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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Massimiliano Degli Esposti
Titolo: La mala vita
Genere Noir
Lettori 3577 40 59
La mala vita
Roma, autunno.

Il display del telefonino illuminò di un pallido azzurro la penombra in cui era avvolta la stanza.
Il suo cuore accelerò il ritmo, mentre allungava la mano verso il comodino “Dio, fa che non sia lui” pensò, ma quando lesse il messaggio, una fitta le strinse il petto: “Tra mezz'ora.”
Guardò fuori dalla finestra, era quasi buio.
Prese il telefono, la mano le tremava al punto da non riuscire quasi a scrivere: “Per favore, non adesso.”
Non ricevette la risposta che sperava e che sapeva che non sarebbe comunque arrivata: “Tra mezz'ora o sai che succede.”
Strizzò gli occhi, pulendo via le lacrime con il dorso della mano, poi uscì dalla camera.
- Do vai a st'ora? –
- Niente mamma, ho dimenticato di fare una cosa, ci metto poco. –
- Ma è quasi ora de cena! –
- Lo so ma ci metto poco, non ti preoccupare. –
Imboccò la porta di casa e scese per le scale con il cuore morto in petto.
Fuori l'aria era fredda, l'inverno non avrebbe tardato ad arrivare ma per lei non sarebbe cambiato comunque nulla.
Viveva un incubo e tutto ciò che aveva sperato fino a quel momento, era solo che non peggiorasse, ma lui l'aveva avvertita: “la prossima volta te voglio incontra', basta foto e video”, e la prossima volta era ora.
Lasciò alle spalle i lunghi palazzoni grigi e s'incamminò verso la pineta poco distante.
Sapeva bene dove sarebbe dovuta andare.
C'era già stata tante volte quando, insieme al padre e al resto della sua famiglia, si ritrovavano tutti insieme nei giorni di festa tra risate, balli e odore di carne alla brace. Era stato tanto tempo fa, all'epoca era soltanto una bambina e credeva ancora all'uomo nero.
Ora l'uomo nero era tornato.

Roma, sei mesi dopo.

Paolo fermò la sua Smart di fronte al cancello, pigiò il tasto sul telecomando e attese che le pesanti ante in ferro battuto si aprissero automaticamente verso l'interno. Imboccò il vialetto sterrato, delimitato da due siepi squadrate che lo separavano dal prato tagliato di fresco e posteggiò davanti alla corta e larga scalinata che conduceva verso la porta d'ingresso. Due grossi leoni di marmo, posti sopra a due basse colonne, sembravano montare la guardia all'entrata. La villa, nonostante l'orario sul display del cruscotto indicasse come fosse già mattina inoltrata, era immersa nel silenzio. Anche Rocco, il mastino, dopo aver sollevato il grosso testone, tornò a ronfare sull'uscio della propria cuccia, beatamente sdraiato sotto il sole. Paolo cambiò stazione radio, prese il pacchetto di sigarette dal cassettino del cruscotto e ne accese una, soffiando il fumo attraverso il finestrino aperto. Non era necessario che suonasse al citofono, sapeva che la telecamera di sorveglianza, sistemata sopra la porta, aveva già registrato il suo arrivo e trasmesso le immagini sullo schermo di servizio sistemato sia nel soggiorno, che nella stanza da letto. A quel punto, chiunque fosse stato di guardia, aveva già riconosciuto la piccola due posti e identificato il suo conducente. Si guardò intorno, poco distante dal muso della sua citycar, sotto un pergolato, era posteggiato un Ferrari blu scuro, affiancato da un Suv Mercedes di colore nero. Lo scatto secco della serratura del portone d'ingresso gli anticipò l'arrivo di Moreno.
Paolo si voltò proprio mentre il padrone di casa compariva in tutta la sua mole.
Indossava una tuta da ginnastica, com'era solito fare sempre più spesso.
Discese la scalinata, sistemandosi con una mano i capelli brizzolati che gli coprivano il colletto del giubbino.
Rocco gli andò incontro scodinzolando.
- Sta bono lì, te! Che me zozzi tutto. –
Il cane si bloccò di colpo e si mise seduto, guaendo al padrone che si allontanava.
Paolo si allungò verso lo sportello e lo spalancò.
Moreno sfilò di tasca il cellulare e digitò un breve messaggio, poi si adagiò con fatica sul sedile.
- Ma ancora co' ‘sta macchina da femmina giri? – rise, allargando un solco sulla barba incolta.
- Ciao pure a te, eh - rispose con sarcasmo Paolo, avviando il motore.
Moreno gli scompigliò i capelli – hai preso tutto? –
- Sì –
- Pure i giochi pe' i regazzini? –
- Sì, pure quelli. Sta tutto dietro ai sedili –
Moreno si voltò a guardare dietro di lui, per quanto gli concedesse di voltarsi la sua stazza compressa in quell'abitacolo disegnato per corporature meno voluminose della sua.
– E è entrato tutto dentro a ‘sta mezza macchina? –
- Ahò, e se non te piace puoi sempre scende, eh... –
- E daje, lo sai che sto a gioca'. E' che non me ce ritrovo dentro a ‘ste scatolette. Ma non è mejo gira' dentro a ‘na macchina normale?-
- Questa è ‘na macchina normale. Sto da solo, che me ne faccio de una più grande? –
- Bravo, mejo soli che male accompagnati, soprattutto se a accompagnatte è ‘na donna. –
Rise ancora.
Paolo abbozzò una smorfia quanto più simile a un sorriso e imboccò la stradina fuori dal cancello, che si richiuse subito dopo il loro passaggio.
