'essere umano. E tu Cem cosa volevi diventare?
- Musicista. Ma non ho più il pianoforte di mio nonno. Era il suo unico regalo.
- Non dire così Cem. In quella stanza con la porta verde, lì dentro lo troverai. Sono riuscito a farlo portare via dall'incendio. È il tuo Cem e nessuno te lo ha toccato.
- Mazlum, ma perché hai fatto questo per noi?
- Perché il nonno voleva pagarmi l'università. Ma io non ho accettato. Non volevo che vi privaste del necessario per i miei sogni. Sono stato uno scapestrato da giovinetto era giusto che pagassi le mie colpe. Ho sempre ubbidito al nonno e lui ogni tanto mi regalava qualche libro. Faccio fatica a leggerli, non sono bravo o colto.
- Ma ti posso aiutare come ad Istanbul! – dissi.
- Lo speravo. Sì, certo che mi potrai aiutare, ma tu prima dovrai imparare dall'insegnante che ti procureremo. Io di giorno lavoro e anche Ozlem. Finite di mangiare e andate a dormire.
- Sì. – dissi.

Dormii in un letto, non mi sembrava vero. Ma faticavo a prendere sonno. Avevo immagini vive e violente nella mente. La crudeltà dei turchi nell'uccidere i bambini e le donne senza alcuna pietà. E poi il nonno. La sua testa mozzata. Un ricordo duro, impossibile da cancellare. Lo schizzo del sangue, immaginavo, e la testa finita chissà dove. I turchi usavano spesso la sciabola più della pistola. Non davano importanza all'uso di quello strumento di morte. Ogni giorno il massacro si compiva. Io ero salvo grazie a Mazlum. Sapevo che quel ragazzo non mi avrebbe mai tradito. Non aveva tradito il nonno e so che su di lui avrei potuto contare. Stava rischiando tanto ma capivo che voleva distinguersi dagli altri.
Domenico Del Coco
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