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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama
con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi,
attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano
Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di
ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera
(Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime
di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il
purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati
da Einaudi Stile Libero). |
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria,
si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata
alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice
emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre
Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato
a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus".
Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé,
conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo
libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio
Strega 2021. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Mafalda e le sue disavventure: Il Cantropodo
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Dedicato a tutti coloro che cercano l'Ispirazione, a chi sogna, a chi ama, a chi non si arrende al mondo come lo vede, ma lo plasma per farlo diventare come lo vorrebbe. A te, amore mio, che immagini il futuro insieme a me.
Introduzione Mafalda è una donna in carriera, di una bellezza non convenzionale, un misto tra una pantofolaia fuori moda e Carmen Sandiego, ma goffa e maldestra come pochi; proprio non è al passo con gli anni ‘90. È sempre alla ricerca di nuove avventure e nel paesino di Arpa, che da poco l'ha accolta, si annoia facilmente. Il suo lavoro di crisis manager le permette di viaggiare in tutto il mondo e affrontare progetti sempre nuovi. Nella vita di tutti i giorni, però, sfrutta qualsiasi occasione per mettersi nei guai. Odia tutto di Arpa, a esclusione del suo lavoro e del novello ispettore di polizia, Giorgio Penta, per il quale ha decisamente una cotta. Arpa è piccola, piena di tradimenti, pettegolezzi e casalinghe disperate, ma dopo il terzo anno che Mafalda è lì, pur non volendo ammetterlo, comincia ad apprezzare la piccola comunità. Quasi il genere umano le appare più tollerabile in quell'angolo di mondo... Analizzando quello che le sembra un nuovo e succulento indizio per un'avventura, si caccia nell'ennesimo guaio, imbattendosi nel Cantropodo. Cosa si celerà dietro questa parola sconosciuta? Tra misteri, omicidi e amori, la nostra Mafalda ne combinerà di tutti i colori.
Indizi in biblioteca
Mafalda, ancora ignara che un giorno tutti avrebbero saputo chi fosse e forse avrebbero perfino raccontato di lei, girava per i lunghi corridoi della biblioteca come un'anima in pena. Era una donna che si avvicinava alla soglia dei trenta, capelli rossi e ondulati che si poggiavano delicatamente sulle forti spalle, occhi azzurri e carnagione chiarissima, quasi angelica. Sembrava una donna d'altri tempi, proprio non era adatta ai tempi moderni. Sicuramente non rispettava i canoni di bellezza di quegli ultimi anni Novanta. Era alta un metro e sessantacinque per settanta generosi chili. Non era grassa, ma formosa e muscolosa quanto un tronco di quercia. Aveva un naso con profilo greco, così diceva lei, e sopracciglia folte. Un cappello era poi l'immancabile cornice della sua figura. Ne aveva di tantissime fogge: a falde larghe, di paglia, modello borsalino, bombetta, fedora, panama... Il suo preferito era il copricapo a cloche, tipico degli anni ‘30 e a forma di campana. Tolta la sua goffaggine e la completa inconsapevolezza di sé, somigliava vagamente a Carmen Sandiego, protagonista di un videogioco anni ‘80, ispanica, capelli ondulati e scuri, ladra internazionale di buon cuore con guanti neri, borsalino e trench rossi. Mafalda Carta era uscita nel cuore della notte e si era intrufolata, come spesso faceva, nella biblioteca pubblica del suo paesino, Arpa. “Viveva” lì da circa tre anni; aveva lasciato il suo passato a Roma e si era trasferita, con armi e bagagli, ad appena due ore dalla metropoli. Nella realtà dei fatti, sarebbe più giusto dire che soggiornava ad Arpa, dato che non aveva voluto vendere la casa a Roma e la teneva sfitta, pronta a ospitarla ogni volta che si sentiva smarrita senza una boccata di smog e una buona dose di traffico. Arpa era un tipico esempio di impianto urbanistico romano, con lo schema organizzato su due assi principali ortogonali, il cardo e il decumano, che si incontravano al centro del paese, dove si trovava Piazza Oleandro, orgoglio del sindaco Marco Falerio. Alle 4:00 del mattino, la Rossa saliva ancora le scale a pioli premute contro gli altissimi scaffali della biblioteca “Enrico Fermi” per consultare libri e libri, tutto per riuscire a capire cosa fosse mai quella parola, “CANTROPODO”, intercettata mentre, distesa sul letto, ascoltava le conversazioni dei vicini per prendere sonno. La migliore cura contro l'insonnia per lei erano proprio le barbose e insulse chiacchiere dei paesani. In modo poco ortodosso, aveva impiantato un radiotrasmettitore sulla torretta telefonica che raggruppava tutti i dispositivi del paese e con quello ogni sera si sintonizzava su varie frequenze, talvolta per prendere sonno, talvolta alla ricerca di qualcosa che le facesse sembrare la sua esistenza meno tediosa. “Non sai quanto è brava la mia bambina” aveva detto la signora Tarpa, odiosa vicina. “Gli altri bambini in confronto a lei sembrano dei poppanti. Sentissi che voce da usignolo”. Mafalda, che la voce di tale “usignolo” la sentiva ogni pomeriggio durante le prove di canto, era più propensa a immaginare la bimba come un grosso e grasso uccellaccio spelacchiato con il collo incastonato nel busto, che gracidava a mo' di Albanella pallida: un rapace, che però fa il verso di un rospo, seppure più acuto. “Io credo che lui mi tradisca”, aveva frignato la signora Gilda parlando del suo ultimo toy-boy. Per quanto ne sapesse la Rossa, l'attuale tresca era con un certo Oscar. Lei non lo aveva mai visto e conosceva giusto di vista la compaesana, ma si vociferava stesse con un uomo tanto più giovane, bello e tenebroso. Quello era il gossip più succoso in circolazione. Non si riusciva a far a meno di ascoltare qualcuno che diceva