- Lo sai do' sta casa de Franco? –
- No, non ce so' mai stato. –
- Allora te lo dico io. Daje, annamo. –
Paolo diede gas e la Smart balzò in avanti, cambiando marcia automaticamente.
Lasciò alle spalle la stretta strada che all'andata lo aveva condotto alla villa e s'immise sulla via principale.
Il traffico era intenso ma scorrevole e la due posti si muoveva con l'agilità di uno scooter, spostandosi da una corsia all'altra.
- E al ristorante de Raniero, invece, ce sei stato? –
- Sì, ieri –
- Eh ‘mbè, che ha detto? Ha pagato? Prendi a sinistra. –
- Metà, l'altra metà dice che ce l'ha a fine mese. –
Paolo sorpassò il furgone di un corriere e svoltò.
- Che cazzo, Paolè. Tutti te li doveva da'! –
La pesante mano di Moreno si abbatté sul cruscotto.
- E lo so e che potevo fa'? – Paolo sapeva bene che giustificarsi sarebbe comunque stato inutile.
Moreno non ammetteva errori o peggio che qualcuno venisse meno a una sua disposizione.
Paolo si preparò a una bella lavata di testa.
- Paolè, devi comincia' a capi' che non potemo fasse vede' deboli, chiaro? Sta gente qui è come i cani, se fiutano che se stamo a rammolli' alzano la testa e magari je vie' pure in mente che ce ponno mozzica'. E basta che la testa la alza uno, che poi pensano de potella alza' tutti. Gira pe' de qua, che famo prima. –
Moreno indicò sulla destra, poi riprese a parlare.
- Domani torni lì co' Gianni e lo pistate davanti a tutti. Se semo capiti? –
- Va bene. – Paolo accompagnò la risposta con un cenno del capo.
- Ricordate sempre ‘na cosa, nella vita ognuno se guadagna er rispetto che se merita. Guarda Franco. Sai perché ogni settimana porto alla moglie soldi, spesa e regali? Perché s'è guadagnato er rispetto mio. E non se l'è guadagnato perché è morto pe' non fasse prende co' la roba nostra in macchina, ma pe' quello che ha fatto in dieci anni che m'è stato affianco. –
Gli arruffò nuovamente i capelli - mo non fa quella faccia lì, dai. Io te sto solo a insegna' come se fa. Lo sai che pe' me sei come un fijo e prima o poi tutto quello che ho messo su finirà in mano tua. –
Lo guardò, Paolo rimase in silenzio, gli occhi fissi sulla strada davanti a sé.
- Ahò e sennò posso sempre datte ‘na mano a fatte entra' a qualche posto a mille e due al mese, eh!. -
- No, ma quali mille e due al mese. Me dispiace solo che te la sei presa. –
- Vabbè, mo sta tranquillo dai, non te preoccupa'. Domani tornate da quello stronzo e sistemate la faccenda. Daje, imbocca qui, che semo arrivati. –
Paolo svoltò a destra, infilando una strada che correva parallela a un enorme edificio di cemento grigio, costellato da una moltitudine di finestre.
Era composto da quattro corpi distinti, collegati da corridoi e sottopassi. Si estendeva per centinaia di metri, come un lungo taglio aperto attraverso la campagna circostante.
Era il frutto di un progetto edilizio che avrebbe dovuto rappresentare un nuovo modello di sviluppo abitativo ma che, dopo il fallimento dell'impresa edile incaricata della costruzione, anni di occupazioni e degrado avevano trasformato in un concentrato di fatiscenza e criminalità.
Un vero e proprio quartiere nel quartiere, un fortino in cui non transitavano nemmeno le auto della polizia e conosciuto da tutti come “i palazzoni”.
Moreno era stato tra i primi, trent'anni addietro, a occupare una di quelle abitazioni prive di quasi tutti i servizi essenziali.
Lì, tra quei corridoi bui e ammuffiti e quegli enormi androni su cui affacciavano decine di abitazioni, aveva iniziato la sua ascesa a boss di zona e ora era temuto e rispettato da chiunque lo conoscesse.
Superarono lo scheletro semi carbonizzato di un'auto e proseguirono lungo il viale.
- Sta attento a quei regazzini che giocano a pallone. –
Paolo rallentò l'andatura e allargò esageratamente la traiettoria.
- Fermate n'attimo. –
La piccola due posti si bloccò.
Tre ragazzini non più grandi di dodici, tredici anni si voltarono. Uno dei tre fermò il pallone sotto al piede e tutti insieme salutarono.
– Ciao More'. -
- Ciao regazzi' – poi ne indicò uno - te non sei Manuel, er fijo de Pietro? –
- Sì, so io – rispose un morettino con i capelli che gli poggiavano in testa come se fossero finti e una maglia da calcio con i colori della città.
- Come sta tu padre? –
- Bene, grazie. Esce la prossima settimana. –
- Me fa piacere. Quanno lo vedi dije che uno de ‘sti giorni lo passo a trova'. –
- Certo More', lo sai che su de me ce poi sempre conta'. –
Si asciugò il naso con la manica della maglia e lo fissò con un'aria da duro, come se fosse stato un uomo che ne aveva viste chissà quante.
Moreno sorrise e si prestò al gioco, esibendosi in un'espressione di profonda ammirazione – me raccomando, state attenti alle macchine. Ciao regazzi'. Daje, annamo. –
Paolo spinse sull'acceleratore e proseguì verso l'ultimo dei quattro blocchi.
