Come si può descrivere la paura?
Per quel che mi riguarda, la racconterei esattamente così: improvvisamente un giorno, per decisione di qualcun altro, la mia vita, che non era perfetta ma era la mia, fu spezzata, devastata, infestata dal suo male. Ogni sua decisione, ogni suo abuso, ebbe il potere di danneggiarmi irreparabilmente. Mi svegliai legata, al buio. Mi sentivo “costretta”, con l'impossibilità di muovermi liberamente; il mio primo risveglio fu dettato da queste sensazioni che lentamente divennero certezze.
Mi guardai intorno smarrita, la testa era confusa, mi doleva come se un macigno me la stesse comprimendo; sentivo freddo, i brividi non cessavano, forse erano stati proprio quelli a destarmi. Il cuore iniziò a impazzire nel mio petto. - Aiuto! - fu la prima parola che pronunciai. - Aiuto! - urlai più forte. La mia voce rimbombò nella stanza vuota. L'adrenalina fece scattare i miei nervi e schizzai in piedi, almeno fu quello che provai a fare, ma mi resi conto che era inutile. Ripiombai a terra. Ero incatenata. Portai una mano al collo, una fascia metallica non molto spessa mi faceva da collare. La tastai meglio con il palmo della mano, nonostante il tremore la percorsi sino ad accorgermi che era agganciata a una catena fissata al muro dietro di me. Il tempo trascorreva lento ma il mio respiro era sempre più affannato; nelle narici si insidiò l'odore di muffa e polvere, non riuscivo a sentire nessun rumore se non quello ripetitivo di una goccia d'acqua che cadeva insistente e metodica sul pavimento. I miei denti sbattevano così convulsamente che a un certo punto la mia mandibola si irrigidì e un dolore fastidioso si diffuse su tutta la faccia. Con mani stizzite mi sfregai la pelle fredda, era bagnata dalle lacrime che ormai non mi rendevo neppure conto di versare. - Aiuto!!! - Strillai forte e tentai nuovamente di alzarmi facendomi del male. Iniziai a tossire, compresi che potevo muovermi ma di poco, solo qualche centimetro alla volta, altrimenti il collare mi avrebbe strozzata. Disperata, ma non ancora arresa, strattonai la catena. Il risultato che ottenni fu il medesimo; piano, molto piano, mi accasciai a terra e iniziai a tremare ancora più forte. Ero certa che i muscoli si sarebbero spezzati. Domande e pensieri riempirono la mia mente, cercai di ricordare cos'era accaduto la sera prima, ma il vuoto assoluto invadeva la mia memoria. Trovai il coraggio di guardarmi intorno, niente di quello che mi circondava mi pareva familiare. Il buio più completo mi circondava terrorizzandomi ancora di più, ebbi la netta sensazione che a ogni mio respiro mi stesse inghiottendo, mi stesse entrando dentro, rosicchiando quella che era la mia vitalità, la mia speranza. Quante probabilità avevo di cavarmela in una situazione come quella? Ben presto seppi che non sarebbe stato il buio a portarmi via tutto, bensì il ragazzo che mi stava osservando di nascosto sulla soglia. Quello che mi aveva rapita, quello che si sarebbe nutrito della mia sofferenza per placare la sua. Ognuno può padroneggiare un dolore, tranne chi ce l'ha. Williams Shakespeare
Esco dalla doccia, mi asciugo senza guardarmi, non lo faccio più da tempo ormai. Frettolosamente indosso una maglia a maniche lunghe anche se fuori c'è il sole, è metà agosto, fa ancora caldo, ma alla fine ha poca importanza; scelgo un pantalone, uno dei tanti neri, lo infilo e intanto percepisco la voce di mia madre provenire dalla cucina. In realtà non presto più attenzione alle parole sussurrate, non tento di comprendere tutto quello che dicono in mia assenza, anche questa è diventata una routine. Sono trascorsi tre anni dal giorno in cui mi hanno ritrovata; i primi mesi soffrivo a causa dei loro bisbigli, ma oramai non più. Da quando sono tornata nessuno ha il coraggio di guardarmi negli occhi per più di tre secondi, nessuno mi ha più toccata veramente. Alla fine ci si abitua a tutto e questo l'ho imparato sulla mia pelle.
Sei una bambina cattiva, ti odieranno tutti! Gli farai schifo... non ti conviene provare a scappare!
Quelle parole mi tormentano il cervello, anche a questo bado poco, d'altronde non aveva poi tutti i torti. - Può farlo! Le farà bene allontanarsi da casa. - Ora sì che sono curiosa di ascoltare tutta la conversazione, la voce determinata è quella di mia nonna, lei è piccoletta e tutta nervi, con il viso segnato dal tempo e dal sole. Una donna di campagna, dai sani principi, dal piglio fermo. Se è venuta a Torino significa che qualcosa è successo. Esco con passo felpato dalla mia stanza, mi accosto al muro in cima alle scale, voglio sentire meglio. - Adua, ascoltami. Viola ha ripreso ad andare all'università, ce la sta mettendo tutta e anche noi... - Pausa, mia madre si soffia il naso e quasi sicuramente si asciuga il viso, piange di continuo quando parla di me. A questo punto, il mio cuore dovrebbe stringersi in una morsa, dovrei provare dolore per lei e per me... invece il nulla.
Sei una cagna maledetta! Sei un'egoista schifosa, loro non sono i tuoi genitori. Tu non li meritavi, non ti sceglieranno mai più!