la sua in proposito ovunque si andasse: dal parrucchiere, all'alimentari, in edicola... Pareva che la signora Gilda avesse un'età compresa tra i quaranta e... i sessant'anni, ben mistificata dagli strati di trucco e Dio solo sa cos'altro e aveva un giro di pretendenti in costante evoluzione. “Ehi, amico, si balla stasera?” aveva chiesto il giovane Almo, figlio della signora Molla e del signor Brown, ex militare americano. Mafalda trovava piuttosto simpatico Almo, giovane baldanzoso che era stato tra i primi ad accoglierla al suo arrivo in paese. Con lui e la sua famiglia condivideva una parete della sua villetta a schiera. A forza di cambiare continuamente frequenza, qualche ora prima, la Rossa aveva intercettato una voce grave e ovattata; quella stava sussurrando qualcosa di incomprensibile. Aveva cercato di ristabilire il contatto perso e le uniche cose che era riuscita a sentire erano state “CANTROPODO, TOP-SECRET, PERICOLO”. Per quel motivo si era ritrovata nella biblioteca in piena notte, sperando di trovare le notizie che neppure internet le aveva saputo fornire. Aveva gironzolato nella sezione dialetti, antiche leggende e quant'altro. Sapeva che l'ispettore Giorgio Penta sarebbe arrivato di lì a poco ad aprire le porte di quel posto da lei tanto amato e si sarebbe sicuramente accorto dei libri fuori posto, delle pile di manuali ammucchiati nei corridoi e delle carte di cioccolatini e caramelle sparse ovunque; avrebbe pensato a una bravata, o forse a qualcosa di peggio. In ogni caso, non voleva farsi trovare avvolta nel suo pigiama a righe orizzontali, stile carcerato, completamente struccata e con due occhiaie da fare invidia ai Kiss. Non avrebbe saputo in alcun modo giustificare quel caos e neanche la sua presenza lì. Inoltre, non voleva rivolgersi per la prima volta a quel delizioso spilungone conciata a quel modo. Rimise a posto in fretta e furia e sgattaiolò fuori dalla solita finestrella del bagno, senza aver cavato un ragno dal buco. L'ispettore era quasi arrivato alla meta dei quarant'anni. Aveva le gambe lunghe e sottili, teoricamente era alto due metri, ma il suo premurarsi di non sbattere la testa ovunque, lo portava ad assumere una postura quasimodeggiante e dinoccolata. I suoi occhi verdi e i capelli ricci e scuri lo rendevano l'uomo più bello che Mafalda avesse mai visto, il che gli aveva fatto guadagnare l'epiteto di “delizioso spilungone”. Alle 7:00 spaccate Giorgio Penta si apprestava ad aprire, come ogni mattina, il portone della biblioteca comunale “Enrico Fermi”. Arpa era un paesino piccolo e così, seppure lui fosse un aitante e promettente novello ispettore di polizia, aiutava come poteva. La tradizione voleva che ogni membro della comunità sopra i diciotto anni svolgesse lavori di pubblica utilità come volontario dei vigili del fuoco, a prescindere da sesso e ceto sociale e lui non si era potuto esimere. Gli era stato dato il compito di aprire le porte d'accesso alla preziosa collezione di volumi, dato che la bibliotecaria Barbara Talenti arrivava con estrema tranquillità, non prima che l'ombra della meridiana fosse perfettamente verticale, rigorosamente dopo aver accompagnato i figli a scuola e fatto la spesa. L'ispettore era un uomo scrupoloso e si assicurava anche che le sedie fossero in ordine, le scale a pioli fossero piazzate all'inizio di ogni corridoio con i blocchi ben agganciati agli scaffali e le schede per segnare quali libri si fossero presi in prestito fossero in bella vista al bancone d'ingresso. Era quasi alla fine del suo giro di ricognizione quando notò un minuscolo pezzo di carta stropicciata incastrato tra due libri, lo tirò fuori e con suo orrore lesse “CANTROPODO”. Capitolo 2: Plans for Management Mafalda si stava vestendo per andare al lavoro: gonna a ruota leggermente svasata, camicetta di seta e giacca in tinta, tutto sui toni panna. Sembrava una gelataia di alto bordo teletrasportatasi dagli albori del secolo. Non poteva poi mancare il tocco finale: un cappello che riprendesse l'esiguo arcobaleno della sua mise. Lei era un così detto tagliatore di teste presso la società di consulenza per la gestione delle crisi aziendali più conosciuta del Paese, la Plans For Management (PFM). Rideva ogni volta che la definivano “tagliatore di teste”; quel termine la faceva pensare alla regina di cuori di Alice nel paese delle meraviglie... Aveva fatto una carriera lampo perché non si arrendeva, a meno che non fosse inevitabile, a licenziare personale, diminuire la qualità dei prodotti e alzare i prezzi dell'output finale, come supponeva facessero la maggior parte dei suoi colleghi. Riusciva quasi sempre a trovare il bandolo della matassa convincendo gli impiegati a rivelarle, senza remore, tutto ciò che non andava. Ognuno, se opportunamente stimolato, poteva tirare fuori il lato migliore di “Peter Gibbons”, protagonista del film “Impiegati... male!”, programmatore informatico stressato e poco produttivo e, come lui, reinventarsi all'interno dell'azienda. Mafalda era diventata una cittadina di Arpa proprio a causa della società per cui lavorava, quando quella aveva deciso di aprire un nuovo polo in quello sputo di posto. “Abbiamo bisogno di un nuovo centro e vogliamo valorizzare lo splendido borgo di Arpa, richiamando nuova linfa vitale”, aveva dichiarato l'amministratore delegato, Thomas D'Algo. La signorina Carta sospettava che a condurli lì fosse stato il vantaggio economico di costruire nella provincia più a nord a percepire i sussidi statali destinati al meridione, ma adorava il suo lavoro e si era trasferita senza pensarci troppo. Lei e altri sei erano stati assegnati ai nuovi uffici. C'erano Melania e Poldo alle pubbliche relazioni, Tamara all'amministrazione; Riccardo, Aldo ed Erina che con Mafalda si occupavano dei progetti di risanamento delle aziende. Erano un team fenomenale, forse per via di un leader come lei. - Buongiorno Clara, sono arrivati nuovi progetti su cui lavorare? Non ho dormito neanche stanotte e le chiacchiere insulse dei vicini non sono bastate. Mi annoio - disse Mafalda arrivando in ufficio e posando sull'attaccapanni il suo adorato cappello a cloche color champagne. Clara, la sua fidata segretaria e amica di sempre, le sorrise maliziosamente, mentre stendeva con attenzione l'ultimo strato di rossetto. Le sue labbra piene e rosse, che spiccavano sull'incarnato di porcellana e insieme ai