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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
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Writer Officina
Autore: Angelica Romanin
Titolo: Ritroviamoci alla fine del mondo
Genere Commedia Romantica
Lettori 3650 46 64
Ritroviamoci alla fine del mondo
Una gabbia di matti.

Giugno 2011

Mi svegliai col cuore in gola per un tuono assordante che segnava l'inizio di uno dei temporali peggiori degli ultimi dieci anni. I miei cani erano sotto il letto che ululavano, e dabbasso si sentivano grida forsennate che preannunciavano la fine del mondo.
Ancora intontita dal sonno, mi chiesi chi mai potesse essere questo novello Savonarola che profetizzava sventure e correva come un pazzo su e giù per tutta la casa, ma le mie fumose elucubrazioni mentali ebbero vita breve, perché ben presto mia madre entrò con impeto nella mia stanza e, accendendo la luce, disse: - E adesso non venirmi a dire che questo non è un uragano! -
Due lampadine da centocinquanta watt ognuna mi si puntarono addosso, e mia madre, bigodini in testa e vestaglia rosso corallo, mi fissò con sguardo accusatore.
Cercando di non farmi venire un infarto, mi alzai a sedere e chiesi spiegazioni di tutto quel trambusto.
- Non hai visto che cielo nero? - fu la sua risposta. - E li senti tutti questi tuoni? E il vento? Se questo non è un uragano in piena regola io non so cos'altro sia! -
Per un momento rimasi imbambolata a fissarla, poi, quando la mia mente ebbe afferrato appieno la sue assurde parole, sbottai. - Mamma, fuori di qui. Subito! - indicai la porta dalla quale era appena entrata.
Mi guardò, perplessa. - Ma non è meglio mettersi al riparo? -
- Ti ho già detto e ripetuto che sei autorizzata a entrare in camera mia solo in caso di terremoto, tsunami o invasione aliena. Gli uragani non rientrano nella lista! E ora mi alzo e prendo un valium. -
- Cara, ma tu non hai mai preso il valium... -
- Infatti inizio ora! -
Visto che sembrava non avere alcuna intenzione di andarsene, rincarai la dose. - Ma ti pare che un semplice temporale debba scatenare tutto questo trambusto? Possibile che tu debba sempre pensare al peggio? Un uragano a Ferrara. Abitassimo ai Caraibi, capirei, ma dove l'hai mai visto un uragano nella pianura padana? Al limite una tromba d'aria. -
E lei, già allarmata: - Oddio! Una tromba d'aria! -
- Fuori! -
E questo era il primo problema della mia vita.
Il secondo era che, dopo una convivenza durata due anni, ero nuovamente single.
Avevo scoperto che Paolo se la faceva con la sua insegnante di spinning, e subito dopo ero stata buttata fuori dalla sua vita e dalla sua casa.
Non avevo nemmeno avuto il tempo di piangere e disperarmi che, in capo a due giorni, avevo perso anche il lavoro. Paolo, purtroppo, oltre a essere il mio ragazzo era anche il mio capo. Non che mi entusiasmasse essere la sua segretaria, soprattutto adesso che si scopava un'altra, però avevo sperato che si sentisse almeno un po' in colpa per quello che mi aveva fatto.
- Ma è proprio perché mi sento in colpa che ti consiglio un cambiamento - mi aveva detto lui. - Non sopporto di vederti tutte le mattine con quel faccino triste. Lì, a quella scrivania a prendere le mie telefonate e segnare i miei appuntamenti. Come potrei essere tanto crudele da infliggerti questa pena? Un altro lavoro è giusto quello che ti serve per dimenticarmi. -
Il ragionamento effettivamente non faceva una piega, e io, d'altro canto, non ero certo nelle condizioni psicologiche più adatte per impormi.
Dopo qualche giorno di riflessione avevo finito per accettare il suo consiglio. Non aveva nemmeno avuto bisogno di licenziarmi, perché ero stata io a farlo, pensando che sì, forse al mio nuovo posto di lavoro avrei conosciuto finalmente l'amore della mia vita: un figo da paura che, in sella al suo cavallo bianco, mi avrebbe mostrato le gioie del mondo.