Ed ecco che la sua voce si insinua ancora nella mia testa, mi porto le mani alle orecchie come se così facendo potessi zittirla. Nonostante i miei sforzi continua a tormentarmi, è tutto tempo perso, lo so bene. Lui ormai è dentro di me, vive con me. Non so più dove inizio io e dove finisce lui. - Non è abbastanza! E poi continua a mettersi nei guai. - Mia nonna insiste, ho perso parte del discorso e torno ad ascoltarle. - Non lo so, non lo so. E poi adesso si è aggiunto anche quest'altro problema, tuo figlio è fuori di sé. - - È il suo lavoro, aggiusterà le cose. - Cerco di comprendere meglio ma è praticamente impossibile, entrambe abbassano la voce per alcune battute. - Appunto per questo, lasciamo che sia Viola a decidere. - Mia nonna non demorde, ma io sto ancora macinando pensieri su quale sia l'altro problema a cui alludevano. - Viola non verrà a vivere tra le colline, in campagna ci sarebbero troppi ricordi, ulteriori tormenti per lei. - - Non mi pare che in città, se la stia cavando meglio! - Anche se stanno parlando di me come se fossi un'adolescente e non una ragazza di quasi venticinque anni, mia nonna riesce a strapparmi una smorfia simile a un sorriso; ho sempre adorato la sua tenacia. Mi muovo, pronta a raggiungerle, tutto questo battibecco mi ha già stufata; proprio quando sto per mettere piede sul primo scalino, la porta d'ingresso si apre e mio padre compare sulla soglia. Ci guardiamo ed è sempre lui il primo ad abbassare lo sguardo, come se mi chiedesse di perdonarlo ogni volta, come se fosse sua la colpa per quello che mi è accaduto.
Dov'è il tuo paparino? L'uomo in divisa, l'uomo giusto? Vedi, sei stata scelta come un cane, lui non ti voleva veramente, è stata quella puttana di tua madre a cambiare idea. Lui non ti starà cercando anzi, forse spera di non trovarti più.
Gli occhi mi si velano, le lacrime pungono, ma non riesco a piangere. Io non piango più, non posso permettermelo. - Ciao - gli dico. Torna a guardarmi, le labbra si increspano in un mezzo sorriso storto: - Buongiorno. - A toglierci dall'imbarazzo è mia madre che si avvicina uscendo dalla cucina. - Sei tornato - gli dice, poi si volge in direzione del suo sguardo, dapprima è sorpresa di vedermi, ma cerca di far finta di nulla. - Viola, sei sveglia. È venuta a trovarci la nonna - mi informa. Dall'alto li osservo, sembriamo tre atolli: vicini ma distanti, con un mare d'angoscia e sensi di colpa a separarci. Loro con i visi tirati, gli occhi spenti. Io che indosso una maschera di indifferenza, come se nulla potesse nuocermi più. Abbiamo imparato a fingere ma non così bene come vogliamo illuderci. - Scendi, cara! - Mia nonna interviene spezzando l'aria che si è fatta pesante. - Volevo farti una proposta. - - Adua aspetta, Corrado non sa nulla, forse è meglio parlargliene prima. - Lei che si è incamminata verso di me, la guarda da sopra le spalle. - In realtà ci siamo sentiti ieri per telefono - risponde lapidaria. Non può che sfuggirmi una smorfia, siamo alle solite. Scendo avvicinandomi a mia nonna, è l'unica forse a non avere paura di una mia reazione, infatti con una mano afferra la mia e poi mi stringe tra le sue braccia, mi abbasso per ricambiare la stretta e la sento bisbigliarmi nell'orecchio: - Ragazza mia ti tiro fuori da questo manicomio, come si fa a essere una coppia e non parlarsi? - Quello che sembra un misero sorriso appare sulle mie labbra, forse ha ragione, forse stare un po' con lei non può che farmi bene. Qualche giorno dopo mi ritrovo a fare le valigie. Sono passata all'università a ritirare il piano dei corsi per il primo semestre, quando sarà il momento viaggerò senza problemi. A dire il vero, anche l'anno trascorso ho evitato di frequentare le lezioni, ci andavo unicamente per gli appelli degli esami e poco più. Con il tempo, inconsciamente, ho allontanato anche le mie amicizie, la situazione era già difficile e io l'ho resa ancora più complicata con i miei atteggiamenti da fuori di testa. Non li biasimo, non è facile stare in compagnia di una persona che rischia di mettersi nei guai volutamente, che beve sino a perdere il controllo e che all'improvviso diventa aggressiva. Non mi riconoscono più, li capisco.
***
Quella sera, quando mia nonna era andata via, ogni decisione era rimasta in sospeso. Mia mamma era ancora contraria, mio padre non si pronunciava e io rimanevo lì, dimessa, a guardarli; nessuno aveva fatto cenno all'ulteriore problema che lo turbava e quando avevo provato a chiedere, mi avevano semplicemente risposto che si trattava di un probabile trasferimento. Improvvisamente, tre giorni dopo, i miei genitori mi avevano quasi imposto la partenza. Erano più nervosi del solito, sembrava camminassero sui vetri. Come sempre mi nascondevano i loro occhi, ma dal tono della voce percepivo il timore di un mio rifiuto; avevo pensato che fosse successo qualcosa tra di loro o che forse avessero la necessità di allontanarsi da me per respirare un po' di aria buona. Stavo per soccombere alla loro decisione quando, inaspettatamente, avevo avvertito serpeggiare qualcosa sulla pelle, tanto che le parole mi erano sfuggite: - Lui dov'è? - Mio padre era schizzato in piedi rovesciando la sedia su cui era seduto, guardandomi, finalmente. - Lo sai dov'è. È dove deve rimanere, in una clinica psichiatrica sotto sorveglianza - aveva prontamente risposto. In quel momento, avevo imputato quella sua reazione al fatto che, in tutti quegli anni, non mi era mai sfuggito di nominarlo neppure una volta. Ma quella sensazione non era scomparsa completamente, la sentivo avvinghiarsi intorno a me come un filo nascosto che continuava a legarmi a quel bastardo. Potevo sentirlo. A volte era così reale... e proprio in quei momenti si scatenava la mia follia. Sentivo il bisogno di sfidare la vita o forse la morte, dovevo mettermi in una situazione di pericolo, dovevo provare a fare sesso. Dovevo fare gesti senza vita. Azioni dettate da una mente malata. - È meglio per tutti se ti allontani un po' da casa, l'estate non è finita, magari potrai stare meglio. -
Nessuno ti vorrà più! Sei diventata brutta fuori e dentro è anche peggio. Non ti lascerò mai andare e anche se dovesse accadere, sarai un mostro agli occhi di tutti. Io e te siamo più uguali di quel che credi.