capelli biondi costituivano un insieme di indiscutibile grazia, si schiusero per dire come al solito qualcosa di completamente lontano e poco adatto alla sua figura angelica. - Di progetti ce ne sono a valanghe sulla tua scrivania, comunque, ci sono metodi assai più salubri e divertenti per passare notti insonni, non credi? Che mi dici dell'ispettore? Quando ti deciderai a fargli visita? Sono mesi che è arrivato in città e tu ancora non ti sei presentata; qui si usa così, approfittane! Mettiti un bel vestitino scollato, porta una torta, o meglio del vino, e vagli a dire se ti aiuta a passare la notte - . Clara era una donna tutta d'un pezzo, una femminista convinta e al contempo un'inguaribile seduttrice. Non si poteva dire che non sfruttasse a pieno ciò che la natura le aveva regalato: gambe chilometriche, un corpo da diva e un viso da angelo, che nascondeva perfettamente il suo animo tutt'altro che docile. - Sempre la solita - , ridacchiò Mafalda paonazza in viso, - non sono mica tutte intraprendenti come te, e ci vuole coraggio a chiamare Arpa città - . - Sciocchezze, gli uomini ti cadrebbero ai piedi se solo sapessero che esisti - la schernì l'amica, non avendo peraltro tutti i torti. La Rossa tendeva a rendersi invisibile a tutti, non comprendendo che, con il suo vestiario fuori dal tempo e i suoi immancabili cappelli, attirava l'attenzione più di un pavone dalla ruota variopinta. Vista l'aria che tirava, percorse il corridoio che la separava dalla scrivania di Clara in tutta fretta e si rifugiò nel suo ufficio; sfilò le scarpe da tango color crema, abbandonandole sul tappeto morbido, e cominciò a sfogliare i faldoni delle aziende che chiedevano aiuto alla PFM, appiccicando post-it su ogni cosa che potesse sembrarle utile alla causa. Quando risollevò il naso dalla carta si erano già fatte le 14:00. Dedicò qualche altro minuto alle chiamate urgenti e al controllo dei report delle collaborazioni in corso; non appena il suo stomaco ululò convinto, chiamò il suo team a rapporto e suddivise i progetti. A Riccardo, economista dalle spiccate capacità analitiche, toccò il bilancio di una società di telefonia che stava cavalcando l'onda della crisi senza successo e una pesca alla cieca dagli altri faldoni. Aldo ed Erina, che erano un duo equilibrato come una vecchia coppia che ha desistito più volte dallo strozzarsi vicendevolmente, poterono scegliere liberamente dai plichi rimasti “invenduti”. Mafalda assegnò a ognuno un obiettivo diverso a seconda di ciò che aveva ricavato dal cumulo di post-it utilizzati e poi disse risoluta: - vado a pranzo, ci vediamo domani per discutere le nostre idee - . La PFM aveva optato per il modello delle sei ore lavorative e con risultati sorprendenti: gli impiegati avevano ancora voglia di vivere una volta usciti dal lavoro. La sede di Arpa era stata la prima del gruppo coinvolta in quell'esperimento, voluto dall'amministratore delegato Thomas D'Algo. Egli pregustava di riuscire a ridurre i costi delle utenze e di limare almeno un po' gli stipendi, ma ai lavoratori sembrava andare bene così. Di fatto, qualche ora in più si faceva sempre, ma nulla a che vedere con lo stacanovismo degli anni addietro. La Rossa inforcò il suo amato cappello a cloche, senza il quale si sentiva nuda, e si diresse all'alimentari “Osvaldo, tutto per tutti”. Si trattava di un negozietto grazioso, con le vetrine sempre tirate a lucido e il profumo di salumi e formaggi che inondava tutti i reparti. Il nome era dovuto al proprietario, Osvaldo Talenti, marito della bibliotecaria del paese. Era un tipino basso e tarchiatello, con un sorriso sempre a trentadue denti contornato da gote cremisi paffute. Adorava esprimere le sue doti artistiche facendo castelli con le confezioni più disparate. Quello era tra i motivi per cui Mafalda desisteva spesso dal fare acquisti lì. Quel giorno, tuttavia, era particolarmente affamata e il locale si trovava proprio nei pressi dell'ufficio. Non passò che qualche minuto dal suo ingresso, che fece crollare la piramide di ceci in scatola. Osvaldo sapeva che la Rossa era peggio di una calamità per le sue sculture, ma non la sgridava mai, coglieva invece l'occasione per creare forme nuove. Lei si sentì comunque in imbarazzo e si maledisse per aver ceduto al rumoreggiare del suo stomaco spazientito. Certo era che, se non avesse comprato lì, le sarebbe toccato prendere la macchina e fare qualche chilometro prima di imbattersi in un altro esercizio commerciale. Per farsi perdonare acquistò viveri in abbondanza, sperando così di porre rimedio alla distesa di latta che si era prostrata ai suoi piedi. Una volta pagato, corse via in tutta fretta e si rifugiò fra le silenziose mura della villetta a schiera che aveva preso in affitto. Uno dei pochi pro della vita ad Arpa, secondo Mafalda, era il potersi permettere una casa spaziosa e, soprattutto, una cucina degna di essere definita tale, con ogni elettrodomestico utile e inutile. Era intenta a cucinare involtini e sformato di patate, quando cercò di ricordare quale mai fosse la parola che aveva sentito la notte prima, e di cui tanto aveva cercato tra libri di ogni genere. Era sicura di averla scritta su un fogliettino per non dimenticarla, eppure non riusciva a rammentare dove diamine lo avesse messo. Aveva anche cercato su internet quelle lettere, che davano vita a un suono così bizzarro e sconosciuto, ma aveva l'abitudine di cancellare la cronologia alla chiusura del browser e comunque non aveva trovato niente neanche lì. Mafalda non poteva sapere che, sbadata come era, era riuscita a perdere il brandello del suo taccuino, con l'appunto preso, tra due dei tomi che aveva accatastato nel corridoio della libreria la sera prima e che, mettendo a posto, lo aveva lasciato penzolare in bella vista. Capitolo 3: Fragole con la febbre L'ispettore ciondolava avanti e indietro sconcertato. - Ca-Cantropodo, non può accadere di nuovo - bisbigliava tra sé e sé. Non aveva molte informazioni, oltre al fatto che quella fosse la firma di una fantomatica organizzazione criminale, che sembrava essersi dissolta intorno agli anni ‘80, ma di cui non si sapeva poi molto. Si pensava fosse implicata in una serie di omicidi avvenuti dal 1963 al 1981. Grazie alle scrupolose, ma non troppo avanzate metodiche di indagine del tempo, erano stati catturati alcuni dei probabili membri dell'organizzazione. Non si erano mai