Avevo però sottovalutato un piccolo ma non trascurabile dettaglio: un nuovo posto di lavoro non era così facile da trovare. Infatti, dopo oltre due mesi, ero ancora infelicemente disoccupata.
Ormai era inutile tentare di riaddormentarmi. Mi alzai e decisi che sarei andata a trovare l'unica persona che avrebbe potuto tirarmi su di morale: Francesco, il mio amante ufficiale da circa un anno.
Breve parentesi: Ops! La povera Martina (cioè io) era stata sì tradita e umiliata dal perfido Paolo, ma non prima di averlo riempito di corna col sexy giardiniere di mamma. E brava Martina! Chiusa parentesi.

La pioggia battente stava già penetrando sotto l'ombrello e facendosi strada attraverso le cuciture del mio micro vestitino verde, che tanto bene s'intonava con i miei lunghi capelli rossi. Ormai ero bagnata fradicia, l'effetto bomba sexy era svanito da quando una raffica di vento mi aveva scompigliato tutti i capelli, rovesciandomi contemporaneamente litri e litri di pioggia addosso. Subito dopo ero finita con i sandali in una pozzanghera, e il trucco mi era colato irrimediabilmente sulle guance.
Ma che razza di estate era quella, se il dieci di giugno mi toccava ancora andare in giro con l'ombrello?
Fortuna che Francesco non stava tanto a guardare alla forma. Era la sostanza ciò che più gli interessava. Così, appena fatto il mio ingresso in casa sua, ero stata spogliata in due secondi netti, sollevata di peso e buttata sul letto.
Non si era nemmeno accorto della mia nuova lingerie di pizzo.
Ero entrata da meno di cinque minuti e già mi stava sbavando sulle tette come un animale in calore, mentre io ero lì, attonita e infreddolita, chiedendomi che cavolo ci facessi in casa da quel maniaco col Q.I. di un pesce gatto.
Era bello Francesco. Era alto, moro, muscoloso.
Era sexy Francesco, quando a petto nudo potava i rami del vecchio melo di mia madre.
E aveva anche un rispettabilissimo arnese tra le gambe Francesco, che avrebbe fatto invidia a Rocco Siffredi. Ma, ahimè, a tanta prestanza fisica corrispondeva altrettanta pochezza mentale.
Dire che era ignorante era un complimento. Se gli avessi chiesto chi era il Dalai Lama, o cos' aveva scritto Manzoni, oppure cos'era una supernova, lui mi avrebbe guardata come se fossi stata un marziano appena sbarcato sulla terra che parlava chissà quale strana lingua. Aveva la profondità spirituale di una pozzanghera e la raffinatezza di un camionista, con tutto il rispetto per i camionisti.
Ma allora perché lo frequentavo? Non riuscivo proprio a capirlo.
Forse perché all'inizio non lo conoscevo. Vedevo solo quel bel ragazzone che mi fissava con sguardo languido mentre tagliava il prato e pensavo ai dieci minuti di sesso tiepido con Paolo, e allora mi chiedevo: - Perché no? Perché non approfittare di un maschione nuovo di zecca pieno di entusiasmo e passione? Di un uomo che finalmente mi guarda con interesse, anzi, di un uomo che finalmente mi guarda? -
Era iniziata così, come una semplice trasgressione. Una punizione per Paolo e il suo disinteresse nei miei confronti, una semplice avventura.
E come amante era perfetto. Non deve parlare un amante, non deve essere troppo interessante, non deve essere meglio del tuo partner, altrimenti ti fa desiderare qualcosa di più, ed è lì che iniziano i guai.
Ma io ora ero single. E l'unico uomo della mia vita era questo bifolco superdotato convinto che lo yoga fosse un dolce svizzero.
Realizzata la situazione, ormai non avevo altra alternativa che lasciarlo. Dovevo dirgli che la nostra storia era a un punto morto. Con coraggio e lealtà gli avrei detto che tra noi non poteva funzionare.
