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Autore: Teresio Asola
Mùnscià
Romanzo
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Mùnscià
Il silenzio dura lo spazio di un respiro. Esplode un grido. - Che ci faccio qui? - sputa sgangherato Ismaele, ventre a terra. È un cinquantatreenne, ancora bambino per la pensione e decrepito per ricominciare. Nelle strade, vuote di giovani e bimbi che non siano migranti in tuta grigia, Ismaele di rado incontra persone meno vecchie di lui. S'illude di non esserlo.
Punta gli occhi cisposi al pinnacolo più aguzzo del vetro spaccato. Gli occhi, gonfi di lacrime, a malapena gli fanno distinguere una coccinella che si arrampica sulla scheggia tagliente. - Chi sono io? - sussurra tremando. Il volto è per un quarto sorriso e tre quarti smorfia, l'incarnato esangue, l'abito blu di lino stazzonato sporco di calcina, la cravatta regimental lasca buttata lunga su una spalla innevata di forfora, i mocassini neri imbiancati di polvere, la barba di un giorno. E una notte. I capelli, lunghi e scarmigliati, spruzzati di calcinacci e brizzolatura, ricadono casuali sulle orecchie e sul collo, a fatica domati sul davanti da una scriminatura indiscernibile.
- Che ho fatto? - mugola, fronte e pugni a percuotere il parquet. Solleva lo sguardo. Davanti a lui la vetrata infranta, bocca sdentata sul piazzale vuoto della cartiera e sui suoi fantasmi: nelle schegge più gentili vede picchi granitici di Huangshan; nelle più aguzze, cuspidi dello Tsingy, buone per lemuri, lucertole, camaleonti e per questa coccinella che spicca il volo ad approfittare del suo mese di vita. Ismaele vorrebbe essere la coccinella che fugge, per scappare dal proprio grido che rimbomba come sotto le volte di un ponte, in questi spazi rarefatti che sono stati il suo ufficio. Ma per andare dove? Persino per andare dalla Longobardìa al Pedemonte o alle colline del Cotswold nei Regni d'Albione ci vogliono bolli e timbri. Figurarsi Huanghshan.
- I-io? S-sono stato io? - domanda, debole, guardando tra le ombre le sagome di quella distruzione. Le parole risuonano chiare, in quel deserto industriale in cui da tempo non ululano più i guaiti rauchi delle sirene delle fabbriche, dove gaggie e pioppi (germogliati nello scheletro di ciminiere in disuso da lustri) spuntano come bandiere a mezz'asta, grovigli di tubature e condotte d'immane diametro dell'acciaieria vicina sono ridotti a un toboggan arrugginito e le capriate del capannone vicino, senza più copertura, paiono fasciame marcio di una nave rovesciata, chiglia all'insù come carcassa di capodoglio nel mezzo di un cantiere navale in disarmo. I topi ballano senza bisogno delle musiche di Hamelin, nei cul-de-sac delle strade diventati discariche abusive. Per lo più buie, la notte, a causa dei furti di cavi in rame. Pericolose da percorrere anche di giorno per i chiusini dei tombini asportati da ladri disperati. Ci si può ammazzare, volandoci dentro in auto.
Erbacce e arbusti selvatici cresciuti a dismisura ai bordi delle carreggiate macchiano di verde le cento sfumature di grigio di quell'area industriale chiamata PIV3, che significa Piano Industriale Verde, ambizioso progetto varato ventidue anni fa per la riqualificazione, lo sviluppo e il rilancio grazie ad aree verdi e incentivi per nuove tecnologie energetiche. Delle aree verdi sono rimasti l'aggettivo nella terza lettera della sigla (PIV) e le erbacce a bordo strada. Dei nuovi paradigmi energetici, una microturbina in disuso da un paio d'anni.
Ripensa all'urlo, ride nervoso: non è da lui alzare la voce; manco fosse Achab, gamba di legno piantata nell'incavo al castello di prua e sguardo fulminante di odio per la balena che così l'aveva ridotto, oppure il pirata Teach, ritto sul cassero della Queen Anne's Revenge a mitragliare ordini alla ciurma con spada in pugno, coltellacci e pistole alla cintura, tricorno piumato in testa, nel mezzo di una tempesta, prima del naufragio fatale sugli scogli del North Carolina.