Il bastardo aveva avuto ancora una volta ragione. A quei tempi avevo pianto, non volevo diventare come lui, non volevo perdere l'amore delle persone a me care, avevo bisogno di sapere che mi stavano cercando, che non si erano dimenticate di me. Non si erano dimenticate di me, ma in qualche modo ero diventata come lui. Mi ero tirata le maniche della maglia sino a nascondermi le nocche delle mani, un'abitudine con la quale esprimevo il mio disagio, sentivo l'esigenza di coprirmi. - Già, staremo meglio - affermo sarcastica. Come se fossero sufficienti duecento chilometri per ricominciare a respirare. Anche se era difficile ammetterlo, la frase pronunciata da mio padre, in qualche modo, mi aveva ferita. Allontanarsi. Era la soluzione per i miei genitori e per i loro problemi.
***
- Sei pronta? - Mia madre resta sulla soglia della stanza e mi desta dai pensieri; afferro la valigia e le rispondo: - Direi di sì. Non capisco tutta questa fretta, ma vado via subito. - Alle mie parole ha un sussulto, come se l'avessi colpita, in realtà il mio è solo un modo per ottenere una qualsiasi reazione, purché sia vera. Sono stufa del loro atteggiamento passivo aggressivo, mi trattano come se non potessi affrontare nessuna difficoltà, come se non fossi in grado di prendere una decisione, a volte li lascio fare, altre ne pagano il prezzo. In realtà, quando soccombo non lo faccio perché sono una brava ragazza, o perché sia giusto così, accade semplicemente perché cerco di tenere a bada i miei istinti. A volte non sono sicura delle mie reazioni, sono consapevole di essere danneggiata, d'altronde sono stata sabotata da quel mostro e dentro di me si è insinuato il buio. Un male atavico, lontano, che non mi fa provare più alcuna emozione... a meno che non abbia un picco di adrenalina o paura, dentro sono morta. A stento riconosco il battito del mio cuore. La mia mente si è inceppata e non ricordo tutto; per meglio dire, ricordo la mia prigionia, ricordo l'attimo in cui sono riuscita a liberarmi poi più nulla. A poco sono servite le terapie. È bastato rifugiarmi dietro a un: - Non ricordo, non riesco a ricordare niente. - La verità è che non mi fido di nessuno. Non posso e non voglio condividere con qualcuno il mio orrore, significherebbe renderlo nuovamente reale. Mi nascondo dietro l'illusione più comune del mondo: se non ne parli, non è mai accaduto. Il cuore batte ma non lo sento mentre avverto gli occhi bruciarmi. Combatto contro me stessa, contro tutto quello che mi rende fragile, e le ricaccio indietro. Non ho tempo per curarmi in nessun modo in questo momento. - Dario ha rinviato la partenza. - Con un filo di voce continua a parlarmi, avrò perso metà del discorso, poco mi importa, la oltrepasso senza guardarla. Dario è mio cugino, da bambini abbiamo trascorso tante estati insieme giù nelle langhe. Ho molti ricordi che mi legano a lui, sono serena al pensiero di rivederlo, si comporterà in modo naturale, ovvero da stronzo. È di qualche anno più grande di me, si è già laureato in agraria e ora si interessa non solo del reparto vinicolo dell'azienda di mia nonna, ma ha ristrutturato parte del casale adibendo qualche stanza per gli ospiti: un bed and breakfast in quelle zone è una ricca fonte di guadagno. I saluti sono sempre impacciati, mia madre tenta un abbraccio, ma quelli veri non esistono più. Perché mamma? Perché non riusciamo più a parlare? Sì, lo so, ti ho respinta tante volte, ma sono piena di merda e avevo paura di insozzarti. Ma se ora ci provassi davvero, magari... Esita. Io mi faccio di pietra, le sue mani mi stringono le braccia, si avvicina ma a malapena ci sfioriamo. La guardo e leggo compassione nei suoi occhi. Aspetto. Non accade nulla ed è il suono del clacson a sottrarci dall'imbarazzo. Mi allontano di un passo. - Vado. - Mi incammino sul vialetto trascinandomi la valigia dietro. Ciao mamma, ci proveremo la prossima volta. All'improvviso mi fermo voltandomi a guardarla, frettolosamente lei si asciuga una guancia e scuote la testa. Non fare così mamma, non è stata colpa tua e forse neppure la mia. Le cose sono andate così e basta. Prendo un grande respiro e non mi volto più. Raggiungo mio padre che mi aspetta, una volta che sono al suo fianco allunga il braccio e gli passo la valigia. Salgo in macchina, lui poco dopo fa lo stesso. Il silenzio ci piomba addosso come un terremoto improvviso. Di' qualcosa! Silenzio. Papà, adesso dovresti dirmi scherzosamente: - Mettiti le cinture così possiamo partire. - Silenzio. Click. Messa. Silenzio. Dove sono finite le nostre battute? I nostri momenti, quando prendevamo in giro la mamma per le sue apprensioni, per le mille raccomandazioni? Ah, giusto, quello era prima del dramma, prima che mi strappasse dalla mia e dalla tua vita. Non è colpa tua, papà... non è colpa tua se non sei riuscito a salvarmi. Ne hai salvate tante di vite con quella divisa ma non la mia. Non importa. Non è colpa tua e forse, neppure la mia. Silenzio.
