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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Arsenio Siani
Titolo: La grammatica dell'anima
Genere Drammatico
Lettori 3772 40 60
La grammatica dell'anima
La notte avvolgeva la città. Il buio delle strade ci nascondeva e proteggeva mentre, furtivamente, ci muovevamo lungo vicoli secondari, incespicando ad ogni passo, sbattendo contro muri e vetrine come degli uccelli intrappolati in una rete che si dimenano per liberarsi, in preda al terrore.
L'alito ci puzzava di alcool e nelle orecchie rimbombava il rumore secco delle nostre risate, interrotte solo da qualche scarno commento o vacua osservazione.
D'un tratto non mi sentii bene, avevo bevuto quattro negroni praticamente a digiuno, non avevo messo quasi niente sotto i denti durante la cena e conseguentemente a tale superficialità e scelleratezza mi ritrovai a vomitare anche l'anima. I miei compagni di sbornia, Mario e Massimo, erano più allenati e, nonostante avessero bevuto quasi il doppio dei cocktail che io avevo consumato rimasero in piedi e, sebbene barcollanti, erano ancora vogliosi di continuare a far baldoria in qualche locale.
“Coraggio, ora passa” mi sussurrava Mario con un sorriso ebete stampato in volto mentre mi massaggiava la schiena e io rigettavo fino all'ultima goccia di gin misto a frammenti di salatini e noccioline. Sollevai la fronte imperlata di sudore e mi specchiai nella vetrata di un negozio. Nonostante la vista appannata riuscii a notare le fosse sotto agli occhi, lo sguardo spento che trapelava da una minuscola fessura lasciata dalle palpebre semichiuse e il colorito verde della pelle del mio volto che si intonava con quello della bile che avevo cominciato a rigettare con gli ultimi conati.
Quando ebbi terminato mi risollevai in posizione eretta, chiusi gli occhi ed espirai profondamente, tenendo il mento in alto. Mi tremavano le gambe, sudavo freddo e il cuore mi batteva all'impazzata.
“Ora va meglio. Possiamo andare” dissi, rispondendo allo sguardo enigmatico dei miei compagni.
“Forse è il caso di chiudere qui la serata” suggerì Massimo. “Sono le 2, ci abbiamo dato dentro per stasera e mi sembra che tu abbia bisogno di una doccia e di una bella dormita, amico.”
“Non dire stronzate! Ti ho detto che sto bene. Un'altra bevuta al Dana's pub, dai.”
“Massi ha ragione, Giorgio. Cerca di essere ragionevole, domani abbiamo anche da lavorare. Andiamo a casa, che è tardi.”
“Offro io” dissi, mostrando due banconote da 20 euro e ciò basto a far svanire ogni traccia di preoccupazione o remora dai loro volti. Conoscevo troppo bene quei due beoni per non sapere quali fossero i loro punti deboli su cui far leva per ottenere ciò che volevo e dopo vari tentativi ero più che sicuro che sarebbero stati capaci di staccarsi una gamba in cambio di una bevuta gratis.
Arrivammo al locale e pagai un cuba libre per entrambi mentre io mi limitai ad un calice di vino bianco frizzante che bevvi con fatica. Avevo la nausea ma non potevo prendere una bevanda analcolica altrimenti mi sarei rovinato la reputazione con i miei amici. Dopo aver giocato a fare il duro e averli convinti a proseguire la serata quando loro volevano tornare a casa gli sarei sembrato una mammoletta se non avessi continuato a bere. Tuttavia, anche così, trovarono qualcosa da ridire. “Il vino bianco lo bevono le fiche, sei diventato finocchio per caso?” domandò sarcasticamente Mario che, dopo aver ruttato e riso sguaiatamente afferrò Massimo per un braccio e lo trascinò nel mezzo della sala a fare quattro salti al ritmo della musica house messa da un D.j. che smanettava da una postazione in un angolo del locale. Rimasi solo al bancone ad osservare e giudicare quei due miseri coglioni che cercavano maldestramente di rimorchiare qualsiasi esemplare di sesso femminile presente sulla pista da ballo ricevendo in cambio, come al solito, insulti e manifestazioni di disprezzo.
Avevo lo stomaco in subbuglio per cui ordinai una focaccia con prosciutto e formaggio per cercare di recuperare un po' di forze e zittire i succhi gastrici che mi ribollivano nella pancia. Sbocconcellai a fatica metà della focaccia accompagnando ogni boccone con un sorso di vino per coprire il sapore ferroso del prosciutto cotto che forse non era della migliore qualità (oppure ero io ad avere i sensi troppo intorpiditi dalla sbornia per riuscire a giudicare se una pietanza fosse gustosa o meno).