- Te poi ripuli' quanto voi, fa i soldi che voi, anna' a abita' do' voi, ma se vieni da 'n posto de merda come questo, la puzza de merda te rimane attaccata addosso e lo sai che c'è, Paolè? A me la puzza de merda de sto posto me piace. –
Si voltò verso Paolo - non te scordà mai da do' vieni, Paole', ma soprattutto non te scorda' mai de chi è rimasto. Pe' questo, qui, me vonno tutti bene.–
L'auto si fermò davanti ad un portone semi sfasciato.
Moreno aprì lo sportello e con non poco sforzo scese dall'abitacolo, Paolo lo sentì bestemmiare sulle dimensioni della macchina.
Fece il giro e raccolse le buste dal piccolo bagagliaio, poi si affiancò allo sportello.
– Aspettame qua, ce metto poco – disse attraverso il finestrino, quindi si incamminò verso l'ingresso del palazzone.
Una scritta semicancellata sul muro informava che quello era il corpo D.
Oltrepassò una cancellata che delimitava l'entrata e avanzò superando le cassette della posta, stracolme di volantini pubblicitari.
Nonostante la fatiscenza delle strutture, la muffa sui muri e l'intonaco saltato in più punti, il portone manteneva comunque un suo decoro, quantomeno in termini di pulizia.
Giunto a un incrocio da cui si diramavano due corridoi, imboccò quello di destra ed entrò nell'ascensore.
Le porte si chiusero e attese che si riaprissero al quarto piano.
Sulla targhetta del campanello c'era scritto “Famiglia De Feo”, Moreno suonò.
Dall'interno una voce urlò di andare ad aprire.
Il faccino furbo di un ragazzino sui sei anni comparve da dietro l'uscio – ciao zio! –
Gli occhi del bimbo s'illuminarono di felicità mista a sorpresa, mentre spalancava la porta di casa.
Moreno si abbassò e lo baciò tra i capelli.
– Mamma! C'è zio Moreno! – urlò il bimbo, correndo via nel corridoio che attraversava tutta la casa.
Da una porta laterale al corridoio comparve una donna che il dolore per la perdita del marito aveva reso più vecchia dei suoi trentasette anni.
Aveva i capelli neri, tenuti raccolti da un mollettone e un vestito a fiori, in mano teneva uno strofinaccio.
Nonostante un filo di rughe che le solcava il viso e la tristezza che velava i suoi occhi scuri, nessuno avrebbe potuto negare che fosse una bella donna.
- Ciao Terè, come stai? –
Moreno la baciò sulla guancia e posò le buste sul pavimento.
- Eh, come voi che sto? – sospirò - sto come me vedi. O sto a puli' o sto appresso a quei tre. –
Indicò con il mento verso il fondo del corridoio dove, da una camera, erano sbucati tre ragazzini che nessuno avrebbe faticato a definire come fratelli, dal più grande al più piccolo erano ognuno la copia in miniatura dell'altro.
- Ciao zio Moreno!. – salutarono in coro.
- A belli de zio! Venite qui a damme n'abbraccio, forza! –
I tre non se lo fecero ripetere e si precipitarono tra le braccia larghe di Moreno, che ne sollevò due con irrisoria facilità, facendoli roteare in tondo.
I bimbi risero.
- Che c'hai portato? – chiese il più grande, l'unico a non essere stato preso in braccio.
La madre lo fulminò con lo sguardo - Ahò,'mbè? Che so ‘sti modi?–
- Ma no, lasciali sta' Terè. – minimizzò Moreno - so regazzini e i regazzini vanno viziati. E' vero regazzi'? – indicò con la testa una delle tre buste - daje, prendete ‘sta busta e andate in camera a apri' i pacchi che ce stanno dentro. –
Posò in terra i due fratellini, che corsero via insieme al più grande e raccolse le altre due buste, colme di cibo, allungandole verso la madre.
- Queste invece so' pe' te, Terè. –
Poi sfilò una busta da lettere dalla tasca del giacchetto della tuta. – Qua dentro, invece, ce so i soldi pe' pagatte le bollette e compra' quello che je serve ai regazzini. –
Teresa prese la busta e la portò al petto.
- Oddio, grazie Morè. Io non so mai che ditte. Ogni volta te presenti sempre co' tante cose e io non so mai come ringraziatte, davvero - la voce gli tremò, mentre un velo di lacrime le lucidava le pupille.
- Dai, mo non sta a fa' così, su. –
Moreno le passò un dito sotto gli occhi - asciugate ‘ste lacrime. Sai er bene che volevo a Franco e che vojo a tutti voi, non ve lascerei mai in mezzo a ‘na strada. Me voi davvero ringrazia'? Mettime su un caffè, fa er favore.–
Teresa finì di asciugarsi gli occhi col palmo della mano e portò le buste in cucina.
- Sì, sì, come no, anzi scusame se non c'ho pensato – sistemò le buste sul tavolo e prese una moka da uno scaffale.
- Non devi scusatte Terè. Ma Claudia, che non la vedo? Do' sta'? Non ce sta' mai quando vengo a trovavve. –
- Eh, ‘ndo sta' – sospirò la madre, riempiendo il filtro della moka di caffè - e che ne so ‘ndo sta', quella. Da quando che è morto er padre è diventata n'altra persona. A casa ce sta poco o niente e quando ce sta non parla. Mo non vo anda' manco più a scola. – accese il gas e mise la moka sul fornello.
- Ma come no? Ma se c'aveva tutti nove e dieci. –
- Eh, a me lo dici? A scola era l'orgoglio mio e de Franco. Er padre stravedeva pe' lei. Diceva sempre che Claudia ce l'avrebbe fatta a uscì da sto letamaio ‘ndo vivemo. Diceva che sarebbe diventata n'avvocato co' i contro cazzi. Anche se bella com'è, a me me piacerebbe tanto che facesse qualche scola pe' diventa' attrice. –
Lo sguardo di Teresa si perse per un attimo nel vuoto poi, tornata alla realtà, prese una tazzina dalla credenza e la sistemò davanti a Moreno, che aveva preso posto a capo tavola.