Non ci si libera di una cosa evitandola ma soltanto affrontandola. Cesare Pavese
Viaggiamo così, lui volge lo sguardo sulla strada davanti a sé, risponde al telefono e una voce che non riconosco si diffonde nell'abitacolo, con un tasto inserisce il bluetooth, parla attraverso l'auricolare, non sento più nulla. È evidentemente teso, guarda ovunque, come se dovesse schivare delle bombe, i suoi occhi sono dappertutto intorno a me. Mi rassegno a questo ennesimo atteggiamento di estromissione, mi volto remissiva. Solo ora mi rendo conto che mentre ci allontaniamo da Torino il ritmo del mio respiro si placa un po', il paesaggio muta oltre il finestrino, entriamo e usciamo dai paesi, ce li lasciamo alle spalle e le colline delle Langhe con i loro vigneti sono stupende. Attraversiamo un ultimo sobborgo di case, prima di arrivare a un bivio svoltiamo a sinistra, prendiamo la strada sterrata che costeggia altri filari. Conosco molto bene questi posti, vengo qui da quando ero una bambina, ricordo che gli occhi mi luccicavano, ero felice. Trascorrere qualche settimana dai nonni era una festa che profumava di libertà, di vestiti sporchi senza che nessuno mi rimproverasse, di giornate infinitamente lunghe e afose dove potevo giocare non solo con mio cugino, ma con gli animali che gironzolavano in cortile. Sospiro e nel farlo automaticamente allungo le maniche della maglia, mio padre pare accorgersi di me solo in questo momento: - Stai bene? - Stai bene? No, papà, non sto bene né qui né a casa, vorrei rispondergli. So che sta alludendo anche ad altro, ma proprio non riesco ad affrontare questo argomento: quando mi hanno ritrovata ero in una casa abbandonata in aperta campagna, verso le montagne a nord di Torino, molto probabilmente starà pensando che ritrovarmi in un luogo simile possa riportarmi alla mente chissà quale ricordo. Quello che non sa è che quelle immagini non mi hanno mai abbandonata. - Sto bene - affermo voltandomi a guardarlo. - Siamo a Fort Knox, no? - La mia voleva essere solo una battuta per ricordare i bei tempi, ma mio padre trasalisce come se avessi bestemmiato.
Fort Knox. È così che io e Dario avevamo ribattezzato la magione dei miei nonni. Quando il cancello si apriva, prima di salire l'ultimo tornante per arrivare nel cortile, urlavamo: - Abbiamo avuto accesso a Fort Knox! - Parecchie volte mio nonno ci riprendeva: - Quante sciocchezze, è molto più che Fort... che diavolo dite voi altri! Che ne volete sapere voi due viziatelli. - Poi ci sorrideva aggiungendo fiero: - Qui abbiamo fatto la Resistenza, qui abbiamo tenuto nascosti i partigiani... - E da lì partivano i suoi infiniti racconti, non solo, ci aveva anche mostrato tutti i posti dove si erano nascosti durante la guerra.
- Già. - Mi liquida lapidario. Va bene lo stesso, papà, non importa se non sei stato al gioco. Lo scruto compassionevole ancora per un secondo, poi guardo davanti a me. Il cellulare squilla nuovamente e lui brontola: - Siamo arrivati. - Con chi starà parlando? Sicuramente non con la nonna; non ho il tempo per interrogarmi oltre, raggiungiamo il cortile, finalmente spegne la macchina e posso scendere. - Eccola che è arrivata. La stronzetta scansafatiche è qui! - Dario mi accoglie così, platealmente, gli faccio una smorfia in risposta più che altro per infastidirlo tanto quanto lui fa con me. Non demorde avvicinandosi sorridendo. - Bentornata, pigrona! - Riesco forse a fargli un pallido sorriso, sto per dirgli qualcosa ma le labbra si tendono, mi irrigidisco quando scorgo arrivare dietro di lui un uomo. Deve avere più o meno la sua età, è poco più alto di Dario, ha un ciuffo di capelli castani sparato sulla testa mentre sui lati sono quasi rasati. Indossa un paio di jeans e una maglietta bianca, anfibi ai piedi; si avvicina, lo osservo meglio, non l'ho mai visto, non lo riconosco. Poi mi azzardo a guardarlo negli occhi e mi pietrifico all'istante. Quante probabilità potevano esserci? Sono così rari nel mondo, eppure... Eppure, i suoi occhi, che non hanno alcun timore di fissarmi con altrettanta curiosità, sono verdi e non ci sarebbe nulla da dire a riguardo se non fosse per quel particolare chiamato mosaicismo somatico . Nel suo caso, l'occhio sinistro è solo per metà verde, l'altra è marrone. E neppure questo sarebbe un dramma, ma invece lo è. Il mio aguzzino è caratterizzato dalla medesima imperfezione o meglio dire rarità. L'estraneo mi sorride, ma io non riesco a contraccambiare anzi, un brivido mi attraversa il corpo. Distolgo lo sguardo, voglio solo allontanarmi. Come se avesse potuto leggermi nel pensiero, accentua il suo sorriso che gli illumina i lineamenti decisi del viso e fa qualche passo verso di me tendendomi la mano. Indietreggio. Chi sei? Perché mi guardi così? Domande senza un senso mi affollano la mente, frugo tra i ricordi. Quello che ottengo è unicamente una fitta che pare volermi bucare le tempie. Siamo in stallo, nessuno dice nulla, se non lui. - Piacere di conoscerti, Viola. Io sono Pietro. - La mia mano troppo fredda, stretta nella sua si scioglie, avverto il sangue circolarmi più veloce nelle vene e questo non è davvero possibile. Io non sento proprio niente, mai più niente da allora. Dario interviene ironizzando. - Visto, non è stato poi così difficile presentarsi. Pietro vive con noi come ospite. - Incupisco lo sguardo. - Ma il casale non è in manutenzione? - - Ci dà una mano con la ristrutturazione del bed and breakfast. Due braccia in più ci fanno comodo, inoltre è qui per scrivere la sua tesi di laurea. - Fatico a credergli, non ho mai sentito parlare di lui, ma è anche vero che per tre anni mi sono completamente estraniata dalla vita di tutti loro; mi sento stringere la mano e solo ora mi rendo conto che non l'avevo ancora sciolta da quella dello sconosciuto accanto a me. La ritraggo scansandomi in modo evidente, Pietro pare dargli poca importanza e aggiunge: - Torino mi distraeva troppo, casualmente ho rincontrato Dario e parlando ho accettato di buon grado la sua proposta, tanto più che dovrà partire e non voleva lasciare tua nonna da sola. - Soppeso ogni singola parola, non gli credo. Pietro se la ride. - Cos'è quella faccia? - Lo guardo infastidita, cercando di non soffermarmi sul suo sguardo. - Come se fosse così strano che uno a ventotto anni decida di prendersi una pausa allontanandosi da tutto. Sto solo dedicando del tempo alla tesi, non appena sarà ultimata tornerò nel caos della città, tranquilla. - Non riesco a non osservarlo ancora, nonostante il suo difetto, benché ne sia infastidita. Chi