però minimamente avvicinati al capo, o a qualcuno di realmente vicino a lui e non erano neppure ragionevolmente convinti che fossero tra loro collegati. Così almeno aveva letto Penta negli appunti di suo padre che aveva ritrovato, dato che lui era troppo giovane per conoscere direttamente quei fatti. Si destò dalle elucubrazioni mentali in cui si era perso, grazie all'arrivo del sottoposto, Mario Scudo; lo guardò intensamente e poi decise che doveva fare qualcosa. - Salve, Mario, tutto bene? Ho un compito per te, che dovrai svolgere con assoluta discrezione. Sei pronto? - . - Buongiorno, ispettore. Oggi mi sono svegliato proprio bene, la mamma ieri mi ha finalmente concesso di potermi cercare una casa tutta mia. Mi dica pure - . - Bene! Complimenti! Dunque, devi consultare per me l'archivio digitale della Polizia di Stato e stamparmi tutto quello che trovi circa il Cantropodo - . Finalmente il “delizioso spilungone” poteva richiedere quelle informazioni; aveva qualcosa per le mani a cui forse erano collegate. Inoltre, con la posizione che rivestiva ad Arpa, era quasi il capo di sé stesso. Con i presupposti fornitegli dal foglietto che aveva trovato quella mattina, un controllo da parte sua era quasi d'obbligo. Tutti quei quasi e forse avrebbero dovuto farlo riflettere di più, ma in quel momento Penta sembrava non aver coscienza dei suoi stessi pensieri. Mario rimase leggermente perplesso nel sentire quella parola a lui sconosciuta, tanto da doverne richiedere lo spelling. Aggrottò la fronte, ma fu solo un attimo quello in cui esitò; niente lo avrebbe distolto dallo svolgere alla perfezione il suo lavoro. Avrebbe scoperto tutto ciò che era necessario per accontentare il capo. Il giovanotto era praticamente un giannizero, in quanto a seguire gli ordini dell'autorità. La sua dedizione alla causa era autentica e profonda. Si sentiva un giusto e lo sarebbe rimasto sempre. - Sarà fatto! - . Si congedò con passo marziale tornando alla sua postazione di vedetta e si buttò a capofitto nel suo incarico. Era un ragazzo brillante, dalla mentalità aperta, nonostante fosse nato e cresciuto ad Arpa e non avesse viaggiato o fatto molte esperienze. La madre lo aveva tirato su da sola, dopo la prematura dipartita del padre. Lui era diventato l'uomo di casa già in tenera età e aveva accettato la cosa, perché la famiglia era la famiglia. Non gli pesava restare accanto alla donna che, seppure a volte fosse iperprotettiva, lo aveva fatto sempre sentire amato. La signora Molla entrò nella stazione di polizia trascinando i piedi. Aveva corso a perdifiato dal municipio a lì e non riuscì a proferire parola per quasi cinque minuti, che a Mario sembrarono eterni. - Mi dica, signora Molla, come posso aiutarla? Si sente bene? Vuole sedersi un attimo? - . Accomodandosi sulla seggiola di fianco alla porta cominciò pian piano a sussurrare: - Una tra... uff... tragedia. Un attimo. Pff... pff - . Continuava a buttare fuori aria come una locomotiva a vapore e a bofonchiare spezzoni di una frase. - Una tragedia? Ispettore! - gridò Mario convinto che si trattasse di una vera tragedia - credo sia importante, venga! - . Penta arrivò, con la sua camminata dinoccolata e la sigaretta spenta tra le labbra. Non aveva mai fumato, ma era convinto che quell'ammasso di nicotina e carta, bagnato dalla sua saliva, lo aiutasse a risolvere i casi più difficili e, all'occorrenza, il tempo che impiegava a far scivolare via dalla bocca quel cilindro sottile di carta riempito di tabacco trinciato, gli rendeva possibile non parlare a sproposito. La prima volta lo aveva fatto per darsi un tono all'università, ci aveva giocato mettendola tra le labbra, le aveva serrate per evitare che cadesse e per trattenere le parole che allora si lasciava sfuggire con troppa leggerezza. Quando aveva provato ad accenderla, aveva tossito fin quasi a perdere il respiro e non aveva più tentato. Quella sigaretta spenta faceva parte di lui, era come per altri uomini può essere l'accarezzarsi la barba lunga sotto il mento; se ne separava solo se strettamente necessario. Se la conversazione era lunga abbastanza, la riponeva in una delle tasche. La signora Molla cominciò a spiegare, riportando finalmente il respiro a un ritmo regolare. - Una maledetta epidemia. La figlia della signora Tarpa ha preso la febbre e l'ha attaccata a buona parte delle nostre fragole, dobbiamo fare qualcosa, o la festa sarà rovinata! - . L'ispettore prese tra le dita la sigaretta stropicciata e la rigirò con maestria tra indice e pollice. Quel rituale era la norma per lui, quando veniva interrotto nel corso di un pensiero difficile e contorto al quale ancora non aveva trovato soluzione. - Fragole con la febbre? Non sono sicuro di afferrare il punto! - disse sgomento. - Credo di aver capito io, ispettore. Signora Molla, mi interrompa se sbaglio e d'ora in avanti si ricordi che abbiamo emanato una circolare su cosa costituisca un'emergenza: morto, ferito grave, incendio! Il prossimo weekend si terrà la festa delle fragole. Per tradizione un gruppo di volontari - , esclamò Mario accompagnando l'ultima parola mimando enfatiche virgolette, - indossa dei grossi, imbarazzanti e puzzolenti costumi da fragola e offre abbracci ai turisti e ai membri della città che sono riusciti a salvarsi dal pubblico ludibrio. Di solito, lo fanno sempre gli stessi, che credo siano sapientemente ricattati dalle mogli. Fortunati bastardi, alcuni di loro quest'anno hanno preso la febbre durante le prove del coro e vanno sostituiti, dato che mancano solo due giorni a sabato. Temo che la signora Molla sia venuta per incastrarci. Siamo agenti di polizia, noi, mica ci possiamo ridicolizzare così - . - Oh, suvvia, Mario; non la metterei giù così tragica. È una tradizione; dovrebbe essere un onore partecipare. Ci mancano due volontari per sabato. Si tratta di fare il primo turno: tre ore, dalle 9:00 alle 12:00. Ispettore, non vuole entrare a far parte della comunità? Sono sicura che questo darà un'ottima immagine di lei - . - Va bene - affermò Penta divertito. - Io e Mario lo faremo volentieri - . La signora Molla si allontanò soddisfatta, con un sorriso da gatto del Cheshire. - Vi aspetto sabato alle 8:30 agli spogliatoi della piscina - aggiunse un attimo prima di uscire dalla caserma. Mario, guardando rassegnato l'ispettore, sospirò. Inizialmente indeciso se sfogarsi o meno, si lasciò poi