Era difficile, certo, ma non potevo più prenderlo in giro. Dovevo lasciarlo libero di trovare una persona più adatta a lui, e, allo stesso tempo, dedicarmi anch'io alla ricerca di qualcun altro. Mi sarei sentita depressa – perdere ragazzo e amante in un colpo solo era dura – ma temevo che lui stesse iniziando a innamorarsi, e non volevo che s'illudesse.
Avrei troncato in quell'istante, senza perdere un attimo in più.
- Francesco... -
- Mmmh? - bofonchiò con la faccia immersa tra le mie tette.
- Francesco, puoi smetterla di succhiarmi come una mentina e ascoltare quello che ho da dirti? -
Lui sbuffò e si allontano giusto un secondo. - È così importante questa cosa? Non puoi proprio aspettare? In questo momento ho altro per la testa. -
- Me lo immagino... Comunque sì, è molto importante. Riguarda noi e il nostro rapporto. - Gli afferrai il viso tra le mani per obbligarlo a guardarmi. Il suo sguardo era vacuo, ma per un secondo mi illusi di avere fatto breccia tra i suoi pensieri offuscati dal testosterone, così continuai. - Non posso più andare avanti così. A me manca qualcosa, ho bisogno di poter parlare con un uomo, ho bisogno che condivida i miei interessi... Togli quella mano - allontanai le sue grinfie dai miei slip e mi sollevai a sedere, scocciata. - Mi ascolti? -
Lui gemette di disappunto ma annuì.
- Bene. Dicevo che sento la mancanza di un rapporto di un certo tipo, e forse noi non siamo adatti a stare assieme. Non fraintendermi, tu sei un bravissimo ragazzo e sei anche molto bello, ma siamo troppo differenti, non credi anche tu? Non avresti voglia di una ragazza diversa? Dici sempre che sono troppo complicata, che con tutte le mie chiacchiere ti viene il mal di testa... -
Lui sospirò, per nulla impensierito. - Insomma oggi non sei in forma, è così? Sei depressa, ma io lo capisco, so che ti ci vuole un po' di tempo per dimenticare Paolo. Ma credimi, fra qualche mese non ci penserai più. E poi cosa sono tutte queste chiacchiere sul trovarmi un'altra? In giro non c'è niente di buono, si trovano solo stronzette con la puzza sotto il naso. -
Ecco, appunto.
- Vuoi rallentare un po'? Ti senti troppo pressata? -
- Sì, anche quello, ma fondamentalmente ho bisogno di fare altre esperienze, conoscere gente nuova. Però potremmo sempre restare amici. Potremmo vederci ogni tanto per un aperitivo o una chiacchierata. -
- A-ah. Ok - annuì.
Non convinta lo scrutai, ma lui sembrava sereno.
- Bene. Allora è tutto risolto. Meno male, pensavo la prendessi peggio. Allora adesso vado che si è fatto tardi - mi alzai e mi rivestii sotto il suo sguardo impassibile, poi mi diressi verso l'uscita.
Lui si alzò per accompagnarmi alla porta e mi salutò con la mano. - Ci vediamo. -
Uscendomene da casa sua ero un po' perplessa.
Ok prenderla bene, ma qui si esagera, riflettei.
Che storia era? Neanche una lacrimuccia? Neanche un “ti prego, ripensaci”? E io che mi ero fatta tutti quei sensi di colpa... Non ci aveva nemmeno provato a farmi cambiare idea. Se gli avessi detto che doveva spostare la macchina avrebbe reagito con più enfasi.
Ora iniziavo a sentirmi vagamente offesa.
- Ma chi si crede di essere? Non avrà già un'altra pronta a prendere il mio posto? - borbottai, scalpicciando sull'asfalto bagnato. Mi resi conto, con rammarico, che un sottile sentimento di gelosia stava subentrando al sollievo provato inizialmente. Lo soffocai sul nascere e alzai le spalle, determinata a non pensarci più.
Ma sì, che mi frega? Sarà anche sexy, ma è talmente ignorante...
Lo squillo del cellulare mi risvegliò dai miei pensieri. Era lui.
- Non ho capito, ci vediamo domani o giovedì? - mi chiese, come se non avesse udito nulla di ciò che gli avevo detto appena cinque minuti prima.