sei? Vengo distratta dalla voce di mia nonna. - Allora? - Mi scanso quel tanto che basta per vederla arrivare. - Non vieni a salutarmi? Le due “scimmie” ti hanno trattenuta più del necessario. Ti rendi conto, se ne va un peso e me ne lascia un altro. Questo Pietro non sa fare proprio niente in campagna! - borbotta bonariamente. La adoro! Parla come se loro non ci fossero, come se nessuno al mondo potesse mai controbatterla. - Nonna! - Le vado più vicino e lei apre le braccia. Finalmente, grazie nonna per non avere paura di me. Mi abbasso e la avvolgo anch'io. - Bentornata, tesoro. - Sospiro. - Grazie. - Inizio a sentire picchiettarmi ritmicamente la coscia, delle lievi frustate, mi sciolgo dall'abbraccio e lo vedo, un pastore tedesco che scodinzola a pochi centimetri da me. Ma com'è possibile? Quante cose sono cambiate? Dove sono stata per tutto questo tempo? Dopo Mollica e Acino, i due lagotti che mio nonno adorava e che aveva istruito personalmente per la ricerca dei tartufi, mia nonna non ha voluto più nessun cane, aveva provato troppo dolore per la loro mancanza. Allungo una mano, mi lascio annusare, inizia a scodinzolare più forte e questo mi spinge ad accarezzarlo; si prende la sua dose di coccole, quasi guaisce per la felicità, ne resto stupita. È così caloroso che si alza sulle zampe posteriori poggiando quelle anteriori quasi a toccarmi le spalle, non me l'aspettavo e mi fa perdere l'equilibrio. Pietro fischia e lui si mette seduto all'istante. Non posso esimermi dall'incrociare i suoi occhi, cerco di concentrarmi solo su quello completamente verde per non farmi assalire dall'ansia. Pietro risponde senza che gli abbia fatto alcuna domanda. - È la mia, si chiama Kira, non devi avere paura di lei, è addestrata, ma è ancora un cucciolo e a volte non sa misurare l'entusiasmo. - Annuisco. Pietro vorrei potermi fidare di te... ma c'è un ma. È solo che non lo so spiegare, almeno non ancora. Lui mi sorride nuovamente, io cerco di svuotare la testa che riprende a farmi male, forse saranno i mille interrogativi senza risposta e la mia diffidenza a farmi sentire questo continuo fastidio alle tempie. Mi allontano da tutti seguendo la nonna, Kira mi trotterella al fianco e solo adesso mi rendo conto che zoppica un poco. Prima di entrare in casa mi do un'occhiata intorno, almeno la struttura è rimasta come la ricordavo: il casale principale si allunga in un rettangolo e ci sono due porte d'ingresso, una riservata a noi e l'altra per gli ospiti. Su una porzione di facciata spicca in un affresco lo stemma di famiglia e il nome del B&B “Villa Adua”, la parte restante è rigorosamente in pietra a vista, le finestre su entrambi i piani sono incorniciate da imposte nere, ma l'edera che negli anni è cresciuta facendosi sempre più spazio gli dona colore e vivacità. La dépendance in legno di fronte mi pare sia stata rimessa a nuovo, avrò tempo per farmi un'idea su quanto e cosa hanno cambiato.
Lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto. Seneca
Dario cerca di coinvolgermi nell'organizzazione per la fine della vendemmia, mia nonna si dà da fare come sempre senza chiedere aiuto a nessuno e continua a ribadirgli di lasciarmi in pace. - Quando e se ne avrà voglia, sarà la prima a ritagliarsi un ruolo che sia tra i filari o per la ristrutturazione. Dovrà essere lei a decidere cosa preferisce! - Ovviamente a queste parole lui le risponde che come sempre mi vizia, ma lei se ne frega. Vanno avanti così da qualche giorno; poi c'è Pietro. Non ho ancora ben capito che ruolo abbia nelle nostre vite, principalmente lavora nella parte che è in ristrutturazione, lo vedo di tanto in tanto ma cerco di evitarlo accuratamente. E questo non perché sia invadente o fastidioso, è solo che c'è: la sua presenza è silenziosa ma è ovunque, anche se non vorrei lo percepisco nell'aria. Come in questo momento, mentre sto oziando sul dondolo; il clima è insopportabile da quanta umidità c'è, eppure mi si increspa un po' la pelle solo perché sento i suoi passi farsi vicini. Potrebbe essere chiunque altro, ma so che è lui. - Pensavo che potesse farti piacere una limonata ghiacciata. - Gli do un'occhiata di sfuggita: ha due bicchieri tra le mani e uno zaino in spalla, resta lì per qualche secondo, considerando che non gli ho ancora risposto, fa qualche passo e raggiunge il tavolino che è poco distante. Ora di certo non posso evitare di guardarlo: poggia i bicchieri, si accomoda su una sedia, svuota lo zaino, ignorando la mia maleducazione ci riprova e con gentilezza torna a chiedermi: - Allora? Sono così antipatico da non poter condividere con me neppure una limonata? - No, Pietro, non sei antipatico anzi, sei pure bello e pulito. Questo è decisamente un problema. Il tuo sorriso è troppo limpido, i tuoi occhi che brillano hanno il loro fascino, ma io ho già conosciuto occhi simili e non posso fidarmi. Se solo ti avessi incontrato prima forse starei scherzando con te, sperando magari in qualcosa di più. Invece sono costretta a comportarmi da stronza perché non mi fido di nessuno. Tantomeno di te. Chi sei? Che ci fai qui? Io non vi credo, mi dispiace. Do un colpo con il piede sul terreno, il dondolo oscilla e cigola, poi sentendomi davvero inadatta in una situazione come questa, lo fermo di colpo. Mi alzo, pronta a rintanarmi in camera, senza averne l'intenzione faccio un passo nella direzione sbagliata, ne aggiungo un altro e poi alla fine mi siedo come mi aveva chiesto. Ora c'è solo la distanza del tavolo a dividerci. I suoi occhi non mi hanno mai abbandonata, mi sorride leggendo ad alta voce le parole stampate sulla mia maglietta: - Sono pericolosa. È un avvertimento? - - Forse. - Finalmente riesco a dire una parola e questo mi fa sentire meno stupida. Allungo la mano e prendo un bicchiere avvertendo subito la sensazione di sollievo quando il fresco del vetro si diffonde sui palmi. - Interessante, allora vorrà dire che farò attenzione. - Lo dice seriamente, la sua voce si è fatta più ferma. Questo mi stupisce un po', solitamente la gente non bada a certi “dettagli”, si perde sempre questi indizi, se non lo facessero forse... D'altronde anch'io avevo sottovalutato alcuni aspetti di lui e quando poi mi erano tornati alla mente era troppo tardi, ero già sua prigioniera. Bevo un sorso di limonata e il ghiaccio mi rinfresca la bocca, l'acidità del limone fa sì che mi venga la pelle d'oca, ma non si tratta solo di questo. La memoria sì è attivata e, per quanto mi sforzi, non riesco a trattenere i ricordi che solitamente tengo serrati sottochiave.