Scuote il capo, lo sguardo si spegne. - Sono stato io? - ripete. - Io? -
La voce non vola su onde del mare e non vibra tra aghi di roccia malgasci; né risuona su picchi cinesi mai visti, guglie di religiosa bellezza, faraglioni emersi da un oceano di nuvole. I loro nomi, simili a preghiere, per un secondo gli addolciscono l'amaro degli occhi: Picco luminoso, Picco del Fiore di Loto, Fiori che spuntano dal Pennello sognante, Picco delle Nubi Purpuree. Davanti, solo questa bocca di vetro aperta sul piazzale deserto.
Ismaele arretra d'istinto, sui gomiti come visto nei film. Lo fa sempre (non sui gomiti), in prossimità di un salto: un dirupo, un balcone. O questa vetrata infranta. Allontana da sé le carte sparse sul pavimento come alghe dopo una tempesta. La mano afferra la gamba della scrivania, in basso. Le dita esangui per la presa. Lo sguardo triste per lo sconcerto: lui non ha mai odiato. Neanche ora.
Ma quell'urlo, per lui nuovo... Anche nell'ultimo giorno di lavoro e in questa notte di pazzia pura, pur avendone avuta occasione, niente, prima di quella domanda che ancora gli rintrona dentro - Che ci faccio qui? -
Nessuno l'ha mai visto arrabbiarsi. Rabbuiarsi, certo. Adombrarsi, anche. Tacere, abbassare le spalle, aggrottare le ciglia, incupirsi, accentuare la ruga che gli taglia in diagonale la fronte come una cicatrice, incurvare a dismisura la parabola rovesciata delle labbra, sotto le due rughe verticali tra naso e bocca, sì. Muovere la gamba a spasmi, seduto in sala riunioni o al tavolo della cucina a cena, martoriarsi il pollice con l'unghia dell'indice mentre accompagna a scuola il terzo dei cinque figli, Lucio, pure. Gesti di stizza, anche: appallottolare violento la fotocopia di un decreto ingiuntivo o di una diffida, mordersi a sangue il labbro inferiore; oppure, da solo in ufficio, abbattere sulla scrivania un pugno ben assestato, poi alzarsi e replicare sull'anta dell'archivio per godersi il maggior rimbombo. O, nel chiuso dell'auto, lanciare la borsa del computer sul sedile posteriore, aprire la portiera senza evitarne l'urto contro il muro del garage, lasciarsi cadere al sedile di guida, sbottonarsi il colletto della camicia, allentarsi la cravatta, richiudere sbattendo, accendere a palla un CDdi Springsteen e urlare forte - Cazzo! - dentro il ritmo indiavolato di Born to run. O, la sera a cena, far cadere da mezz'altezza il cucchiaio dentro il passato di verdura per vedere l'effetto che fanno gli spruzzi di colore fecale sulla camicia azzurra, sull'abito grigio più grande di una taglia, e la scena complessiva su moglie e figli. Che poco sanno e nulla possono. Ma infuriarsi, no.
Fosse fumatore, sarebbe a tre pacchetti al giorno e avrebbe il dito medio giallo di nicotina, la pelle grigiastra e gli occhi acquosi. Non nutre astio verso gli altri; per sé stesso, forse. Può aver commesso qualche errore come chiunque agisca, mai cattive azioni. E c'è paura. Un bel dire “Male non fare paura non avere”. Male non fa perché non saprebbe da dove incominciare, Ismaele, ma la paura resta. Anche di sé stesso, che non ha mai urlato. Non gli piacciono cori da stadio, né risse da Nemoparlamento, dove è tutto un imprecare e inveire; bestemmiare, persino, senza costrutto né ragionamento, attenti a emettere suoni o a dire battute, anziché a fare qualcosa: raro si sostenga “Questo l'ho fatto”, tutti concentrati a dire: “Permettetemi una battuta”. “L'ho detta io, non osare dirla tu!” Sproloquiare senza struttura e contenuti, mentre il Paese trema e tutto crolla. La scorsa settimana un nuovo terremoto negli Appennini. Lo inquieta aprire i giornali la mattina sapendo che le cronache sono superate, travolte dallo stillicidio dei fatti: se non è il terrorismo, è l'emergenza idrogeologica o climatica, o l'incalzante povertà giovanile; curioso, sfogliarli con la sensazione di saperne più di loro avendo già consultato Nemonet. Ismaele vorrebbe saperne meno, talvolta.