- Vabbè Terè, devi pure capilla se parla poco. State tutti a attraversa' un brutto periodo, lei più de voi. Lo sai quanto era attaccata ar padre e quanto lei fosse tutto pe' Franco. “Poraccio l'omo che se la prenderà”, me diceva sempre, “perché se solo je torce un capello, lo cancello dalla faccia della terra!” E' normale che mo sta così. Però mo che me dici che ha lasciato scola non me piace. Se la prossima volta che te vengo a trova' la vedo, ce parlo. Sempre che me lo permetti, eh. –
Teresa tolse la moka fumante dal fornello e versò il caffè nella tazzina.
- Ma magari Morè! Che po' esse che se ce parli tu, qualcosa risolvi. Magari è solo de un omo adulto che c'ha bisogno adesso, valla a capi' –
Ripose la moka nel lavabo e iniziò a sistemare la spesa.
– Mamma mia quanta roba e quando ce la famo a finilla tutta? -
Moreno bevve l'ultimo sorso e si alzò.
– Falli magna' quei regazzini, non te preoccupa', che la roba non basta mai. Mo vado Terè, grazie per il caffè. –
La baciò sulla guancia e si avviò verso la porta.
- Ma che scherzi? Grazie a te pe' tutto Morè. Sei davvero ‘na brava persona. – Teresa lo accompagnò.
- E' er minimo. Ciao regazzi'! – urlò rivolto ai tre fratelli.
- Se, capirai e quanno te sentono quelli. Staranno a gioca' co' quello che j'hai portato. Oggi è domenica, manco a scola so' andati. Tutto er giorno in mezzo ai piedi me li ritrovo. –
- Daje un bacio da parte mia, allora e salutame pure Claudia quando la vedi. –
Uscito dal portone, Moreno raggiunse Paolo, che si stava godendo la giornata di sole ascoltando la radio, sprofondato nel sedile.
- Hai fumato, ve'? – chiese Moreno appena si sedette.
- Sì, perché? –
Paolo avviò l'auto e con un'inversione a u si rimise sul lungo viale d'accesso.
- Perché lo sai che non devi fuma' in macchina –
- Ma è la macchina mia. –
- E a me non me ne frega un cazzo. Quando stai in macchina con me non devi fuma', che poi me puzzano i vestiti e non me piace. Se me piaceva puzza' de fumo avrei iniziato a fuma' da regazzino. –
Paolo aprì il finestrino per far cambiare l'aria, dalla radio giunsero le note di un classico della musica leggera italiana anni '70.
- Non è Umberto Tozzi, questo? –
Paolo annuì – Sì –
- Me spieghi perché un ragazzetto de vent'anni come te, sta in fissa pe' la musica che m'ascoltavo io all'età tua quarant'anni fa? –
- Me piace, me rilassa. –
- Bravo Paoletto, rilassate, che la vita già è troppo zeppa de cazzi. – Rise, poi indicò con la mano una stradina laterale al viale.
– Gira pe' de qua, portame al camper –
Paolo svoltò per una strada stretta e dissestata, che conduceva verso una fitta pineta.
Giunto in prossimità di una staccionata si fermò e attese che Moreno scendesse.
- Vatte a fa' ‘n giro. Torna a prendeme tra ‘na mezz'oretta, ok? –
- Ok, tra mezz'ora sto qui. –
Paolo ripartì, sgommando sullo sterrato.
Il camper era parcheggiato poco più avanti, Moreno passò attraverso un varco nella staccionata e lo raggiunse.
Era un modello italiano, vecchio di una trentina d'anni. In zona chiunque sapeva a chi apparteneva e nessuno osava toccarlo.
La cabina di guida era separata dal resto della struttura, mentre ai lati della cellula abitativa si aprivano un finestrone in plexiglass e una porticina, da cui penzolava un lucchetto aperto.
Tirò la porta verso di sé ed entrò, richiudendola.
Claudia era già dentro che lo attendeva seduta sul bordo del letto.
Moreno la fissò per un lungo istante. Somigliava alla madre, da cui aveva preso il taglio e il colore degli occhi. Aveva i capelli mossi, neri, sciolti lungo le spalle coperte da una magliettina aderente che lasciava intravedere le sue forme. Indossava jeans strappati e scarpe da ginnastica in tela. Dimostrava più dei suoi quindici anni.
Si mosse verso di lei – Bene, vedo che er messaggio te è arrivato, brava. –
La voce gli uscì roca, aveva lo sguardo di un predatore che sta per azzannare la sua giovane e indifesa preda.
Mise una mano nella tasca del giacchetto e ne estrasse una collanina con un ciondolo a forma di farfalla.
- Tiè, questa è pe' te, te l'ho presa l'altro giorno. Te piace? – si avvicinò fino a starle con le gambe a contatto delle ginocchia.
Aprì la catenina e fece per mettergliela intorno al collo ma Claudia si ritrasse, scacciando il regalo con un gesto della mano.
- Ahò, non lo voi? Sai che cazzo me ne frega a me. –
Rimise la collanina in tasca e le passò una mano tra i capelli, poi le tirò la testa all'indietro e si sedette accanto a lei.
Claudia contrasse il viso in un'espressione di dolore. Le avvicinò la bocca al viso e la leccò dal collo fino all'orecchio – toglite ‘sta roba, daje – le sussurrò - che non c'ho tempo da perde. –
Le passò una mano sul seno, poi la infilò sotto la maglietta, infine si tirò su in piedi e la trascinò per i capelli fino al tavolino.