Quando mi resi conto di essere costretta, legata a un muro, il panico aveva iniziato a prosciugare la mia lucidità. Non volli arrendermi e continuai a urlare talmente forte fino a farmi bruciare la gola, a un tratto la saliva si azzerò, mi pareva di non potere neppure più respirare. Nonostante i miei sforzi, la paura mi stava letteralmente divorando. Il tempo si dilatò, annaspai e tossii a lungo, poi all'improvviso vidi un accenno di luce, in profondità, sul pavimento di cemento. Stava entrando qualcuno, provai terrore e sollievo nello stesso istante, tutto sarebbe dipeso da chi si fosse presentato... e poi lo vidi. Bellissimo. Lui, impeccabile come sempre. Ero salva. Piansi di gioia. Non poteva capitarmi più nulla di terribile, mi aveva trovata prima ancora che qualcuno potesse farmi veramente del male. - Sei qui! O mio Dio, ti ringrazio. Vieni, avvicinati, aiutami. - Lo incitai vedendolo tentennare, gli mostrai perfino la catena a cui ero legata. Non esibì nessuno stupore, semplicemente si limitò a guardarmi. Avrei dovuto capire, invece imputai quella sua reazione al fatto che potesse essere scioccato, o forse non era pronto a vedermi in quello stato. Alla fine fece due passi e il cono di luce lo illuminò completamente: alto, biondo, un viso perfetto, dai lineamenti delicati, ma c'era un ma, tutta quella perfezione mal si addiceva alla sua espressione tetra. Ebbi l'intuito di guardarlo negli occhi e quello che vidi mi raggelò, non era poi così felice di vedermi. Ancora una volta gli diedi poca importanza perché io volevo mettermi in salvo, volevo tornare a sentirmi libera. - Elia, aiutami! Muoviti, vieni qui... non so quando tornerà. Siamo in pericolo! - urlai spronandolo ad avvicinarsi. Ma lui niente. - Elia! - lo richiamai. E poi mi venne vicino e fu la catastrofe. Si palesò così come fanno tutti i cataclismi, mi travolse senza darmi il tempo di ragionare, di mettere in fila i pezzi, arrivò con la sua furia e mi spazzò via come se la mia vita valesse meno di zero. - Smettila! Smettila di chiamarmi. Devi smetterla stupida puttana. Nessuno verrà né a cercarti né a farti del male e sai perché? - Sentii gli occhi schizzarmi fuori dalle orbite, il cuore mi stava esplodendo nel petto. Cosa stava succedendo? Non poteva essere che... la testa iniziò freneticamente a muoversi da un lato all'altro, stavo impazzendo. Nooo! No. Continuavo a negare l'evidenza. Eppure sapevo, quindi mi portai le mani alle orecchie, non avrei retto una sola parola di più. Mi giunsero comunque e sprofondai nell'abisso della sua ferocia. - Perché ti ho portata io qui. Finalmente sei tornata a stare dove dovevi, non sei altro che una bastarda, una cagna! - Continuai a serrare le mani, volevo proteggermi da quelle parole. - Smettila! Non sei tu, ti hanno drogato? Ti stanno obbligando? - Ero disposta ad accettare qualsiasi risposta, ma non l'unica verità. Tornai a guardarlo, sperando di scorgere un segnale, un cenno, qualcosa che potesse far sì che lo riconoscessi, invece i suoi occhi erano velati, in particolare quello a mosaico. Quel dettaglio che tanto mi aveva incuriosita, una macchia cristallina, quella che ricopriva parte dell'iride verde, si era incupita. Era un pozzo d'odio, un sentimento che non avevo mai scorto prima. - Elia. - La mia voce tremò, come quando chiami qualcuno che stai per perdere per sempre. Lui si avvicinò con passi pesanti, istintivamente mi incurvai su me stessa raggomitolandomi, sapevo di dovermi proteggere. La sua figura incombeva su di me, la sua ombra mi inghiottì così come la furia e il dolore che si scatenarono poco dopo. Per alcuni secondi indefiniti non sentii nulla se non il mio respiro affannato, poi si sfilò la cintura che fendette l'aria, ebbi solo quell'unico attimo di coraggio per guardare ancora cosa stesse per accadermi. Poi ripiegai la testa tra le braccia, ma a ben poco poteva servire. - Cosa non hai capito di quello che ti ho detto? Non. Devi. Nominarmi. - Il primo colpo fu così forte e sordo che mi strappò via non solo il respiro, ma con esso anche i lembi del vestito sottile che indossavo. Mi resi subito conto che non era un incubo quello che stavo vivendo, non era come accadeva nei film dove la protagonista diventa come una bambola di pezza maltrattata, e la sua mente in qualche modo si estrania per farle percepire ben poco. No. Non accadde nulla di tutto questo. Il dolore che provai mi rese ancora più vigile, la confusione emotiva mi stava divorando, ma non abbastanza velocemente. Sentii la mia pelle squarciarsi in diversi punti, il sangue caldo iniziò a colarmi sulla carne fredda, ogni colpo mi dilaniò il cuore. Un ultimo pensiero prima di perdere i sensi: ma io ti amo. Perché mi stai facendo questo? Siamo stati insieme per mesi. Io ti... Forse non lo pensai e basta. Forse glielo dissi e lui in tutta risposta mi sferrò un unico calcio alle costole. - Devi stare zitta! Tu non mi hai mai amato, tu al contrario ti sei presa la mia vita. -
Non mi rendo conto di tremare fino a quando qualche goccia di liquido ghiacciato mi cola addosso. Sgrano gli occhi dall'orrore: oddio NO! Non mi preoccupo per me, o del mio malessere, ma degli occhi di Pietro che mi guardano senza indugio, sono decisi come se avesse intuito il mio turbamento, in attesa di qualche mia conferma. Prima che possa anche solo provare a chiedermi qualcosa, sposto la sedia che raschia sul pavimento. - Non mi sento bene, scusami - mi giustifico. So che non gli basta, quindi aggiungo: - È tutto a posto, credimi. - Ma sto già correndo via. - Viola, aspetta. - La voce mi giunge da lontano, salgo le scale ancora più velocemente, sento il sudore bagnarmi la fronte, tutto è accelerato dentro me: il battito, il brusio nei timpani, il formicolio sottopelle. Il dolore caccia via il dolore. So cosa devo fare per non sprofondare nel baratro, devo curarmi. Entro in camera, sono sconvolta. Pietro sa. Pietro sa. Pietro sa. La mente non mi dà tregua neppure per un attimo, mi ripresenta quegli occhi