Mi rullai una sigaretta con del tabacco golden Virginia e, prima che la accendessi, il barista mi fece notare che era proibito fumare in quella parte del locale e mi sarei dovuto spostare nella sala fumatori. Non posso dire con certezza che si fosse rivolto a me con tono scorbutico, tuttavia in quel momento ebbi il sentore che egli avesse alzato la voce e si fosse rivolto a me in modo poco amichevole, in ogni caso mi venne istintivo il gesto di scaraventargli in faccia il contenuto residuo del calice di vino.
“Modera il tono, con chi cazzo ti credi di parlare” gli dissi, puntandogli un dito contro e tenendo la sigaretta tra le labbra. L'ultima cosa che ricordo è il suo volto scavato nella roccia che in un millesimo di secondo diventò più duro, poi un primo piano delle nocche della sua mano destra. Quando riaprii gli occhi ero steso sul pavimento a faccia in su, poi sentii la presa di due mani possenti che mi sollevavano da terra, qualcuno mi colpì con una ginocchiata allo stomaco, poi quelle stesse mani attaccate a due braccia tatuate, gonfie come quelle di un giocatore di rugby, mi scaraventarono contro il bancone. Per non urtare con un fianco contro il bordo mi diedi una leggera spinta con la punta dei piedi e rotolai sulla superficie del bancone, rovinando sulla pedana dall'altro lato e urtando l'armadietto ricolmo di bottiglie di liquori e whisky, che piovvero dalle mensole fracassandosi intorno a me e versando tutto il loro prezioso contenuto sul pavimento. Una di esse mi cadde in testa, spaccandosi e ungendomi di rum dalla testa ai piedi.
“Ora le paghi tutte, figlio di puttana!” urlò il barista sollevandomi nuovamente da terra, pronto a farmi fare un altro volo. Poi vidi una pioggia di schegge di vetro che si materializzavano dietro la sua nuca, la sua presa si allentò e scivolò ai miei piedi, lasciandomi davanti agli occhi l'immagine di Massimo che teneva un braccio piegato verso il basso dietro di lui. Gli aveva fracassato un bicchiere in testa. Poi mi afferrò per un braccio e mi tirò via. “Forse è meglio se ce la squagliamo” suggerì.
“Ehi voi!” Due bestioni che avanzavano dalla porta principale ci sbarravano la via d'accesso all'uscita e, a giudicare dal modo con cui si tiravano su le maniche della camicia, erano pronti a menare le mani.
Mario indicò la porta dell'uscita di emergenza alle nostre spalle, ci fiondammo in quella direzione e un istante dopo eravamo in un vicolo buio e puzzolente sul retro del locale.
Corremmo via, poi dopo qualche centinaio di metri mi resi conto che ero troppo acciaccato e dolorante per proseguire, per cui mi fermai e sedetti sul marciapiede.
“Si può sapere che cazzo è successo?” chiese Mario, infuriato, intuendo che avessi fatto una cazzata. Poi notai il suo sguardo preoccupato che osservava un punto indefinito sulla sommità della mia testa. Mi concentrai su quel punto e sentii una sensazione fredda e umida, poi il rivolo di un liquido cominciò a colarmi lungo una tempia, su una guancia, fino al mento. Lo toccai con la punta delle dita, vidi che era rosso. Come il sangue. Un istante dopo persi i sensi.

Frammenti

“Suvvia, basta una firma per risolvere questa storia una volta per tutte.”
L'agente immobiliare mi tese il documento ed una biro per apporre una sigla sul foglio con cui sancire un accordo tra me e il proprietario di un fondo che determinava la rescissione di un contratto di locazione.
Tramite quell'agenzia avevo trovato un locale con l'intento di realizzare un mio piccolo sogno, ovvero aprire un caffè letterario, tuttavia, dopo la firma del contratto, avevo scoperto che la struttura non era in regola con le concessioni edilizie, c'erano stati degli abusi e sarebbero stati necessari tempo e soldi per mettere tutto in regola. Indignato, chiesi spiegazioni e mi fu risposto che erano problematiche ordinarie per un fondo commerciale, avrei dovuto pensarci prima di firmare il contratto e a quel punto, se avessi chiesto la rescissione del contratto, avrei dovuto pagare una penale. Non avevo soldi sufficienti per mettere a norma il fondo e per pagare l'affitto durante tutto il tempo che sarebbe servito per lo svolgimento delle pratiche burocratiche necessarie, per cui decisi di pagare la penale e rescindere il contratto, sebbene ritenessi di stare subendo un'ingiustizia.