Si mise alle sue spalle e la spinse in avanti.
Le slacciò i jeans calandoli fino alle ginocchia, poi toccò alle mutandine. Fece lo stesso con i pantaloni della tuta.
Le accarezzò un gluteo con la mano ruvida e vogliosa, poi la infilò tra le sue cosce lisce e affondò due dita, quindi se lo tirò fuori dalle mutande e diede inizio a quell'oscena profanazione.
Claudia aveva il viso premuto contro la fredda formica del tavolino ma, almeno stavolta, si era risparmiata la schifosa sensazione che provava quando quel corpo grasso e sudato si muoveva sopra di lei.
Moreno la violentava da mesi.
Un incubo iniziato poco dopo la morte del padre, dopo che aveva ricevuto in dono un telefono cellulare.
Quello che però all'inizio era sembrato essere solo uno dei tanti regali di uno “zio” affettuoso che si prendeva cura dei figli di un suo amico, si era trasformato nel tempo in uno strumento infernale.
In principio furono le minacce di morte per sua madre e i suoi fratellini se non si fosse prestata a inviare foto nuda.
Poi arrivarono le richieste di riprendersi in video mentre si masturbava.
Claudia obbediva, terrorizzata da ciò che sarebbe potuto accadere alla sua famiglia e nella speranza che Moreno si accontentasse solo di quello, ma alla fine giunse il momento che aveva pregato con tutta sé stessa non giungesse mai: il primo appuntamento. Claudia perse la sua verginità sul materasso del camper, tra lacrime soffocate e l'alito di Moreno che le entrava nelle narici. E ora stava accadendo di nuovo.
Pensò al padre.
Pensava sempre al padre in quei momenti. Pensava che se fosse stato ancora in vita, non avrebbe avuto nulla da temere, che lui l'avrebbe protetta come aveva sempre fatto. La sua cucciola, la chiamava.
Trattenne le lacrime, perché non voleva che Moreno la picchiasse com'era capitato la prima volta e iniziò a contare.
Si concentrò sui numeri, scandendoli nella sua mente uno alla volta e cercando di non fare caso a quel corpo che le sbatteva contro le natiche.
Arrivata a settantanove, Moreno proruppe in un grugnito.
Claudia sentì un gluteo e una coscia bagnarsi più volte e comprese che l'incubo era finito.
Lo sentì armeggiare con i calzoni della tuta e allontanarsi, mentre lei rimaneva immobile, piegata contro il tavolino, senza nemmeno la forza di alzarsi. Desiderava solo che lui uscisse e la lasciasse sola nel suo dolore.
- Lo sai, vero, che se racconti a chiunque qualcosa de quello che succede qua dentro, io ammazzo tu madre e tutti e tre i regazzini, sì? –
La voce di Moreno le giunse come se provenisse da un altro luogo e da un altro tempo.
Annuì, aveva paura che se lo avesse contraddetto in qualche modo, avrebbe potuto scatenare la sua furia.
- Brava. E n'altra cosa. Vedi de torna' a scola. A me non me ne frega un cazzo de i discorsi su chi potresti diventa', ma se non vai a scola, poi vengono a fa' domande e a me non me piace che la gente se mette a ficca' er naso nei cazzi nostri. Se semo intesi? –
Claudia annuì nuovamente.
- Bene. Te mando un messaggio appena c'ho de nuovo voglia. –
Claudia sentì la porta aprirsi e richiudersi. Attese qualche istante e poi scivolò in terra, scoppiando in un pianto silenzioso e disperato, consapevole della sua impotenza e schiacciata dal peso enorme di un segreto da cui non avrebbe potuto mai liberarsi, se non a rischio della vita della sua famiglia.
Pianse i suoi quindici anni violati, i suoi sogni stuprati, così come il suo corpo ancora innocente, la sua adolescenza schiacciata da una vita che aveva preteso che quella ragazzina crescesse molto più in fretta di quanto la sua età gli potesse ancora concedere.
Quando Moreno raggiunse la staccionata, Paolo era già lì che lo attendeva in auto.
Si sistemò sul sedile e allungò una mano, facendo ciondolare la catenina.
– Tiè, mettila nel cassettino. –
Paolo fissò il ciondolo, poi guardò Moreno.
- Che te guardi? –
- Niente, me chiedevo de chi fosse. –
- Metti in moto e annamo, che c'ho fame. –
Paolo fece scivolare la collanina nel cassetto del cruscotto e avviò il motore, lasciandosi il camper alle spalle, ignaro di ciò che vi era appena accaduto.
- E' solo ‘na rumena che me sbatto ogni tanto. – concluse Moreno.

Il profilo dei capannoni e dei palazzi che scorrevano poco distanti dal guardrail, si rifletteva sulla livrea argentata e sui vetri oscurati del minivan.
Sarebbe potuta sembrare una delle tante navette che fornisce il servizio di trasporto passeggeri dai numerosi alberghi del centro verso il vicino aeroporto, se non fosse stato per la scritta in caratteri dorati che occupava parte degli sportelli della cabina di guida: "Fratelli Savino - Onoranze Funebri - Catania".
Le ruote avanzavano lente sullo scuro nastro d'asfalto che si sviluppava per tutta la sua lunghezza intorno alla città.
Roma si era svegliata da poco, ma il traffico che caotico ne affollava ogni via pareva non dormisse mai.
L'uomo al volante, vestito con un completo e una cravatta scura, su cui era ricamato il logo dell'azienda, mise la freccia per segnalare il cambio di corsia.
Le due berline che seguivano il minivan imitarono la manovra, spostandosi entrambe a destra.