che in qualche modo temo, ma riconosco come diversi. Scrollo la testa. No! Non pensare... non pensarci. Entro in bagno e mi richiudo la porta alle spalle con un calcio, poi senza alcuna esitazione afferro il beauty case che ho in un cassetto, lo apro. Una ragazza normale, della mia età, avrebbe dei trucchi e delle creme riposte lì dentro. Io, oltre a un rossetto nero, il collutorio e qualche altra stronzata inutile, ho un rasoio. Quel tipo di rasoio che usano i barbieri, quelli con un'unica lama affilata. Lo apro decisa, sto per sollevarmi una manica quando mi accorgo che è già spiegazzata oltre il gomito. Questo fatto non fa altro che accrescere la mia smania, Pietro avrà visto i segni? E mentre ci penso incido con mano ferma un taglio a fior di pelle. Il sangue inizia a zampillare, poi scorre, lo osservo. Mi sento un po' meglio, taglio ancora, il male che mi attanaglia non è poi così insopportabile anzi, pian piano mi riporta a prendere il controllo su di me. Sono io la padrona del mio corpo e della mia mente, non lui, scaccio così quella sensazione di appartenergli ancora. Un'ultima volta può bastare per adesso, poggio la lama e lo sento dietro di me, prima che le sue parole possano raggiungermi. - Ferma! Che diavolo stai facendo? - La porta! Da scema che sono non l'ho chiusa con la chiave, persa nel caos della mia mente non ho valutato che potesse seguirmi. L'aggressività che porto dentro esplode all'istante, il braccio continua a gocciolare, mi volto a guardarlo senza alcuna vergogna. Priva di timori gli punto la lama contro, anche se mi è distante. - Stanne fuori, non sono affari tuoi! - Pietro alza di poco le mani in segno di resa, sono certa che non abbia davvero paura, lo fa solo per cercare di calmarmi. Il sorriso che lo contraddistingue è sparito, mi tiene legata al suo sguardo che però non è altro che benzina su un incendio. - Devi uscire di qui. Non mi uccido, tranquillo. Fai il bravo ed esci. - Mi risponde con una voce più risoluta della mia, con la medesima sfida. - Non me ne vado. Non vado da nessuna parte. Poggia quel cazzo di rasoio. - Bene, bene, bene. Abbiamo un Don Chisciotte, un nuovo salvatore. Me la rido interiormente. Gli assomigli troppo per poterti credere, per farmi anche solo sfiorare dall'idea di potermi fidare di un estraneo. L'ira mi assale quando mi accorgo che nonostante i miei pensieri stavo per abbassare la lama. La sventolo tra di noi minacciosa. - Chi cazzo sei, eh?! Cosa sai di me? - - Niente. - - Bugiardo! Cosa ci fai in questa casa? - Gesticolo ancora ma lui non ne è impressionato, granitico come il suo nome rimane fermo a pochi centimetri da me. - So poco. - La frase muore a metà, mi fa impazzire questa situazione, non gli credo. - Vaffanculo! Esci, non sei nessuno per stare qui! - Strillo contro di lui ma in realtà ce l'ho con me stessa, ce l'ho con tutti e nessuno. Sono furibonda perché ancora non ho accettato il fatto che una sorte del genere sia dovuta capitare a me, d'altronde la colpa per quel che mi è accaduto è anche la mia. Ci sfidiamo in un silenzio ingombrante, non voglio mollare e lui pare avere la stessa intenzione, non ho il tempo però di inventarmi qualcosa, perché mi coglie impreparata quando mi blocca il polso e fa un balzo dietro di me; così ci ritroviamo appiccicati. Ho le spalle contro il suo torace, sento il suo respiro ansante, proprio come il mio, tento di divincolarmi, ma Pietro stringe la presa avvolgendomi un braccio sull'addome, tenendomi bloccata. - Stai buona. Non ho intenzione di fare niente, non ti farò del male. - Nella follia dei miei gesti e delle mie parole scoppio anche a ridere. È una risata carica di sarcasmo e ostilità. - Non potresti mai farmi del male, Pietro. Quello vero l'ho già subito. Anche volendo, tu non puoi proprio farmi più niente. - La crudezza delle mie parole non gli fa mollare la stretta anzi, con movimenti decisi, mi allarga le dita e perdo la presa sul taglierino che cade a terra. Nonostante questo non ci muoviamo, solo ora realizzo che la sua guancia è poggiata alla mia, se solo mi voltassi le nostre bocche si sfiorerebbero. Quest'ultimo pensiero mi mozza il respiro. Non ho più provato nulla di naturale, sono diventata anaffettiva, sono ghiacciata. Sono al buio, da allora. Eppure... Non avverto l'esigenza di staccarmi da lui. - Lasciami andare - mi impongo di dirgli. - Okay. Ma almeno permettimi di aiutarti. - Sei in ritardo di tre anni, Pietro. Anche tu sei in ritardo. - Non ce n'è bisogno. - Mi muovo un po' per poter incrociare il suo sguardo e lui tira indietro la testa; i suoi occhi mi supplicano di lasciarlo fare, io li chiudo un istante, ed è una sconfitta per entrambi. È già tardi. Quando li riapro, vedo che digrigna i denti e controvoglia si allontana da me, non esce subito dal bagno. Stranamente mi sento in dovere di rassicurarlo e compio un gesto assurdo, gli mostro il braccio: - Non è niente. Guarda. - Il tono è diverso, più debole. Non l'ho convinto, ma non posso dirgli altro. - Ora va', per piacere, e tieni per te quello che è successo. - Avrà capito quanto torbido c'è in me perché sospira e abbassa la testa. - Se hai bisogno mi troverai di sotto. - - D'accordo. - Prima di voltarsi si abbassa, raccoglie il rasoio e lo chiude. Seguo i suoi movimenti, se lo ripone nella tasca, mi studia un'ultima volta da sopra le spalle e va via, lasciandomi sola come gli ho chiesto di fare. C'è un unico problema in tutto questo, non mi sento “bene” come dovrei. Mi sento abbandonata, sola e con un taglio in più. Questa volta non va meglio. Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo. Virginia Woolf
Come inebetita mi guardo allo specchio. Cosa vedo? Un viso pallido che risalta due occhi sin troppo chiari, i capelli neri che poggiano sopra le spalle. Sono io questa? E poi, ricordo questa stessa ragazza: aveva i capelli biondi, la pelle rosa e le iridi color del cielo che tutti invidiavano... ...ricordo quando si era specchiata dopo giorni di fame e agonia.