andare allo sconforto: - Sentiva il bisogno di coinvolgere anche me? Sono riuscito a scamparla da quando sono nato e ora, dopo anni di abbuffate di confetture e dolcetti, sarò il cretino vestito da fragola che tutti prendono in giro - . - Svilupperà il suo sense of humor. Saper ridere di sé è una gran dote - . L'ispettore aveva molta stima del suo sottoposto e si divertiva a punzecchiarlo. Già dai primi giorni, si era dimostrato affidabile e capace e Penta in cuor suo aveva deciso di farne un grande uomo, oltre che un eccellente investigatore. Capitolo 4: Un vicolo di troppo Arpa era un tripudio di colori: fiori che traboccavano da ogni balcone, negozi addobbati. Pullulava di turisti, tutti venuti per la tradizionale festa delle fragole. Ogni anno accoglieva più di mille persone dai paesi vicini e persino dalla metropoli. Per due giorni le strade erano piene di banchetti imbanditi, con dolci e marmellate fatte in casa. Erano previsti giochi per tutte le età. “Osvaldo, tutto per tutti” esponeva i cosiddetti cestini della gioia, che contenevano prelibatezze di ogni genere, tutte a base di fragole. Oltre a quelli messi in bella mostra all'alimentari, c'era la tradizionale pesca di beneficienza dove la domenica mattina venivano messi all'asta i dieci cesti più belli e buoni preparati dalle matrone del paese. Mafalda adorava quella festa, e poi, quell'anno voleva aggiudicarsi il cestino della signora Tarpa che, seppure fosse odiosa, riusciva a rendere ogni suo manicaretto degno del nettare degli dei. Agli spogliatoi della piscina, Sala Tre, il signor Tommaso Leonida, responsabile delle decorazioni della festa, stava facendo una lunga predica su come il lavoro dei volontari fosse fondamentale per la riuscita dell'evento. Era elegantissimo nel suo completo nero. Si intravedeva giusto un colpo di colore, dato dall'interno pompeiano in seta della giacca. - Dovete essere fieri che quest'anno, a causa di alcune inaspettate defezioni, vi è stato permesso di essere qui. Il vostro ruolo è importante come e più di quello di altri. Sia chiaro, che non è concesso bere alcolici, abbuffarsi, o flirtare. Dovrete essere una sorta di servizio d'ordine, pronto a placare gli animi dei forestieri molesti. Mi raccomando, inoltre, di tornare qui alla fine del vostro turno, 12:00 in punto. Buona giornata - . Il signor Leonida, terzo ex-marito della signora Gilda, era piuttosto burbero da quando sua moglie lo aveva lasciato due anni prima e ancora di più da quando lei passava da un compagno all'altro in continuazione. Era diventato uno scapolo integerrimo e non tollerava vedere nessuno in atteggiamenti equivoci. Giorgio Penta, Mario Scudo e gli altri “volontari” del primo turno erano intenti a infilarsi i loro abiti di scena. Erano degli niente affatto entusiasmanti palloni di stoffa scarlatta, che finivano in una calzamaglia verde che poco lasciava all'immaginazione. Avevano qualche sporadica e informe macchia nera cucita qua e là e, a completare il tutto, c'era un cappello da giullare a strisce verdi e nere. Sembravano tutti pronti a esporsi alla gogna, quando si spalancò la porta dello spogliatoio della piscina ed entrò barcollando Carlo Perso, nomen omen, e con lui un terribile tanfo di sudiciume, alcool e qualche nota di tabacco. - Eccomi amici... hic... sono arrivato a rallegrare la festa. Dov'è il mio costume? - . Il signor Leonida, già colmo d'ira, lo trafisse con lo sguardo e prese a gridare. - Carlo, ma io dico, sono solo le 9:00. Non ti vergogni a ridurti così? Se avessi io una moglie come la tua, le porterei più rispetto. Santa donna, povera Bice - . Carlo, facendo celia, rispose: - Bè... tua moglie ce l'hanno tutti... hic! - . - Ora andate! Che non vi venga in testa di ridurvi così anche voi! - sentenziò infine il signor Leonida indicando ai volontari l'uscita e scaraventando l'ubriacone a terra nel vicolo antistante la Sala Tre. Carlo Perso era un uomo distrutto dai vizi: occhietti piccoli e vuoti, pelle bruciata dal sole e spalle chine. Lui e sua moglie, Beatrice Cozzi, detta Bice, avevano perso il figlioletto anni addietro. Era stato investito da un pirata della strada di cui si era persa ogni traccia. Da allora, Carlo non si era più ripreso, era Bice a mandare avanti la casa. L'ispettore era rimasto piuttosto perplesso davanti alla scena a cui aveva assistito. Aveva pensato anche di intervenire, ma il diverbio tra il signor Leonida e l'altro si era risolto subito. Inoltre, conciato da fragola come era, non era sicuro che il suo essere un pubblico ufficiale sarebbe stato rilevante. Mafalda era ancora a casa. Il letto era sommerso dai vestiti e non riusciva a scegliere cosa indossare. Il campanello non smetteva di suonare e così si precipitò ad aprire. Clara avanzò e squadrandola fece cadere le braccia lungo i fianchi. - Ancora non ti sei vestita? Scelgo io cosa metterai e lo indosserai, senza se e senza ma - . Mafalda seguì l'amica all'armadio senza fare resistenza, sapeva che sarebbe stato inutile. Quella tirò fuori un vestito blu con gonna a ruota e glielo lanciò. - Mettiti questo e alla svelta. Non voglio perdere la corsa con i sacchi - . Tra i giochi previsti per la festa, la corsa con i sacchi era tra i più attesi. Tutti i single partecipavano nella speranza di trovare un compagno; d'altronde, vincere era impossibile. Il più delle volte si finiva a faccia in giù in pochi salti. Le regole del gioco prevedevano che ognuno dei partecipanti infilasse una gamba nel sacco e corresse abbracciato al proprio compagno per cinquanta metri. Le squadre venivano formate a estrazione, pescando il nome di un uomo e quello di una donna dalle due urne corrispondenti. Si doveva solo scriverlo su un foglietto, imbucarlo e attendere l'estrazione sperando in un pizzico di fortuna. Clara non aveva un accompagnatore da quasi quattro settimane e la cosa era piuttosto insolita. Sognava un incontro fatale con qualche turista di passaggio, al quale non dovesse spiegare di essere allergica ai legami duraturi. Clara e Mafalda da quel punto di vista erano ai due antipodi, magari anche dati gli anni che le separavano. Clara, ben più giovane, era maggiormente spregiudicata e spigliata con l'altro sesso. Arrivarono in corso Galileo Galilei, cardo di Arpa, dove al banchetto di iscrizione ai giochi c'era la signora Roberta Molla, che le accolse sorridente. - Buongiorno, ragazze, a quali giochi vi