Restai ammutolita per qualche secondo, poi, con mia grande sorpresa, mi ritrovai a rispondere: - Giovedì, domani non posso. -
Rimisi il cellulare nella borsa e scossi la testa.
Accidenti a me e alla mia scarsa determinazione!

Ed eccomi a vagabondare per le strade della città mentre, nel frattempo, aveva smesso di piovere e un tiepido sole asciugava i miei abiti umidicci.
E adesso cosa faccio? Senza lavoro, senza casa e senza ragazzo. Con un amante che non può più fare l'amante ma che non si decide a capirlo.
L'unica prospettiva allettante, a quel punto, era comprare una corda con gli ultimi dieci euro che mi erano rimasti e sperare che il vecchio melo nel giardino reggesse il mio peso.
In preda a quei cupi pensieri, senza accorgermene, ero ormai arrivata a casa.
Strascicando i piedi sul vialetto, cercai di darmi un'aria veramente afflitta e disperata.
Avevo bisogno di essere consolata, di sentirmi chiedere spiegazioni per quella mia profonda tristezza, ma nessuno compariva all'orizzonte per offrirmi un tè caldo e una chiacchierata consolatoria.
Le uniche chiacchiere che al momento si sentivano erano quelle che mia madre stava facendo con una coppia di vasi che, giusto il giorno prima, il giardiniere – nonché mio ex amante – aveva spostato di fianco al garage.
- Tesorini, su, non fatevi chiamare cento volte. È ora di entrare in casa - li esortava mia madre con tono carezzevole. - I bisognini li avete già fatti, adesso è ora della pappa. -
La guardai perplessa. - Mamma, con chi stai parlando? -
Lei si girò verso di me e strizzò gli occhi miopi. - Ah, ciao amore. Per fortuna sei arrivata. Fammi la cortesia di convincere queste due cagnette capricciose a entrare. Non so perché, ma si sono intestardite e non si vogliono proprio muovere. -
Mi avvicinai, e lei poté notare il mio sguardo attonito. - E tu che hai? Perché mi guardi così? -
Mi strinsi nelle spalle. - Mah, proprio non saprei. Sarà, forse, perché le tue cagnette ti fissano allarmate dalla soglia di casa, chiedendosi perché tu voglia dare la loro pappa a due vasi di terracotta? -
Lei strabuzzò gli occhi e si girò in direzione dei vasi. - Cosa? Vasi di terracotta? - poi ridacchiò, mettendosi una mano davanti alla bocca. - Oh, che sbadata! ma dici davvero? -
- Già. -
- Allora sarà meglio che vada a mettermi le lenti a contatto. Stamattina mi bruciavano un po' gli occhi, pensavo di metterle più tardi... - Mi afferrò per un braccio e, guardandosi attorno, bisbigliò in tono cospiratorio: - Non mi ha mica visto nessuno, vero? Non vorrei che qualche vicino pensasse che sono fuori di testa. -
Con un sospiro scossi il capo. - Per questo non ti devi preoccupare, ormai lo sanno già tutti. -
- Bene - annuì, mostrando di non avermi nemmeno ascoltata. - Ma perché Francesco ha spostato lì quei vasi? Gli avevo detto di metterli nel capanno. - Poi, cambiando discorso, aggiunse: - A proposito, oggi pomeriggio devo preparare delle talee per una signora che vuole un giardino. Visto che al momento non hai niente da fare, potresti darmi una mano. -
Mia madre creava giardini per lavoro. Li progettava, li dipingeva ad acquerello su grandi fogli di cartoncino bianco e infine, a preventivo approvato, li realizzava con l'aiuto saltuario di Francesco.
Ma con mia madre niente era scontato, così, se un cliente si fosse presentato nel suo studio, pensando al classico giardino ornamentale, lei l'avrebbe stupito proponendogli un “Giardino delle fate” con fiori profumatissimi dal profilo delicato e dal colore tenue, piante eteree dalle foglie minute e rami esili, tra i quali appendere piccole fatine di vetro tintinnanti a ogni alito di vento. Infine, a completare il tutto, avrebbe costruito un vero pozzo dei desideri, in ferro battuto e pietra di montagna, avvolto da una nuvola rosa di glicine rampicante.