Rilessi velocemente il documento alla ricerca di qualche tranello, tuttavia l'atteggiamento spazientito dell'agente, che sospirava e tamburellava sulla scrivania con la penna che mi stava porgendo, mi fece desistere dal mio proposito d'indagine e firmai.
Avrei avuto una vasta gamma di soluzioni alternative a disposizione: potevo fregarmene della sua impazienza e continuare imperterrito nella mia analisi; potevo prendere tempo chiedendogli di portarmi via il foglio per studiare bene il documento e chiedere la consulenza di un legale; potevo infilargli quel foglio su per il culo, lasciargli le chiavi e andarmene senza aver siglato un bel niente.
E invece no: la mia atavica ingenuità, unita ad una naturale tendenza a volere tutto e subito che mi rende incapace di rimandare le decisioni, mi spinse ad una scelta azzardata e superficiale: firmai. E la seguente espressione trionfante e sadica che si disegnò su quel volto di traffichino da strapazzo mi fece presagire di aver combinato un macello.
“Allora siamo a posto?” chiesi titubante.
“Certo! Come attesta questa scrittura privata rinunci alla locazione del locale e lasci, a titolo di risarcimento danni, la caparra al proprietario del fondo. Non ha più nulla a pretendere e lo stesso vale per te. L'accordo è raggiunto, hai pagato la penale tramite la cauzione e tra voi finisce qui. Storia chiusa. Arrivederci e grazie. Adiòs. Sayonara.” Accompagnò le ultime esclamazioni con dei gesti plateali con le mani, agitandole con veemenza come se fossero delle ali. Sembrava entusiasta ed al settimo cielo.
“Molto bene. Se non c'è altro...queste sono le chiavi del fondo.”
Gli porsi il mazzo di chiavi, mi alzai e, senza degnarlo di uno sguardo né salutarlo mi avviai verso l'uscita ma fui fermato a metà strada dalla sua voce.
“Dimenticavo...a chi la intesto la fattura?”
“Co...come?”
“La fattura dell'agenzia. La intesto a tuo nome o ad una azienda? Hai una partita iva?”
“Cioè...mi stai dicendo che vuoi essere pagato?”
Mi guardò con un'espressione di finto stupore disegnato sul volto. “Ovvio. Il mio lavoro l'ho fatto. Ti ho trovato il fondo, hai stipulato un accordo, poi se hai voluto mandarlo all'aria sono problemi tuoi. Devi darmi quello mi spetta.”
“Il tuo lavoro non consisteva anche di informarmi sulle problematiche del fondo già dalla prima volta in cui mi hai portato a visitarlo?” chiesi alzando la voce, visibilmente alterato. Quella storia stava cominciando ad esasperarmi. “Ho firmato la rescissione per concludere questa storia prima possibile ma se avessi deciso di agire per vie legali tu e il proprietario del fondo non ve la sareste cavata a buon mercato.”
“Troppo tardi” disse, agitando il dito a destra e a sinistra mentre sollevava con l'altra mano il foglio che avevo firmato per mostrarmelo. “Dovevi pensarci prima di firmare questo atto. Sai cosa dice? Che acconsenti a lasciare la caparra al proprietario a titolo di risarcimento danni, per cui riconosci gli effetti giuridici del contratto. Di conseguenza devi pagare l'intermediario che ha permesso alle parti di incontrarsi e di suggellare l'accordo, ossia io.”
“Spero che sia uno scherzo. Ho già perso duemila euro in questa storia, senza contare le spese che avevo cominciato a sostenere per l'iscrizione in camera di commercio e all'agenzia delle entrate. Tutto per causa tua! E hai il coraggio di chiedermi di essere pagato?”
“Io non chiedo di essere pagato. Lo pretendo! Lo dice la legge. Sai come funziona, no? L'agenzia ha diritto a percepire una percentuale pari ad una mensilità in caso di raggiungimento di un accordo e di stipula del contratto. Quindi, dato che il canone di locazione era di duemila euro, mi devi duemilaquattrocentoquaranta euro, in quanto bisogna sommare l'iva sulla fattura.”
Ma è assurdo!”