volete iscrivere? Per la giornata di oggi siete ancora in tempo per la corsa con i sacchi, le uova ballerine, il morso della mela - . - Tutti, ovviamente - replicò solerte Clara. - Brave, ragazze! Sono cinquemila lire a testa. Divertitevi! - . Clara pagò con le banconote estratte dall'eccentrico portafoglio a pois e, senza neppure attendere che la signora Molla le restituisse il resto, si incamminò con l'amica per le vie del centro. Le due, che formavano l'accoppiata più in antitesi della storia di Arpa, erano nel mezzo di via Promenade, dove si sarebbe svolto di lì a poco il primo gioco. Ticchettando avanti e indietro con le sue scarpe da tango color crema, Mafalda scorse in un viottolo il signor Leonida, che discuteva animatamente con un uomo massiccio, con spalle larghe e mani possenti e vigorose. Indicò a Clara quel tafferuglio, ma a quella non interessava quanto a lei la vita degli altri. L'uomo indossava un cappello beige e un completo cangiante in tinta: un elegantissimo Solaro con armatura a gabardine classica. Una goduria per gli occhi. La Rossa, seppure stesse facendo di tutto per impicciarsi, non riuscì proprio a capire chi fosse, così represse la curiosità e tornò a guardare l'amica, rendendosi conto che quella le aveva appena chiesto cosa ne pensasse. - Cosa ne penso di cosa, scusa? Mi ero distratta un attimo - . - Sempre a pensare al tuo ispettorino, ma guarda che io pure soffro per amore. Devo assolutamente trovare un accompagnatore entro stasera. Dicevo, secondo te, se corrompessi Tamara, farebbe in modo di rimettere il mio foglietto nell'ampolla nel qual caso capitassi con un vecchio bacucco alla corsa dei sacchi? Quest'anno se ne occupa lei - . La Rossa storse il naso a quell'immagine e si apprestò a spiattellare l'amara verità all'amica. - Se è lei che se ne occupa, ti consiglio solo di firmarti in modo che lei non capisca che sei tu. Ti odia a morte da quando le hai rubato il fidanzato. È depressa da mesi. Vedrai che ti rifilerà il bavoso - . Clara si portò le mani tra i capelli biondi, sospirò rumorosamente e poi tirò fuori dalla borsetta uno specchietto e un rossetto. Ripassò ben bene i lineamenti della sua bocca carnosa, fin quando i suoi occhi non ebbero perso il velo di amarezza. - Il bavoso no, non me lo merito. Ma che ne sapevo io che era il suo fidanzato. Lui mi aveva giurato e spergiurato di volere solo me e ti assicuro che non ha proprio accennato all'essere impegnato. Gli uomini sono così, bisogna cambiarli spesso e non affezionarsi troppo. Ti deludono sempre! - . Il bavoso, nome d'arte dell'edicolante di Arpa, era stato un femminiere di tutto rispetto in gioventù, ultimo nato della stirpe degli Ascensi. Era un uomo sulla settantina, sdentato, duro d'orecchi e dai mille tentacoli. Come Mafalda aveva previsto, fu proprio lui l'altra gamba di Clara per la corsa con i sacchi, mentre a lei toccò un tanto affascinante quanto borioso avvocato. Gli appartenenti a quella categoria, nella mente della Rossa, erano paragonabili a viscide sanguisughe che si arricchiscono delle disgrazie altrui. Era sempre pronta a vedere solo il lato peggiore delle persone, almeno fuori dal lavoro. Con l'ultimo balzo prima del traguardo, l'ippopotamide leggerezza di Mafalda venne fuori ed ella inciampò tagliando il traguardo. Si ritrovò così catapultata nelle braccia del suo cavaliere e solo in quel momento ne apprezzò gli occhi grandi, la bocca sottile stirata in un sorriso allegro e i lineamenti aggraziati. Paolo Petriclo, così si chiamava il giovane avvocato, forse non era poi così male. Una volta ritirato il premio, una medaglia placcata di finto oro, Mafalda infilò in borsa il bigliettino da visita che l'avvocato le aveva depositato tra le mani. Era un cartoncino spesso, bordato d'oro e pieno di caratteri arzigogolati. Non era certa che lo avrebbe mai utilizzato, tuttavia le sembrava scortese rifiutarlo. Clara, che non vedeva l'ora di sfuggire al bavoso, trascinò via l'amica per partecipare all'evento delle uova ballerine. Si doveva indossare un costume da uovo, immergersi nell'acqua della piscina comunale e gareggiare saltellando come danzatrici di nuoto sincronizzato, percorrendo l'intera corsia dei bimbi nel minor tempo possibile. Non erano ammesse bracciate di vero nuoto. Tuttavia, era presto per andare davvero alla piscina, erano appena le 11:00 e le due decisero di fare un giro per bancarelle, spettegolando sugli appetibili maschi in circolazione, o almeno quello fu l'argomento principe trattato dalla segreteria della PFM in libera uscita. Passeggiavano da quasi un'ora quando, mentre erano intente ad acquistare alcuni dolciumi, sentirono la signora Orsina che chiamava a gran voce. - Qualcuno mi aiuti a indovinare! Venite, presto! - . - Andiamo a vedere, sarà divertente - si affrettò a bofonchiare Mafalda, più per schivare l'ennesimo imbarazzante discorso di Clara. - Chi sa che vorrà quella vecchia pazza - . La signora Orsina, effettivamente, con i suoi ottantaquattro anni, era leggermente svanita, se non proprio del tutto toccata. Quando le due la raggiunsero, furono ancora più certe della sua instabilità mentale. I suoi capelli bianchi, solitamente lunghi fino al sedere, erano ritorti in due trecce alla Pippi Calzelunghe e le sue mani grassocce le invitavano ad avvicinarsi disegnando nell'aria piccoli cerchi concentrici. - Giovanotti, non voglio perdere e, dato che Tommaso non ha fissato regole precise, credo che voi mi possiate aiutare. Io sono convinta stia mimando l'asta della bandiera dell'Albania. Che ne dite? - . Il signor Tommaso Leonida, intanto, giaceva a terra senza vita. Sul suo corpo non c'erano segni di lotta, lividi, tagli, o colpi di arma da fuoco, ma non c'era dubbio che gli fosse successo qualcosa di orribile. Era disteso, come pietrificato e con un colorito che doveva essere stato indotto da tutt'altro che una morte naturale. Il volto era accartocciato in una smorfia di dolore e le braccia erano sollevate sopra la testa. In pochi secondi si creò una gran folla; alcuni gridarono, altri piansero, altri ancora si guardarono intorno sospettosi e la signora Orsina sembrava spaesata da cotanta partecipazione. In genere poco più di nessuno dava adito ai suoi deliri. - Venga con me, signora, le offro un tè a casa mia; abito qui accanto, credo proprio che lei abbia vinto - . Mafalda portò così via la testimone chiave di quello che con