Ma se avesse preferito un “Giardino degli gnomi”, allora si sarebbe ritrovato con alberi d'alto fusto, frondosi e rassicuranti, felci e ciclamini a formare un sottobosco riposante, mangiatoie e nidi per gli uccellini, cespugli ricchi di bacche, e, qua e là, aiuole coloratissime dove nascondere, come piccoli tesori, sculture di gnomi appena abbozzate in ceppi di legno.
Nel suo repertorio c'era anche il “Giardino delle streghe”, con piante dall'aspetto esotico alternate a splendidi fiori fieri ed eleganti, una piccola panchina decorata sotto un salice contorto, un laghetto dove trovavano ristoro rospi di ghisa, e profumatissimi ciuffi di erbe officinali che spuntavano un po' dappertutto.
Ma c'erano anche “Giardini didattici” per famiglie con bambini, “Giardini per pigroni” dalla facile manutenzione, “Giardini giapponesi”, “Giardini all'inglese”, “Giardini all'italiana” ...
Ogni sorta di ambientazione si potesse immaginare, mia madre era in grado di crearla.
Quella volta, la cliente aveva scelto un “Giardino goloso”, vale a dire un misto tra giardino, orto e frutteto.
Il progetto consisteva in un giardino tradizionale con alberi e cespugli ornamentali di vario genere, inframmezzati da piante da frutto e ortaggi vari. C'erano noci e noccioli, giuggioli e nespoli giapponesi, aiuole di girasoli e papaveri che ospitavano peperoncini rossi e gialli. Rucola selvatica, menta e prezzemolo crescevano ai piedi del gelsomino, e, al centro esatto del giardino, un piccolo pozzo in pietra bianca serviva ad annaffiare un orticello a forma di mezzaluna, circondato da un basso steccato in legno dove si arrampicavano more profumate e rossi lamponi.
Tutto ciò era perfettamente riprodotto in un bellissimo acquerello che troneggiava su un cavalletto al centro della cucina. Era quello, infatti, il luogo dove mia madre amava accogliere i suoi clienti.
Li faceva accomodare poi li sommergeva di chiacchiere entusiastiche sul suo lavoro, mentre mia nonna ricopriva la tavola con valanghe di dolci e dolcetti vari e, con gentile ma ferma insistenza, li costringeva a trangugiarli tutti, uno dopo l'altro.
Non c'era modo di sfuggire alla nonna. Appena sentiva una voce estranea varcare la soglia di casa, qualsiasi cosa stesse facendo la abbandonava. Tanta era la smania di nutrire i suoi ospiti, che udivi il suo ciabattare a chilometri di distanza, e, un secondo dopo, te la vedevi arrivare in cucina ansimando. Si placava solo al termine di numerosi e forzati assaggi, dopodiché scrutava con apprensione i malcapitati, in attesa di sentirsi dire che splendida cuoca lei fosse.
Ed era vero, era bravissima a cucinare e aveva una predilezione proprio per i dolci.
Ogni tanto amava riunire tutta la famiglia in lunghi banchetti, che, invariabilmente, terminavano con una infinita successione di portate altamente caloriche e zuccherine.
Ci tramortiva a forza di tiramisù alle fragole, dolcetti alle mandorle, crostate di frutta, bignè alla crema e muffin al cioccolato. Quando infine riuscivamo ad alzarci da tavola, ci trascinavamo sul divano – sperando che reggesse il peso – e crollavamo immediatamente in un sonno comatoso post pranzo.
Anche quel giorno, entrai in casa aspettandomi di essere assalita dal solito profumo di vaniglia e crema pasticcera, invece niente. Nessuna torta cuoceva nel forno, nessun aroma appetitoso solleticava le mie narici.
Qualcosa non andava.