Questa volta urlai, fuori di me dalla rabbia. Sentivo un calore innaturale che mi saliva in viso gonfiandomi le guance e arrossendomi gli occhi, le narici del naso si allargarono spontaneamente, la mascella si serrò e digrignai i denti. “Sei una carogna! Non ti basta aver vinto? Vuoi anche umiliarmi. Potresti chiedere al locatore di dividere con te i duemila euro della caparra...probabilmente lo farai lo stesso, ma hai deciso di spolparmi fino all'osso e raccattare tutto ciò che puoi.”
L'agente rimase impassibile, continuava ad osservarmi con un'espressione sprezzante dipinta sul volto mentre, da dietro la scrivania, continuava ad agitare quel foglio di carta come se fosse un trofeo.
“C'è poco da blaterare, cocco. I fatti sono questi. O mi paghi quello che mi spetta o ti farò scrivere dall'avvocato e si va in giudizio.”
“Bene, andiamo in giudizio. Voglio che me lo dica un giudice che devo pagarti. Magari gli racconto tutta la storia, vediamo se ti dà totalmente ragione.”
“Vuoi andare in giudizio? Liberissimo di farlo, perché no? Perderai sicuramente e dovrai anche pagare le spese legali e gli interessi maturati sulla somma. Io ho solo da guadagnarci, fai pure.”
Qualcosa mi esplose nello stomaco e mi fece scattare in avanti, tuttavia riuscii a tornare in me e a fermarmi un istante prima che lo colpissi con un pugno. Mi limitai a colpire la scrivania con entrambi i palmi delle mani e ad inveire nei suoi confronti. “Sei un farabutto, una canaglia. Vergognati! Io ti rovino, fosse l'ultima cosa che faccio!”
La sua reazione mi fece ghiacciare il sangue nelle vene. “Minacce...ingiurie...l'affare si complica. Potrei addurre anche questi elementi in giudizio. Poi vediamo chi sarà a rovinare chi.”
Disse queste parole con la consueta aria pacata e al tempo stesso sprezzante. La stessa che aveva mantenuto durante tutto il colloquio. Davanti al suo atteggiamento granitico, che gli derivava dalla certezza della sua vittoria, realizzai che mi aveva battuto su tutta la linea. Era stato più furbo, più scaltro e più cattivo di me e qualsiasi cosa avessi ulteriormente detto o fatto avrebbe giocato a mio sfavore perché la situazione era irrimediabilmente compromessa.
Lo guardai con aria attonita, mossi le palpebre un paio di volte e boccheggiai per assimilare più aria possibile. Per qualche secondo avevo avuto una sensazione di asfissia, come se non riuscissi a respirare, poi un sudore freddo mi inumidì la fronte e impallidii. Mi voltai e cominciai a muovermi come un automa, uscii dall'agenzia e mi incamminai lungo il viale. Il mio corpo si mosse per ore lungo le strade del centro mentre la mia mente vagava altrove, anestetizzando i miei sentimenti. Non sentivo niente, né dolore, rabbia o frustrazione. Forse quel flusso di pensieri astratti rappresentava una forma di protezione generata dal mio inconscio per difendermi dai sentimenti negativi e dagli impulsi distruttivi che stavano attanagliando il mio essere.

Mi risvegliai al pronto soccorso, dove Mario e Massimo mi avevano portato per farmi curare la ferita alla testa. Mi fecero una tac per accertare l'assenza di traumi o lesioni gravi, riscontrarono una lieve ferita sul cuoio capelluto che aveva generato la copiosa perdita di sangue. Mi venne applicata una medicazione tramite una sostanza collosa per suturare la ferita in luogo dei consueti punti, mi applicarono una benda e infine mi congedarono. I miei amici fumavano una sigaretta all'esterno del pronto soccorso, attraverso le vetrate della porta scorrevole potevo vedere i loro volti segnati dalla stanchezza e dai postumi della sbornia. Una leggera tensione nelle mascelle e il modo in cui sgranarono gli occhi quando mi videro testimoniarono l'apprensione che stavano provando per la mia condizione di salute e non potei fare a meno di provare un moto emotivo di commozione per questa velata ma comunque percepibile manifestazione d'affetto da parte loro.
“Hai la testa dura, eh, figlio di troia?”
“Ci vuole ben altro per spaccartela, testa di cazzo!”
“Grazie mille, miserabili coglioni che non siete altro.”
“Veramente” disse Massimo con tono fintamente grave e serio “io ero per lasciarti lì in un lago di sangue ma Mario insisteva a dire che sembrava brutto...”
“Più che altro” riprese Mario “temevo di perdere il mio fondo cassa per le bevute quando sono a secco di quattrini.”