larga probabilità poteva essere un delitto e una volta giunte nella sua graziosa villetta a schiera la convinse a raccontarle meglio l'accaduto. Capitolo 5: Fare la cosa giusta Erano le 12:05 quando l'ispettore, uscito dallo spogliatoio, accorreva anche lui sulla scena del presunto crimine. Il suo occhio attento vagava sulle pareti in cortina dell'edificio, scorreva poi sull'asfalto del vicolo, spettatore immobile di quel nefasto attimo; guardava la figura inerte in cerca di ogni dettaglio, affamato di sapere. Voleva capire. Penta aveva scelto di fare il poliziotto spinto da una fievole traccia del suo passato, quello che gli aveva portato via un padre troppo giovane: un poliziotto dedito al lavoro. L'ispettore ne aveva seguito le orme ed era giunto alla conclusione, ormai grande, che dietro quella prematura scomparsa si celasse una storia più complicata. Per quanto avesse deciso di sbrogliare ogni stramaledetto filo, girava sempre intorno a quell'unico indizio, che negli anni lo aveva tormentato e gli aveva dato speranza: il Cantropodo. Quando ormai si era dato per vinto, quella parola era tornata a rimbombargli nelle orecchie. Forse non era solo un inutile mucchio di lettere, accorpate a casaccio... Chiese alla folla di farsi da parte e i primi frammenti del puzzle, che avrebbero composto il caso, iniziarono già ad affollarsi nella sua mente. Il signor Leonida, proprietario della ditta di cibo per cani “PeTty”, giaceva esamine al suolo: era rigidissimo, braccia verso l'alto, il colorito diafano. Quel biglietto ritrovato in biblioteca doveva per forza essere presagio di qualcosa del genere... Penta strinse con forza il foglietto che teneva ancora nella tasca dei pantaloni. Si detestava per non essere riuscito a evitare l'accaduto. Digrignando i denti riprese a osservare la vittima. L'orlo dei pantaloni sembrava stropicciato e bagnato, come se qualcuno lo avesse trascinato per le gambe; un pezzetto di stoffa nero era rimasto intrappolato sotto la suola sinistra delle eleganti scarpe calzate ai piedi di Tommaso Leonida. - Chi ha trovato il corpo? - chiese di colpo l'ispettore, interrompendo il logorroico flusso dei suoi pensieri. - La signora Orsina - accennò sfuggente Clara prima di allontanarsi come se niente fosse accaduto. Clara, era una persona assolutamente complessa a dispetto di ciò che voleva far credere. Si rifugiava dietro una grossa e pesante coltre di cinismo, noncuranza e frivolezza. Era una ragazza determinata, con un modo tutto suo di reagire agli strazi della vita... Così, apatica, si era dispersa tra la folla, come a voler cancellare quell'attimo. Era convinta che rimuovere i fatti più difficili da affrontare la proteggesse dalle sofferenze. L'ispettore, non capendo bene chi avesse dato quella risposta tra la folla, ripeté la sua domanda insistente e insieme al suo sottoposto raccolse tutte le deposizioni, circoscrisse la zona e chiamò la dottoressa Melissa Ombra, medico legale da tutti soprannominato “il Sorcio”, in quanto era una donna pallida, scheletrica, dal viso oblungo; anacronisticamente portava l'apparecchio fisso e scintillante, con quadratini argentei che le brulicavano tra i denti. Osservandole solo la bocca poteva apparire una sedicenne, pur essendo una rattrappita donna di una sessantina d'anni. La fiducia che Giorgio Penta nutriva nei suoi confronti non era assolutamente ricambiata. Lei era, non troppo segretamente, convinta che la popolazione under-quaranta fosse una sciagura capitatale tra capo e collo. Potendo l'avrebbe cancellata all'istante, per far spazio a un esercito di persone della giusta età ed esperienza. Loro sì che sapevano il fatto loro! La dottoressa Ombra, dopo aver scosso la testa per biasimare la delimitazione approssimativa della zona del crimine, si apprestò a fare i primi rilievi e notò un piccolo ponfo sul collo. Con un eccesso di prudenza, non ne fece ancora parola con l'ispettore che la stava continuando a subissare di domande. Penta si sentiva in colpa, perché non faceva altro che ripetersi che quella era la sua occasione per distruggere il Cantropodo. La scena poteva essere stata architettata per inscenare un furto finito male, dato che la vittima aveva le tasche dei pantaloni con le fodere in vista. Lui voleva che dietro ci fosse di più... lo sperava! Nel frattempo, Mafalda, imperturbabile rispetto al fatto di aver sottratto alle indagini un testimone, chiacchierava amabilmente con la signora Orsina, che aveva fatto accomodare nel suo saloncino un po' retrò. La curiosità le dava alla testa, sentiva l'adrenalina spingerla verso luoghi inesplorati, bui e pericolosi. Lei li avrebbe rischiarati, compreso ogni cosa; ne sarebbe stata capace, ne era certa. Magari avrebbe fatto anche colpo sull'ispettorino, grazie al suo incredibile intuito. Perché di una cosa era certa: non poteva essere stato un semplice malore a ridurre in quel modo il defunto. - A che ora si è accorta dell'inizio del gioco, dunque? - buttò lì, studiando ogni reazione della signora Orsina. L'anziana prese una delle sue trecce tra le mani paffute e iniziò a riflettere, non le sembrava vero che qualcuno fosse interessato proprio a lei e a quel che aveva da raccontare. - Ero a passeggiare per conto mio, quando ho visto Tommaso steso, saranno state le 11:30. Sventolava la bandiera mimando esattamente quella dell'Albania - . La Rossa non stava nella pelle, prendeva ogni parola della vecchia pazza e ci ricamava sopra storie fantasiose, di cui lei era indiscussa protagonista. Da ogni più insignificante minuzia, credeva di poter trarre la chiave di quello che aveva già classificato come delitto. Perciò volle approfondire l'ultima affermazione della sua ospite. - Mi scusi, signora Orsina, ma come mai secondo lei era proprio quella dell'Albania e non una bandiera qualunque? - . Si era già calata nella parte della paladina della giustizia e, se si fosse rivelato che il signor Leonida era solo vittima di uno sfortunato incidente, ne sarebbe stata profondamente delusa. Scartò quindi a priori quell'ipotesi e, sebbene si rendesse conto di fare delle domande assurde, si sforzò di entrare nella mente della sua compaesana un po' svanita. Tra quel garbuglio di pensieri poteva nascondersi un indizio fondamentale per scoprire l'assassino e lei era pronta a fare la sua parte di buona cittadina. - Non conosci le bandiere, cocca mia? Per i colori, è ovvio. Sai