Sorride, perché l'urlo gli sussurra che è vivo, dopo la notte di follia e di solitudine. O di sogno. Negli occhi sente il fuoco. Se li stropiccia due, tre volte. Vede macchie gialle e poi nere. Si trattiene per non peggiorare l'irritazione. Copiose scendono le lacrime. Affaticamento o sogno. - Mi sveglierò da quest'incubo? - si domanda. Sente nausea agli occhi. Sorride storto, diceva “Nausea agli occhi”, da piccolo, per comunicare a mamma il sintomo della febbre.
- Starò dormendo - auspica bofonchiando con voce a lui stesso inudibile. - Non sono io. - Forse lo ha solo pensato, ha mosso le labbra a mimare le parole. L'adrenalina lo tiene sveglio, dopo ore, ma la stanchezza gli ottunde i sensi. Sente vicina la resa. Non è più presente a sé stesso. - Poche ore e tutto questo sarà sparito - esclama.
- O sono al cinema - mormora; - accavallerò una gamba, l'altra, poi accomoderò i gomiti sullo schienale vuoto davanti e mi risprofonderò indietro, rincantucciato a dovere afferrandomi il ginocchio con le mani intrecciate sulla rotula; infine apparirà la parola “Fine” e me ne rimarrò seduto fino all'ultimo titolo di coda, a vedere chi ha cantato, scritto le musiche e cucito i vestiti; tra poco mi alzerò dalla poltrona su cui mi sto agitando come sulla graticola. -
Arretra ancora sui gomiti; il freddo del pavimento sul ventre lo riscuote. - Macché cinema. Sono io l'attore. O è allucinazione. La vita è sogno - esclama con timbro potente. Il braccio destro sussulta come affetto da Parkinson. La testa trema, come sempre prima di una sincope. La lingua duole. Non per il parlare: parole ne ha spese poche. E neppure per attacco epilettico o perché abbia addentato cibo, ché da ore non mangia, ma per il malvezzo di mordicchiarsela fino a sentire il dolciastro del sangue, quando non si accanisce sul labbro inferiore.



2.


- No, non è sogno - sussurra incredulo, ciucciandosi il sangue. - No es sueño - traduce elevando il tono. Punta un gomito a terra, ancora, si trascina al vetro dell'armadiatura da ufficio. Si siede a terra. Esplora le ombre nel vetro per cercare il riflesso del suo volto.
- Un incubo - farfuglia. Riconosce la sua testa nella vaga figura che si muove nel riflesso di fronte. Si osserva meglio. Mormora, scuotendo le spalle: - Non sono io - . L'ipotesi di non essere lui il disgraziato specchiato nell'anta a vetri gli dà forza. Non è lui, l'individuo abominevole e dolente che si trascina tra le rovine dell'ufficio. Dice sorridente: - L'incubo finirà all'alba del nuovo giorno, la luce vincerà sul buio di questa notte rischiarata dai lampioni risparmiati dai ladri di cavi, e tutto tornerà come prima di questa nottataccia falsa, bello o brutto che fosse. Certo, meglio di ora - .
Ma ora, sogno, incubo o realtà, egli è lì, in mezzo all'inferno. Avvicina il volto al vetro finché ne sente la pressione sui peli della barba e il freddo sulla pelle. Il volto è sfuocato. Lo allontana a distanza idonea per la sua presbiopia. Si riconosce. Tra i vaghi riflessi coglie la sagoma del proprio viso. Si avvicina al vetro fino al limite della messa a fuoco. Esclama: - Molti dicono che nello specchio ci si vede più giovani, ma io vedo gli anni - .
Si passa un dito sulla guancia a sondarne rughe, polvere, barba. Si sofferma sui peli bianchi sparpagliati nel nero. Non gli dispiace, il bianco. Gli piacerebbe, se ci sarà un domani, farsi crescere un filo di barba. Bianca. Come Hemingway. Già si è lasciato crescere i capelli. La barba gli manca. Troppo poco dirigenziali, gli uni e l'altra.