Questi erano i miei amici. Mario e Massimo. I miei unici amici. Due beoni con la fissa la per la fica, fannulloni con il cervello della dimensione di un arachide, incapaci di affrontare la minima discussione seria. Ma avevano una qualità talmente grande e importante che da sola basta a compensare tutti i difetti e le lacune caratteriali: la lealtà. Credevano nell'amicizia e si sarebbero buttati nel fuoco per aiutare un amico in difficoltà. Ma anche un estraneo, perché questi ragazzi dalla scorza dura ma col cuore d'oro dimostravano con i fatti e le azioni la grandezza del loro animo. Non avevano bisogno di dire a una persona che gli volevano bene o di compiere gesti formali ed eclatanti per manifestare il loro affetto. Loro nei momenti decisivi c'erano e questo bastava a farli entrare nella propria vita e ad affidargli ogni pensiero, a condividere ogni esperienza di vita e unire il proprio mondo con il loro. Niente segreti, nessuna sofferenza celata nel cuore di cui loro due non fossero a conoscenza. Era questa la loro regola. Essi sapevano ciò che stavo attraversando e potevo sentire anche la loro frustrazione e il disagio per l'impossibilità di essermi d'aiuto in qualche modo. Non si rendevano conto che il loro supporto, la vicinanza costante e il sostegno irremovibile che dimostravano nei miei confronti erano la mia àncora di salvezza e l'unico appiglio cui potevo fare riferimento in quel tormentato periodo.
Mi posizionai nel mezzo tra loro due e li afferrai per le braccia. “Vi ho messi nei casini col lavoro? E' quasi mezzogiorno, avreste dovuto essere al lavoro da un pezzo. E invece eravate qui ad aspettarmi. Mi dispiace...”
“No problem, amico. Ho chiamato in azienda e ho preso un giorno di malattia. Ho già avvisato il mio medico che ha provveduto a fare un certificato. Per fortuna che ho un dottore tollerante e strafottente, basta che lo chiami e gli dica che non mi sento granché e subito mi prepara il certificato senza fare troppe domande.”
“Io” aggiunse Mario “ho chiamato Giuliana per dirle di mettere un cartello sulla saracinesca dell'officina per avvisare che oggi rimanevo chiuso.”
“Ma così perdi la giornata di lavoro...”
“Cosa vuoi che sia. Ci sono delle giornate in cui lavoro talmente poco che penso che guadagnerei di più a starmene a casa, con quello che costano le utenze. Magari questa è una di quelle giornate. Comunque ti saluta Giuliana. Le ho detto cosa ti era successo ed era molto preoccupata per te. Forse troppo. Potrei diventare geloso, sai?”
Mentre parlavamo imboccammo via Pisacane, giungemmo all'incrocio con strada di Pescaia e risalimmo verso la Fortezza Medicea. Telefonai in azienda per comunicare ciò che era successo e che quel giorno non sarei andato a lavoro, e forse neanche l'indomani, perché i medici del pronto soccorso si erano raccomandati che stessi a riposo per almeno due giorni. Non era vero, ma mi credettero.
“Cosa hai detto ai medici? Hanno fatto domande? Non vorrei che gli sbirri venissero a cercarti dopo ciò che è successo al Dana's.”
“Gli ho detto che sono scivolato in casa e ho battuto la testa contro un mobile. Sembra mi abbiano creduto. Comunque dubito che quei farabutti sporgano denuncia. In quel pub avviene una tale quantità di fatti illeciti che la polizia si è ripromessa che la prossima volta che ci entrerà, sarà per chiuderlo definitivamente.”
Giungemmo nei pressi dell'enoteca e invitai a pranzo Massimo e Mario. L'odore ferroso e acidulo dei vini proveniente dall'interno del locale, unito all'aria frizzante che accompagnava gli aromi dolciastri, tipici dell'erba bagnata dalle ultime piogge primaverili mi aveva messo parecchio appetito ed ero disposto ad offrire il pranzo ai miei amici anche se mi sarebbe costato un occhio della fronte e le mie misere finanze di quel periodo non mi avrebbero permesso di concedermi certi lussi. Tuttavia decisi di fregarmene e di godermi un lauto pasto perché poche cose mi risollevano il morale come un pranzo in compagnia.