Mi guardai attorno ma della nonna neanche l'ombra. - Mamma, è successo qualcosa? Non è che la nonna sta male? -
Lei annuì distrattamente. - Sì, mentre eri via ha avuto un lieve malore. Ma non devi preoccuparti, ora è tutto a posto, sta riposando. -
- Un malore? - ripetei, allarmata. - Hai chiamato il medico? -
- Ma certo! È già venuto e ha detto che non è niente, probabilmente è stato lo choc. -
Aggrottai le sopracciglia. - Lo choc per cosa? Qualche cliente non ha voluto assaggiare i suoi dolci? -
Conoscendo la nonna, non era un'ipotesi tanto assurda.
Lei fece un gesto insofferente. - Ma no, è colpa di tua sorella, vuole mollare Simone. -
Mia sorella Sara, da ormai dieci anni, viveva un rapporto molto conflittuale. Simone, il suo ragazzo, non era cattivo, solo che, come la maggior parte degli uomini, al posto del cervello aveva due mosche. Le sue ragioni di vita erano l'Inter e la Playstation, tutto il resto era contorno.
Talvolta Sara lo vedeva triste o assente, e gli chiedeva se avesse qualche problema del quale voleva parlarle, ma la risposta era sempre la stessa: - Non preoccuparti, non è niente - . Ma lei, con il suo tipico intuito femminile, era certa che fosse successo qualcosa di grave.
Forse aveva dei problemi al lavoro, che volessero licenziarlo? E se invece si fosse stancato di lei? E se stesse pensando a un'altra donna? Effettivamente, giusto un'ora prima avevano fatto l'amore e lui non aveva mostrato molto entusiasmo... E già si sentiva le gambe tremare all'idea.
Poi suonava il telefono. Era Imba, il suo migliore amico.
E lui, trascinando i piedi, si buttava a peso morto sul divano e diceva: - Non dirmelo, anche tu hai saputo che non ci sono più biglietti per il derby a San Siro? Io sono distrutto, è tutt'oggi che penso a quanto siamo stati cretini a non comprarli per tempo - .
E Sara allora si sedeva, e pensava che non sapeva se essere felice perché non c'era nessun'altra, oppure sperare che prima o poi se la trovasse questa benedetta donna, e che se lo portasse via, lui e le sue due mosche.
E così, quando mia madre mi disse che avevano litigato e che lei voleva lasciarlo, non mi stupii affatto. Del resto erano almeno sette anni che a più riprese si lasciavano. Ora era lui, perché non sopportava il suo caratteraccio autoritario, ora era lei, perché si rendeva conto che non poteva passare tutta la vita con uno che conosceva a memoria tutti gli episodi dei Simpson ma non sapeva chi avesse scritto i Promessi Sposi.
È pur vero che mia sorella era una rompipalle. Una persona estremamente precisa e meticolosa. Nella sua vita niente accadeva per caso. Tutto era stato prestabilito e organizzato con estrema precisione e accuratezza. A dieci anni aveva già deciso di laurearsi in scienze dell'educazione, a quindici che avrebbe fatto la maestra, e a diciotto che entro dieci anni sarebbe uscita di casa, e in effetti mancava poco al lieto evento.
Circa sei mesi prima avevano deciso di dedicarsi seriamente a far funzionare il loro traballante rapporto. Simone si era impegnato nell'acquisto di una casa e Sara aveva iniziato a risparmiare per arredarla. La casa era ormai pronta, Simone già ci abitava e mia sorella avrebbe dovuto raggiungerlo a breve.
- La mamma ha detto che vuoi lasciare Simone, non sarà mica vero? - la affrontai, spalancando la porta della sua camera.
Due occhi, azzurri come il ghiaccio, mi fulminarono. - Eccome se è vero, Simone è un idiota! -
Mi sedetti sul letto con lei, pronta a una lunga conversazione. - Cos'ha combinato questa volta? -
- Ieri sera dovevamo andare a teatro, ricordi? Avevo programmato quell'uscita per settimane, volevo che fosse perfetta. L'anniversario non si festeggia tutti i giorni, no? -
Annuii, esortandola a continuare; lei assunse un'espressione affranta e riprese da dove si era interrotta.