- Se anche sono io, è un sogno - ripete in un inudibile mormorio scardinato dai singhiozzi di una nuova crisi di pianto. - Un sogno... in un sogno. Sto dormendo, nel mio letto. Tra poco tutto questo svanirà. Deve sparire. -
Poi sussurra lieve come beghina, con voce arrochita dall'arsura e dall'attesa: - Mi sveglierò; un battito di ciglia e la luce entrerà strizzata tra le liste della tapparella, come il foglio di pasta pressato nella vecchia macchina a manovella a sparare tagliatelle e fettuccine. Mi sveglierò prima che la luce del sole attivi l'apertura automatica delle serrande - .
Scrolla le spalle. Si stropiccia gli occhi. Arretra di pochi centimetri strisciando sul legno. Allunga il braccio e tasta il terreno come a esplorare la superficie di un pianeta sconosciuto. La mano sente la canna di un'arma che riverbera la luce dell'alba. Trasalisce, come un partigiano che, nascondendosi nel buio di una tomba per fuggire ai nazisti, si fosse imbattutoin uno scheletro.
- Un fu-fucile! - esclama terrorizzato Ismaele ritraendo la mano come scottata dal fuoco, lui che non ha mai avuto neppure una fionda. Certe parole non gli escono che claudicanti dopo incespichi, inciampi e traballii.
- Che ci faccio io, qui? E quest'arnese? - domanda, rivolto al buio che lo circonda. Pochi secondi per raccapezzarsi. Finalmente ricorda: la lunga notte, gli spari da fuori, la distruzione portata dagli individui in divisa ancora appostati giù in basso, i suoi colpi al cielo e al ciliegio di fronte, come un bambino a Carnevale. - Non era un incubo - piagnucola sgomento.
Con due dita pinza il calcio, se lo avvicina fino a sentire l'odore dell'olio lubrificante, imbraccia l'arma in posizione di tiro, ritorna strisciando al vetro dell'archivio e s'acquatta piatto a terra sul parquet dell'ufficio, come un guastatore nel fango a un passo dalla trincea nemica, un occhio strizzato a mettere a fuoco la propria incerta sagoma tratteggiata nel vetro. Così bardato, riavvicina la barba al vetro. Stringendo il fucile si morde il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, lo succhia senza ribrezzo e attende il sorgere del sole.
Pensa che mai avrebbe pensato di ridursi così, ventinove anni prima, quando la sera avanti il suo primo giorno di lavoro studiava l'orario più indicato per la sveglia e l'abito più adatto, inseguito di stanza in stanza dalla madre con svolazzanti cravatte e nuove camicie o quando, più giovane, faceva l'obiettore in una comunità di bambini. Non avrebbe giocato un centesimo, allora, se glielo avesse predetto il più quotato indovino (fosse stato un giocatore e avesse creduto al destino), che un giorno si sarebbe trovato a terra, arma in mano, vestiti sporchi, pensieri laceri. Roba da rotocalco popolare, lontana anni luce dalla sua indole.
- Un sogno - cerca di convincersi in un bisbiglio, mentre con la punta della canna d'acciaio gioca a spostare le carte più vicine della montagna di lordura sparsa a terra, come un biliardo senza buche. S'incupisce ancor più, a sentire la voce. Sua. Se la schiarisce scatarrando rumoroso contro il vetro. Gli ritorna un disgustoso rimbalzo di cui percepisce l'odore.
- No - mormora allontanando peluria bianca e sguardo dal vetro. - Non lo è. - Una formica, spaurita come lui, gli solletica l'indice destro; un filo di luce dal lampione di fuori la illumina mentre scala incerta il suo dito e risale il fucile fino alla canna, prima di perdersi nel buio della stanza. L'aria, greve di calcinacci, fumi e puzzo di sudore, mossa dal tuono rauco della voce di Ismaele, vibra ancora dell'urlo sgangherato - Che ci faccio qui? - sfogato al primo baluginio dell'alba nel cortile dello stabilimento Bellagi a Malatempora.

Teresio Asola

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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