Il passeggero seduto accanto al guidatore controllò dallo specchietto che il piccolo corteo funebre si fosse ricomposto, quindi digitò sullo schermo del navigatore l'indirizzo contenuto nel messaggio che aveva ricevuto poco prima sul telefono. Una voce metallica, dal tono femminile, confermò che l'operazione era stata eseguita correttamente.
L'uomo si rilassò sul comodo sedile di pelle e si accese una sigaretta.
L'odore del fumo avvolse l'abitacolo, mischiandosi con il profumo dei gigli e delle rose che ornavano la superficie della piccola bara bianca sistemata nella parte posteriore.
Un nastro viola, adagiato sulla composizione floreale, riportava l'ultimo, straziante saluto di una mamma e di un papà.
Il minivan imboccò una rampa d'uscita e s'immise su una delle complanari, viaggiando in direzione della periferia estrema.
Una fila di alti pini marittimi costeggiava la strada a doppio senso di marcia.
In prossimità di un'area industriale, l'uomo al volante rallentò ed entrò nel parcheggio di un'autorimessa, seguito dalle due berline. Tutte e tre le vetture scomparvero all'interno di un deposito. Trovarono ad attenderli due uomini, in piedi accanto ad un camioncino con il pianale ingombro di cartelli di lavori in corso, birilli catarifrangenti, fusti e attrezzi.
Il minivan fece una mezza curva e si arrestò accanto al mezzo.
Il passeggero scese e si avvicinò ai due, che sollevarono le braccia e si lasciarono perquisire, poi fece un cenno agli occupanti delle due berline, che scesero dalle auto e si avvicinarono al terzetto.
- Mi devo fare segno di croce? – disse uno dei due uomini perquisiti, non riuscendo a trattenere una risata.
Pronunciò la frase con uno spiccato accento dei Balcani, una cosa normale per chi, come lui, proveniva dall'Albania.
- Solo se non avete portato i soldi – fu la risposta di uno dei quattro scesi dalle berline, che nel frattempo avevano raggiunto il terzetto.
Era un tizio alto, magro, dall'aria distinta e con una leggera inflessione siciliana nel tono della voce.
- Forse io ho portato, forse no, chi sa questo? – un sorrisetto sarcastico si disegnò sul volto squadrato dell'albanese.
- I soldi ce stanno. – intervenne il suo compare
- Ah, bene, tu sei italiano, invece. Meglio così, preferisco non avere a che fare con bestie dell'est quando si tratta di affari – disse il siciliano, senza distogliere lo sguardo da quello dell'altro, che rimase impassibile, quasi a volerlo sfidare.
La piccola bara bianca fu scaricata dal retro del minivan, la corona di fiori fu adagiata in un angolo.
Quando il coperchio fu smontato, dall'interno della cassa fecero la loro comparsa otto pacchi avvolti con del nastro scuro.
- Allora, questi soldi? – l'uomo distinto parlò con calma, ma il tono della voce non ammetteva repliche diverse dalla risposta che si aspettava di ascoltare.
L'albanese si mosse verso il pianale e prese uno dei sacchi di sabbia sistemati tra gli attrezzi.
Lo squartò con un punteruolo preso tra gli attrezzi e versò il contenuto in terra.
Alcuni pacchetti di cellophan caddero tra l'arena che si era sparsa tra i suoi piedi. Li raccolse, sistemandoli in una piccola pila.
– So' centomila euro, contateli pure – disse l'italiano.
Il siciliano non si mosse.
Uno degli uomini che si trovava con lui, un tizio più largo che alto e con un grosso crocefisso d'oro che gli pendeva su una maglietta raffigurante il volto di una tigre, fece due passi in avanti e prese i pacchetti, aprendoli uno a uno.
Trascorse qualche minuto senza che alcuno dei presenti pronunciasse una sola parola, si poteva sentire solo il fruscìo delle banconote contate.
- I piccioli sunnu tutti – confermò il piccoletto.
L'albanese raccolse uno dei panetti dalla cassa e lo bucò con il punteruolo, estraendone un pizzico di polvere bianca.
Intinse un dito e lo strofinò sui denti, poi annuì al suo compare, che raccolse gli altri sette pacchi.
- Bene – disse il siciliano – mi fa piacere aver concluso un buon affare – fece un cenno con la testa e il piccoletto con il crocefisso al collo mise i soldi nella bara poi, aiutato dagli altri due, iniziò ad avvitare il coperchio.
- Ah, un'ultima cosa - si rivolse all'italiano, ignorando volutamente l'altro - Don Salvatore ci tiene a farvi sapere che a lui non interessa dove intendete vendere la sua merce, a lui interessa che i pagamenti dei prossimi carichi siano regolari, ma se avete intenzione di scatenare una guerra per allargare il vostro giro, beh sappiate che sarà una guerra che combatterete da soli. –
Si voltò e seguito dagli altri tre raggiunse le due auto parcheggiate poco distante.
La bara fu caricata nel minivan, poi il piccolo corteo lasciò il deposito.
Rimasti soli, i due sistemarono i pacchi all'interno dei due fusti, ricoprendo tutto con la sabbia contenuta negli altri sacchi.
A lavoro terminato salirono a bordo e uscirono dal capannone.