- Avevo preso i biglietti per Romeo e Giulietta, ma prima sono andata a casa sua per fargli una sorpresa, avevo in mente una bella cenetta romantica. Ho preparato la tavola con cura: le candele accese, la torta a forma di cuore... - scosse la testa e gli occhi le si inumidirono. - Se penso che la nonna ci ha lavorato tanto... -
- Dai, non piangere, alla nonna non importa della torta - le presi una mano e cercai di consolarla. - Sai che lei si diverte a sfornare dolci, piuttosto è preoccupata perché tu e Simone avete litigato -
- Litigato? - sgranò gli occhi e tornò immediatamente a infuriarsi. - Io non ho semplicemente litigato con Simone, l'ho eliminato dalla mia vita! Quel viscido bastardo schifoso! Quel ripugnante mollusco disadattato! -
- Esagerata. Cos'avrà mai fatto di tanto grave? -
- Adesso te lo dico cos'ha fatto! Erano le sette e un quarto, io ero già pronta. Mi stavo rimirando allo specchio, pensando alla perfetta serata che ci aspettava, ed ecco aprirsi la porta di casa. Bello come il sole, entra il deficiente, accompagnato da quei tre cretini dei suoi colleghi d'ufficio. “Entrate pure” dice, “adesso ci facciamo due spaghi e poi mega maratona alla Playstation”. Io ero lì, attonita a guardarlo. Mi è passato davanti senza neanche vedermi ed è andato in cucina a prendere le birre. -
La interruppi. - In effetti non hai tutti i torti a esserti arrabbiata, però mollarlo mi sembra un po' eccessivo... -
- E allora cosa dovrei fare? Sopportare tutte le sue angherie senza dire nulla? - mi puntò addosso uno sguardo gelido che mi fece rabbrividire.
- No, questo no - mi affrettai a dire. - Ma poi com'è finita? Lui come si è giustificato? -
- Sono entrata in cucina mentre era intento a cercare le birre, ho preso il vaso che era sul tavolo e gliel'ho tirato addosso. -
Spalancai gli occhi. - Cosa? Ma sei matta? Così lo uccidi! -
- No, purtroppo non l'ho preso, ho solo scheggiato un mobile. -
- E per fortuna! - tirai un sospiro di sollievo. - E lui che ha detto? -
- Niente. È impallidito e mi ha guardata senza dire una parola. Gli ho chiesto se fosse pronto per andare a teatro e, a quel punto, è arrossito. Per qualche secondo ha continuato a fissarmi inebetito, senza fiatare, mentre la sua faccia diventava sempre più rossa. - Fece una smorfia di disgusto. - Chiaramente aveva del tutto scordato il nostro anniversario. -
- E allora che hai fatto? - Ormai ero sempre più curiosa.
- Gli ho detto di non affannarsi a cercare qualche scusa patetica per giustificare il suo inqualificabile comportamento, poi gli ho chiesto di rendermi le chiavi di casa. -
- E lui? -
- Ha avuto il coraggio di dire che, siccome la casa l'ha comprata lui, al massimo sono io a dovergli ridare le chiavi. Ti rendi conto? Casa sua! Mi rinfaccia che quella è casa sua! Dimmi se non è un individuo meschino! -
La guardai senza dire nulla. Il ragionamento di Simone non faceva una piega, ma dirlo a Sara avrebbe comportato una sequela ininterrotta di ripicche e recriminazioni, così preferii tacere.
- Perché non parli? Non gli darai ragione, spero! -
Cercai di limitare i danni. - Assolutamente no. Però, in effetti, il mutuo lo sta pagando lui, non puoi dirgli di andarsene. -
- E perché no? La parte offesa sono io! Sono o non sono la donna? La cosiddetta “parte debole”? -
A fatica trattenni una risata. - Parlando di te, non userei esattamente questa definizione... -
Chiunque la conoscesse, sapeva perfettamente che Sara, nonostante l'aspetto innocuo, era una belva. Esile e deboluccia, con un caschetto di capelli biondi e grandi occhi azzurri, avrebbe potuto sembrare un angioletto. E invece no. Niente di più sbagliato. Mia sorella era un generale nazista, un dittatore in gonnella.