Mi risvegliai intontita, forse era trascorso solo un giorno o forse molti di più, in quel frangente non mi sforzai neppure di rammentare cosa fosse successo. Quello che c'era da sapere me lo diceva il mio corpo. Non avevo un solo lembo di pelle che non mi facesse male. Riluttante mi mossi, la catena era diventata anche un peso fisico, mi doleva tutto. Più per istinto che per altra motivazione, mi controllai dandomi una rapida occhiata. Sarebbe stato più opportuno non farlo: avevo lividi ovunque sulle gambe e sulle braccia, la sottoveste lunga che indossavo era stracciata in più punti. Le calze bianche erano bucate e non più bianche, macchie rossastre si allungavano qua e là, come se non bastasse ero sudicia. Mi assalì il terrore quando rividi nella mia immaginazione Elia davanti a me. Avevo amato quel ragazzo, quell'ultima sera avevamo un appuntamento, dovevamo festeggiare Halloween insieme. Per sua scelta ci travestimmo da Sally e Jack Skeletron, i personaggi di Nightmare Before Christmas. Tentai di ricordare l'inizio della nostra storia: frugai e rifrugai nella memoria in cerca di qualcosa, ma ero così frastornata che non riuscii a mettere insieme i pezzi di quel disastro. Lo avevo conosciuto casualmente in un bar, si era sempre dimostrato a modo, educato, mai fuori dalle righe. Impeccabili i suoi vestiti, tanto che in un'occasione gli chiesi: - Sei sempre così serio e preciso? - - Sono un promotore finanziario, non posso di certo andare da un cliente in bermuda. - - Mhm! Ecco spiegato il motivo per cui sembri tanto composto - avevo scherzato. - Ma non è noioso? - - Che cosa? - - Come che cosa? - - Dovrebbe essere noioso essere me, oppure un promotore finanziario? - Gli sorrisi e lui lo fece di rimando, così aggiunsi: - Il tuo lavoro. Non ti stavo dando velatamente del monotono, se solo lo avessi pensato te lo avrei detto, magari in maniera gentile! - - Molto bene, vedo che sei una ragazza schietta, allora ti risponderò altrettanto francamente. - Incastrò il suo sguardo nel mio. - In realtà è tutt'altro che noioso. Il denaro è l'unica cosa che dà alle persone l'illusione di contare qualcosa. Se sei abbastanza bravo e fai crescere il loro conto in banca, ti venerano, diventi importante, ma quello che spesso ignorano è che così, quasi magicamente, ti ritrovi ad avere tu il potere su di loro. È appagante, credimi. - Fischiai come un camionista. - Non fa una piega il tuo discorso, ma direi che è un po' troppo asettico. - Scoppiò a ridere e con un cenno della mano ordinò altri due drink al barista, aggiungendo: - È lavoro. Né più né meno. Non è una relazione sentimentale. - Accentuò il tono su quelle ultime due parole, poi spostò la conversazione su di me. E io stupidamente risposi alle sue curiosità. Quella sera non mi chiese né il numero né mi propose di accompagnarmi a casa; seguirono altri appuntamenti non dichiarati, stessa ora, stesso posto. Mi sembrava tutto giusto anche se strano. Mi piaceva, ma d'altronde a chi non sarebbe piaciuto, aveva gli occhi di tutti sempre addosso eppure lui non ne aveva che per me. Iniziammo così una relazione, sempre senza dirci niente, senza forzature. Pareva fossimo accomunati dall'esigenza e dalla voglia di trascorre del tempo insieme. Inevitabilmente, a quei ricordi lacrime pesanti mi inondavano il viso, anche se era straziante continuai a riflettere, ma nulla. Non mi aveva mai fatto del male, mai una stretta inopportuna. Forse, l'unica volta che non lo capii fu quando voleva saperne di più sul mio nome. - Perché dici di chiamarti Viola? - Lo guardai stupita. - Come scusa? Mi chiamo così. A mia madre piaceva questo nome. - Era visibilmente teso, come se la mia risposta non fosse abbastanza, gli rivolsi uno sguardo titubante ma non considerai allarmante quell'episodio, così come non lo feci qualche mese dopo, quando conobbe i miei genitori. Quella sera fu attento come non mai, come se non volesse perdere alcun dettaglio. Faceva parte di lui, e poi, cos'altro poteva significare se non un reale interesse nei miei confronti? Invece mi ritrovavo in quelle condizioni a causa sua.
Maura R.
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|