- Se po' sape' come cazzo te viene in mente de fa' lo stronzo co' sta gente? –
- Che cazzo mi frega a me, Nico. Hai visto come sono arrivati? E' roba di ridere. In Albania, quando vogliamo portare droga o armi, portiamo in dietro di auto, senza fare scena di film americano -
- In Albania, però, se te fermano, basta che allunghi cento euro a un poliziotto. Qui, se ce beccano, se famo dieci anni. T'è chiara la differenza? –
- Io non ho paura di galera. Tu? –
- Falla finita. Non se tratta de ave' paura o no de anda' in galera, ma de non rovina' tutto quello che stamo a fa'. Non adesso che Vladi vo' allarga' il giro –
- Tu pensi che questa è buona idea? –
- Io non penso, Adan. Vladi decide e noi dovemo solo fa' quello che dice – si voltò verso l'altro - e non devi pensa' nemmeno te, chiaro?
- Sì, sì io so che lui è come un vëlla, come un fratello per te. Va bene, allora non penso, ok? –
Il camioncino lasciò la complanare e imboccò un via stretta, che dirigeva verso una zona di case basse e piccole palazzine.
Qualche minuto dopo, lasciata la zona abitata sulla destra, s'infilò in una strada isolata e infine si arrestò davanti ad un capannone marrone e nero.
La scritta sul cancello d'ingresso recitava “Caffè Roman”.
Adan e Nico scesero dal mezzo e si diressero verso una porta a vetri, mentre tre uomini, usciti dal capannone, iniziarono a scaricare i fusti. L'intera area odorava della fragranza del caffè tostato.
Aperta la porta, Adan si diresse verso l'interno del capannone, mentre Nico salì al piano superiore, dove si trovavano gli uffici dell'amministrazione.
Percorse un piccolo corridoio ornato da una pianta in fiore e spinse una porta su cui era scritto “Privato”.
Vladi lo accolse con un sorriso – Nico! –
Allargò le braccia da dietro la scrivania alla quale stava seduto. Aveva il viso abbronzato, i capelli neri pettinati all'indietro dal gel. Indossava un completo scuro, con camicia bianca e cravatta bordeaux.
Una ragazza bionda, con i capelli raccolti sulla nuca e una camicetta che faticava a contenere le sue forme, sedeva a un tavolo su cui era sistemata una macchinetta conta soldi.
Il ronzio dello strumento era incessante, così come il flusso di banconote che la ragazza inseriva nel contatore.
Vladi indicò il portatile davanti a sé, mettendo in mostra, da sotto la manica della giacca, un paio di gemelli d'oro.
– Questo coglione di austriaco, è terza volta che fotto con mio bluff. Che cazzo gioca? Gente stupida, che vive in posto stupido. Posto senza mare è posto stupido dove vivere. Tu immagini vita senza mare, Nico? –
Si alzò dalla sedia e girò intorno alla scrivania, raggiungendo un mobile su cui erano raccolte delle bottiglie.
– Vuoi vodka? Birra? – prese un bicchiere e versò tre dita di vodka.
- No, grazie – Nico aspettò in piedi che Vladi finisse di sorseggiare l'acquavite.
- Spiagge di Albania sono bellissime, sai? Peccato che tu non sei stato ancora in Ksamil o Saranda – si voltò - aah, tu devi vedere, Nico! Sabbia è bianca come Caraibi e acqua è trasparente che puoi vedere tuoi piedi. Noi dobbiamo fare vacanza lì, Nico. Vacanza di Re. Prima facciamo soldi di Re e poi vacanza di Re, eh Nico? – rise. Finì di bere e poggiò il bicchiere vuoto sul mobile, poi tornò a sedersi – aah, Nico, Nico. Allora dimmi, tutto bene con affare? –
Nico prese posto su una delle due sedie sistemate dall'altro lato della scrivania e attese che Vladi congedasse la ragazza con un gesto.
La tipa lasciò la scrivania e abbandonò la stanza, non senza aver prima ammiccato al boss albanese, che le sorrise di rimando.
- Questa stupida troia – sussurrò appena la biondina ebbe chiuso la porta dell'ufficio dietro di sé – pensa che io ho voglia di fottere lei. Povera, stupida troia – ripeté, poi si sistemò meglio sulla poltrona in pelle, allungando le gambe sotto il ripiano lucido della scrivania.
- Va bene così, lascia che continui a pensa' che sei uno co' cui potrebbei scopa'. –
Vladi annuì sorridendo – Giusto, meglio lasciare credere questo, ma adesso dimmi di affare. Tutto ok? -
– Sì, tutto a posto. Quaranta chili, come avevamo stabilito. I ragazzi stanno già a scarica' dai fusti. -
- Bene, molto bene – socchiuse gli occhi – e nostri amici di Sicilia hanno fatto problemi? –
- No, tutto regolare. La roba è ottima, penso che se po' taglia' bene, il problema sarà spaccialla... - lasciò il discorso volutamente in sospeso, sapeva che si stava avventurando su di un terreno difficile.
- Perché problema? –
Vladi ruotò la poltrona verso la finestra alle sue spalle. Dava sulla campagna che si estendeva per la maggior parte di quella zona periferica – vedi laggiù, Nico? Quella è Roma. Vedi come è grande? Non è problema trovare spazio per allargare nostro business. –
- Lo so Vladi, ma se è tanto grande perché anna' a sbatte er muso contro quelli de Moreno? Quello co' cui ho parlato, er siciliano, ha detto che a Don Salvatore non je interessa se volemo fa' ‘na guerra, ma la dovemo fa' da soli. Moreno è forte, Vladi. I giostrai so' tanti e noi non semo ancora pronti. Cercamose una piazza più piccola intanto e poi vedemo come movece –
Vladi rimase di spalle a fissare la linea dell'orizzonte sulla quale si stagliava il profilo della città.
– Quando io ero in Albania, a età di tredici anni, vivevo in baracca con ragazzi di mia età. Non avevo niente, neanche scarpe. Sai quando avevo fortuna cosa mangiavo, Nico? – attese qualche secondo nel silenzio, poi proseguì – gatti. Mangiavo gatti che trovavo in giro. Non è cattivo gatto, sai? Solo carne un po' più dura di coniglio. –
Ruotò nuovamente la poltrona e fissò Nico negli occhi.