Mi scrutò con sguardo da inquisitore. - Cosa intendi dire? -
- Niente. Hai ragione tu, è un cretino. Ma ora cosa intendi fare? - cambiai discorso per rabbonirla.
- Per ora di convivere non se ne parla, gli darò un po' di tempo per riflettere e nel frattempo rifletto anch'io. Anzi, se hai qualcuno da presentarmi, tanto meglio. È ora di conoscere gente nuova, gliela faccio vedere io a quello stronzo! -
Sospirai, ripensando alla mia pessima mattinata. - Se vuoi ti cedo Francesco, non so più come fare per liberarmene... -
- Ma chi, il giardiniere? E perché? Non era superdotato? -
Ovviamente Sara sapeva tutto della mia tresca clandestina, dettagli scabrosi compresi.
- Su quello non ci piove - confermai. - Ma è anche pesante da morire. -
Lei annuì. - Lo so, l'altro giorno mi ha tenuta un'ora a parlare di potature e innesti, mi è venuta l'orchite. Infatti mi chiedevo quanto ancora avresti retto... -
- Il problema è che ora sono single - gemetti. - Lo sai che non riesco a stare sola. Senza contare che a letto è favoloso, mica come Paolo che lo faceva a settimane alterne. -
- A chi lo dici! - esclamò. - Con Simone è uno strazio. Se lo facciamo una volta al mese è già tanto. E poi che monotonia... Sempre la stessa storia. Io sotto lui sopra, io sopra lui sotto, luci spente e musica soft. Nessuna fantasia, encefalogramma piatto. Non sai cosa darei per una scopata come si deve. -
- Zitta, che sta arrivando la mamma - bisbigliai, sentendo uno scalpiccio in corridoio. - Se ci sente ci tocca portare anche lei in rianimazione. -
All'arrivo della mamma la conversazione prese immediatamente una piega diversa. Si iniziò parlando del malore della nonna e della speranza che si riprendesse presto, si passò a parlare dei suoi meravigliosi dolci, e si finì con l'elencare tutti i terribili danni che procuravano gli zuccheri: dall'obesità, al diabete, alla morte prematura.
Non capivo come fosse possibile che, qualsiasi argomento si affrontasse, con mia madre si finisse sempre per parlare di sventure. Era costantemente in attesa della catastrofe.
Vi faceva male una gamba? Trombosi!
Un dolorino alla testa? Ictus!
Da un taglietto vi sareste presi di sicuro il tetano, e se guidavate con la nebbia, un bell'incidente non ve lo toglieva nessuno.
Per gli agenti atmosferici, poi, aveva una certa fobia. Ogni alito di vento diventava immancabilmente un uragano, e se piovevano due gocce di troppo gridava all'inondazione.
Figuratevi la sua reazione quando le avevo comunicato che avevo perso in un solo colpo ragazzo e lavoro.
In parte ululando dalla disperazione, e in parte imprecando contro il destino malevolo, aveva dipinto un quadro del mio futuro decisamente preoccupante. Miseria, depressione e carestia mi attendevano. Uomini desiderosi di usarmi e ingannarmi, ricerca disperata di lavori inesistenti, droga e alcolismo come conseguenze inevitabili.
E quando io, in lacrime, ero ormai a un passo dal suicidio, lei se n'era uscita tutta allegra, dicendo: - Comunque ormai è inutile piangere. Forse, dopotutto, questa potrebbe rivelarsi una fortuna per te. Tanto più che quel Paolo non mi è mai piaciuto. E quel lavoro poi, limitarsi a fare la segretaria a uno stronzetto quando, con le tue capacità, potresti fare quello che vuoi. Su, smettila di piangerti addosso e pensa positivo. La vita è bella! -
Passando in modo tanto repentino dal catastrofismo a un ottimismo esasperato, sprofondava chi la stava ascoltando nella confusione totale, e rimaneva il dubbio su quale fosse la realtà dei fatti: cupa disgrazia o splendida opportunità?
Non lo sapevo. Di certo, al momento, c'era solo che prima fossi uscita da quella gabbia di matti, meglio era.
Angelica Romanin
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