come è fatta quella dell'Albania? - . - Mi pare rossa - disse titubante, ammettendo in cuor suo di non esserne affatto persuasa. - Ma certo, rossa con uno stemma al centro: due aquile incrociate. Io facevo l'insegnante di storia e geografia, ai tempi miei. Queste cose non mi sfuggono. Qualcosa ogni tanto mi scappa di mente, ma le bandiere... quelle, mai! - . La signora Orsina dirottò presto la conversazione su tutte le varietà di piante grasse, le loro differenze, come andrebbero trattate; forse attratta dall'unica pianta nel salotto di Mafalda. Chissà quanto avrebbe resistito prima di aggiungersi alla collezione di sterpi nascosta in un angolo appartato della villetta. La padrona di casa, pur non focalizzando ancora bene il perché, era sicura che l'informazione appena ricevuta potesse rivelarsi cruciale. Era immersa in un dedalo di riflessioni tenute insieme da voli pindarici degni del più fantasioso dei sognatori; non ascoltava più le ciarle della sua ospite per il tè pomeridiano. Costruiva invece complesse macchinazioni su quella bandiera, che in realtà poteva essere collegata a tutto e a niente. Si chiedeva se fosse il caso di rivelare a qualcuno la sua intuizione... Decise, dopo aver liquidato la sua attuale compagnia, di cercare la sua amica tornando a gironzolare per le vie del centro, che si erano in parte svuotate. Le voci nel paesino si spargevano in fretta e la notizia della dipartita del signor Leonida doveva aver fatto il giro del vicinato e ritorno, spingendo i più timorosi a sbarrarsi in casa e i più curiosi a spettegolare sulle possibili cause del delitto. Mafalda rientrava a pieno titolo nella seconda categoria: gli impiccioni senza remore. Uscendo nuovamente di casa, Mafalda si era riparata sotto un Deerstalker, copricapo del celebre investigatore Sherlock Holmes. Si sentiva all'altezza delle doti del celebre personaggio. Per il tratto che aveva percorso con la signora Orsina, lei con il Deerstalker e l'altra con le trecce bianche un po' scompigliate, qualche compaesano le aveva occhieggiate perplesso. E pensare che Clara l'aveva presa in giro quando aveva acquistato quell'ennesimo copricapo, anche un po' ridicolo. Secondo lei, non lo avrebbe indossato mai. Quel giorno, invece, era arrivato! Clara, come ovvio che fosse, trotterellava per via Promenade avvinghiata a un tipo atletico, biondo, dall'aspetto finto trasandato, ricercato, molto radical chic. - Ehi, ti devo parlare urgentemente! - urlò avvicinandosi alla coppia e trascinando l'amica lontano dal braccio del ragazzone che stava usando come trespolo. Per quanto fosse sempre stata sentimentalmente concentrata come un'adolescente in preda agli ormoni, se la Rossa aveva bisogno di lei, non si tirava indietro. - Mi hai salvata da quel pomposo imbecille - rivelò poco dopo e senza badare troppo al fatto che la sua voce squillante era certamente arrivata anche al suddetto imbecille. - Allora, io credo di aver scoperto qualcosa sulla morte di quel poveretto; non so se sia importante, ma chiacchierando con la signora Orsina lei si ostinava a ripetere con convinzione il riferimento alla bandiera dell'Albania. Non so ancora cosa significhi, ma potrebbe essere importante - . La segretaria della PFM scosse i lunghi capelli biondi, il viso angelico assunse un'espressione che Mafalda conosceva bene: un misto di compatimento, divertimento, rassegnazione e un pizzico di malizia. - Mia cara, che sia questo il modo giusto per presentarsi allo sgomina crimini devi deciderlo tu, ma dato che non accogli la mia versione hard, mi sembra una soluzione più che giusta. E poi, non sei proprio tu, che a modo tutto tuo credi nella morale. Sarebbe moralmente irreprensibile omaggiare la polizia delle tue chicche investigative, non trovi? Ora basta parlare di cose macabre, dopotutto, di come e perché sia passato a miglior vita quel bacchettone di Tommaso me ne infischio. Credi sia tardi per tornare dal biondino? Si sarà offeso? Mi sa che non ho tempo di trovare di meglio per stasera... Ci aggiorniamo dopo, o domani. Pensa a quel che ti ho detto, mia proba ficcanaso - . Clara riprese sottobraccio il “pomposo imbecille”, che non si era allontanato poi tanto dalle due donne; si voltò verso l'amica e le fece un ultimo incoraggiante occhiolino. Il dettaglio che aveva scoperto Mafalda poteva rivelarsi un cumulo di idiozie. Decise quindi di recarsi in biblioteca per accertarsi, quanto meno, che la signora Orsina non fosse come lei una finta conoscitrice della geografia. Avrebbe potuto usare internet, invece di prostrarsi al suo personale Dio: biblioteca “Enrico Fermi”... Il fatto era che amava sedersi su quelle scrivanie stile regency, contornate dalle ondate di luce profusa, assicurata dalle ampie vetrate. Inoltre, l'inconfondibile odore di libri le aveva sempre donato ottimi consigli e sapeva che, quando aveva dubbi di qualsivoglia tipo, era proprio il rifugio perfetto. Scoperto che la signora Orsina sapeva davvero qualcosa di geografia, aveva continuato a passeggiare tra gli scaffali per ore e poi era crollata su uno dei divanetti in pelle posti nella saletta principale, sbuffando di tanto in tanto. Non aveva ancora osato pronunciarsi sul da fare. In un bisognoso impeto di vitalità, prima di prendere la definitiva decisione circa l'andare o meno alla ricerca dell'ispettore, si concesse una dose della brodaglia della macchinetta nel corridoio della biblioteca, che spacciavano per caffè. Si illuse che quello l'avrebbe aiutata. Tornando al suo posto assaggiò il primo e ultimo sorso della raccapricciante mistura di caffè e acqua. Come un ricordo non troppo offuscato, si fece largo tra i suoi pensieri il distributore di bevande dell'università, lo stesso orripilante e detestabile odore, sapore, colore. - No, non ci vado, sono già abbastanza sconvolta! - sussurrò a sé stessa, cogliendo al balzo l'occasione di rimandare l'incontro con la sua cotta. Gettando con nonchalance il bicchiere ancora pieno di “caffè” nel secchio di fianco alla scrivania, quello quasi offeso, nel momento esatto in cui toccò il fondo del cestino, traboccò neanche fosse l'Etna in eruzione e macchiò irrimediabilmente tutta la zampa dei pantaloni di Mafalda. - Ok, ci andrò domani - gemette affranta, interpretando quel gesto di stizza del caffè come un segno che la spronava a fare la cosa giusta. |
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