– Quando tu non hai niente, quando tu vedi tuoi amici morire perché non c'è mangiare, tu sogni di avere anche poco e quando cominci ad avere poco, allora tu vuoi più e quando hai più, allora tu vuoi tutto. Io voglio tutto, Nico. Io voglio diventare Re e per diventare Re, io devo avere Roma. –
Rimase immobile, gli occhi azzurri puntati su quelli di Nico, che non disse una parola.
- Bene – sorrise – sono contento che tu hai capito. Hai altre cose da dire? –
Nico rifletté per qualche istante, indeciso se proseguire o no.
- Che c'è? Sai che tu puoi parlare di tutto con me, non dimenticare. –
Nico inspirò – Adan sta a diventa' un problema. –
- In che senso? –
Vladi si sporse in avanti, i gomiti poggiati sul ripiano della scrivania.
- Non è la prima volta, lo sai pure te. E' ‘na testa calda e ogni volta che sta in mezzo a qualche cosa, ce sta il rischio che salti tutto. Pure stamattina s'è messo a fa' lo sbruffone co' quelli de Don Salvatore, c'è mancato poco che se facessero rode er culo. Se è Roma che te voi prende, allora non ce potemo permette de ritrovacce in mezzo a qualche casino pe' ‘na parola de troppo. Adesso, come mai prima, tocca sta in campana. Ce devi parla'. –
- Mmh... - Vladi congiunse la punta delle dita davanti al suo mento.
– Adan è bravo ragazzo, Nico. Lui è come un vëlla per me. Lui è venuto da Albania, come me. –
Si alzò e girò intorno alla scrivania.
– Tuttavia – sorrise - mi piace questa nuova parola che ho imparato, sai? Tuttavia. –
Lo ripeté scandendo le sillabe.
– Tuttavia, affari sono più importanti di amicizia, questo non scordarlo mai, Nico. Vieni, andiamo giù, io parlo con lui e vedrai che non sarà più un problema da prossima volta. –
Nico seguì Vladi fuori dall'ufficio.
Scesero la scala e si diressero verso la parte del capannone dedicata alla lavorazione del caffè.
L'odore della tostatura si espandeva per l'intera struttura. Sorpassarono alcune donne in camice azzurro e cuffietta che stavano operando intorno ad alcuni macchinari e raggiunsero la parte posteriore, dove era situato il magazzino.
Trovarono Adan in piedi, a controllare altri tre uomini intenti ad aprire con cura i pacchetti e a trasferirne il contenuto in sacchetti più piccoli.
I tre interruppero quanto stavano facendo.
- Mirëdita ragazzi – Vladi sorrise.
- Mirëdita Vladi – risposero quasi all'unisono i tre.
- Vladi! Mio vëlla – il viso di Adan si illuminò.
- Come stai, Adan? – Vladi gli diede due pacche sulle spalle.
- Bene, pronto a fare quello che tu vuoi – sorrise.
- Ottimo. Come è roba, ragazzi? –
- Molto buona – rispose uno dei tre.
Indossava anche lui, come gli altri due, un camice e dei guanti in lattice.
- Penso che possiamo tagliare anche tre o forse quattro volte –
- Aah, questo mi piace sentire – Vladi sorrise nuovamente.
– Sentito Adan? Tre, forse quattro volte. Sai che significa? Significa tanti soldi mio vëlla!-
Abbracciò il suo amico, poi lo colpì con una ginocchiata in pieno sulle palle.
Adan sputò aria e saliva e si piegò in due dal dolore.
Vladi lo afferrò per il codino e gli tirò la testa all'indietro, poi dalla tasca del completo estrasse il manico di un coltello e con una veloce rotazione del polso fece scattare in fuori una lama affilata.
- Pezzo di merda – si chinò, avvicinando il suo volto a quello di Adan, puntandogli la lama del coltello sotto l'occhio – non è prima volta che tu fai stronzo con miei affari. –
Adan lo fissò esterrefatto.
– Vladi, io sono tuo vëlla, non faccio pezzo di merda con te – spostò lo sguardo verso Nico, che stava assistendo alla scena un passo più distante.
Sul volto di Nico si poteva leggere tutta la sorpresa per la piega che avevano preso gli eventi, ma non si azzardava a muovere un dito.
– Che cazzo ti ha detto Nico, Vladi? Lui ti ha detto di siciliani? Io scherzavo, Vladi. Io ho solo detto loro due cose per scherzare – implorò con gli occhi lucidi.
– Non è più tempo di scherzi, vëlla. –
Vladi gli fece scorrere il coltello lungo il viso, fino alla gola e lo affondò lentamente.
La lama penetrò completamente nel collo e un rivolo di sangue colò dalla bocca spalancata.
Adan fu colto da uno spasmo, poi si accasciò in terra, boccheggiando in una pozza rosso scuro, fino a che non restò del tutto esanime.
Nella sala calò un silenzio tombale. Nessuno osò aprire bocca e i tre si rimisero immediatamente all'opera, senza più distogliere lo sguardo da quanto stavano facendo.
Vladi rimase immobile per qualche istante, il respiro regolare, dal suo volto non traspariva la benché minima emozione.
I suoi occhi, ora, erano fissi su quelli di Nico.
– Roma, Nico. Portami Roma. –
Pulì la lama sporca di sangue sul braccio di Adan e richiuse il coltello con calma, poi lo infilò in tasca e uscì dal magazzino.
Massimiliano Degli Esposti
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