Ordinai una tagliata di carne con rucola e grana cotta al sangue e un contorno di verdure grigliate. Massimo, avendo avuto carta bianca sulla scelta, scelse il piatto del giorno e gli fu servita una spigola su un letto di crema al pecorino, mentre Mario optò per un primo e ordinò un piatto di gnocchi al pesto con pomodorini e gorgonzola. Mangiammo con gusto accompagnando le pietanze con due bottiglie di Cacchiano, il sapore delicato di quel vino nobile si sposava perfettamente con la carne solleticandomi il palato ed esaltando la consistenza sanguigna di ogni boccone. Tuttavia, terminata la seconda bottiglia, ci rendemmo conto che era un vino ruffiano e ci ritrovammo nuovamente ubriachi.
“Vi voglio bene ragazzi, sappiatelo che vi voglio bene” biascicai mentre mi ficcavo in bocca un pezzetto di cheesecake alla nutella che avevo preso per dolce.
“Anche noi campione, anche noi” risposero all'unisono Mario e Massimo.
“Campione di stò cazzo! Come ho fatto a farmi inculare in quel modo? Che idiota sono stato, che idiota...”
Un moto d'ira improvviso si era impossessato di me, osservavo la mia mano tremolante che cercava di portare la forchetta alle labbra. Poi sentii il salato delle lacrime che si mescolava in bocca con il sapore zuccheroso della torta.
Massimo e Mario fecero l'espressione più ebete che potessero concepire, mi osservavano come se fossi salito improvvisamente sul tavolo e ci avessi cagato sopra e rimasero immobili e in silenzio per diverso tempo. Poi Mario provò a rompere il ghiaccio. “E dai Giorgio. Ancora con questa storia...sono cose che capitano.”
“Non ci pensare più, è acqua passata...”aggiunse Massimo, ma prima che la palla passasse nuovamente e Mario per somministrarmi l'ennesima frase fatta avevo scaraventato via il piatto facendolo volare ai piedi di una signora seduta ad un tavolo di fianco al nostro, che scattò in piedi e mi osservò inorridita.
“Col cazzo che non ci penso più! La fate facile! Non siete stati voi a rimetterci un mucchio di quattrini, a farvi fregare come degli allocchi e a perdere ogni stima e fiducia in voi stessi e nel mondo.”
Un cameriere si era avvicinato al tavolo con aria intimorita e, stringendo i pugni, sussurrò: “signori, devo pregarvi di lasciare il locale.”
Massimo si alzò e si sfilò tre banconote da 50 euro dalla tasca, pagò il conto e pregò il cameriere di tenere il resto come forma di compensazione per il disturbo arrecato, scusandosi per l'inconveniente e chiedendo di essere comprensivo. Mario, intanto, continuava a fronteggiarmi, cercando di ricondurmi alla ragione. “Mi sembra che stai esagerando. Hai perso dei soldi è vero, ma non farla più tragica di quello che è. I soldi vanno e vengono, sei stato sfortunato e un po' ingenuo, ti serva di lezione per la prossima volta. A che serve starci a rimuginare?”
“Non capisci. Tu non puoi capire. Nessuno può comprendere quello che sto provando.”
Gli occhi della sala erano tutti su di me. Mi guardavano come si osserva un pazzo e forse, in quel momento, lo ero per davvero. Cominciai a puntare il dito sui presenti e a roteare intorno a me, mentre vomitavo il mio astio, la mia paura e il mio rancore.
“Tutti voi presenti, che mi osservate, giudicate e disprezzate, siete dei miei potenziali nemici. Ovunque mi giro vedo persone pronte a pugnalarmi alle spalle,vedo gente avida, falsa, meschina, cinica. E' questa la mia visione del mondo. Voi mi considerate un pazzo, è questo che leggo nei vostri sguardi! Orbene signore e signori leggete anche voi i miei occhi, osservateli bene, così potrete vedere ciò che io penso di voi. Maiali! Siete dei porci! Luridi, schifosi porci, ecco ciò che penso. Beh, sapete cosa vi dico? Giorgio Lelli oggi smette di essere il ragazzo ingenuo, gentile e indifeso, vittima sacrificale della vostra avidità e del vostro arrivismo. Giorgio Lelli si ribella! Giorgio Lelli muore e rinasce a nuova vita!”
Terminai la frase calandomi le braghe e mostrando al pubblico le mie natiche. A quel punto alcuni clienti del locale, offesi da quella sceneggiata, si avvicinarono in modo minaccioso, ma Mario e Massimo si lanciarono su di me e mi immobilizzarono, trascinandomi via dal locale a forza, inchinandosi e chiedendo scusa anche a mio nome mentre lasciavamo il locale.
Arsenio Siani
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