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Autore: Giuseppe Bianco
Una splendida follia
Narrativa
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Una splendida follia
Fuori c'è un tempo da cani. La pioggia cade giù a secchi, scaraventata da ogni direzione. Appoggiato alla finestra del salone della mia casa, mi godo lo spettacolo, quasi compiacendomi di essere rincasato in tempo, appena un minuto prima del diluvio. Le folate di vento oltre a strapazzare gli alberi che con le loro cime sfiorano le mie finestre, urtano anche contro le persiane chiuse delle altre stanze, provocando continui quanto fastidiosi rumori, coperti ogni tanto dal forte brontolio di qualche tuono lontano; brontolio sempre più forte, sempre più vicino, sempre più boato.
Mentre continua a cadere acqua a secchiate guardo ancora attraverso la finestra, senza focalizzare niente: guardo nel buio, nel vuoto e basta.
Non ho sonno e tanto meno voglia di andare a letto.
Seguendo gli spazi illuminati, a tratti e velocemente dai continui fulmini, raggiungo la camera da letto; avverto la presenza di mia moglie, la saluto, lei non risponde, dorme già.
Mi dirigo di nuovo verso la finestra. Se non piovesse, potrei scendere e raggiungere il bar all'angolo, da qui saranno al massimo duecento metri, ma con questo acquazzone per non bagnarmi dovrei transitare in una campana di vetro. Nel bar qualche amico con cui perdermi in sterili chiacchiere lo avrei sicuramente trovato, ma piove. Non posso uscire, accenderò il computer, ho del lavoro volontario arretrato. Di fronte al piccolo schermo con su scritte le mie idee resto all'impasse, e visto che, nessun pensiero fluttua dal mio cervello, non si muove neanche un dito. Scrivere? No, penso proprio di no! Ma non ho ancora sonno, proverò a giocare. Tramite la tastiera richiamo nel video un gioco, uno qualunque e... niente da fare! Stasera sono a corto di concentrazione, a dirla tutta, non ne ho per niente. Con questi video games, anche con quelli più stupidi, ce ne vuole.
Proverò a curare la mia insonnia con la tivù, vivrò di riflesso questi momenti. Show e talk-show non mancano mai, e anche se sono tutti uguali, copiati e ricopiati, ricopiati e copiati tanto da non distinguere più l'idea dalla quale sono stati partoriti, o l'originale, se mai ce ne sia stato uno; spero che almeno riescano a mitigare la solitudine che stanotte mi deprime. Un vezzo dei talk-show in questi ultimi tempi è lo spazio dedicato ai guai della gente comune. Più che per solidarietà e partecipazione, sembrano siano realizzati per la soddisfazione dei sadici in ascolto. Visti gl'indici di gradimento ce ne devono essere tanti. Lasciano parlare il mal capitato, gli tirano fuori tutto il dolore. Con la telecamera fanno una panoramica su qualche lacrima in studio, poi come da copione, ad un certo punto anche il presentatore viene preso dalla storia di turno. Lacrime, solidarietà, parole di incoraggiamento e ... un attimo dopo senza neanche un mezzo tono di commozione nella voce, il conduttore da il via alle danze, alle luci, alla musica. Sembra tutto strafottentemente costruito senza rispetto, per chi poi continua a soffrire. Il tutto giustificato da quella maledetta didascalia Lo spettacolo deve continuare! Cominciamo a sacrificarlo alle persone, questo maledetto spettacolo; dobbiamo cercare di approdare in un mondo a misura d'uomo. Dove al centro ci sia l'essere umano con tutto il rispetto che merita, non solo una corsa verso cose fittizie per l'animo. Meglio cambiare canale, tutto questo non mi sembra adatto all'ora, ma... quanti show!
Finalmente un telegiornale, ma le notizie non migliorano di molto. Guai, catastrofi climatiche, terremoti, come se la terra così maltrattata da noi cominciasse a ribellarsi, a restituirci compreso iva e interessi maturati, tutti i torti subiti. Nella migliore delle ipotesi: tasse e guerre.
Le guerre, un vero affare: non finiranno mai!
Ho scelto un pessimo anti-depressivo, la televisione di stanotte fa un po' pena.
Per andare sul leggero mi restano i filmati delle sexylines. Per fare meno male all'anima ma ... quanta solitudine dietro una telefonata, fatta con voce arrapata ad una donna, che a voler sottilizzare, non sarà neanche quella che si sta toccando nel video. Un altro business senza rispetto per i sentimenti. Meglio cambiare ancora canale, poiché ad essere sincero, restare fermo con le mani alla luce di queste sollecitazioni sessuali non è una mia peculiarità. A quest'ora e con il morale che mi ritrovo meglio evitare amori a circuito chiuso. Eccitando i tasti del telecomando, continuo il mio viaggio via etere, tra i sorrisi artefatti, gli orgasmi simulati e le lacrime vere.
Purtroppo stanotte solo quelle sembrano essere vere.
Meglio spegnere quest'amplificatore di solitudini.
Senza eccessiva enfasi torno alla finestra domandandomi perché mai continuo a ciondolare per casa in attesa che smetta di piovere, visto che mi è passata la voglia di uscire? Forse la risposta è negli anni, ho sentito dire, che più si invecchia e più si dorme poco. Rimango ad ascoltare l'ultima tesi riecheggiare dentro me, non sentendomi affatto vecchio.
A trentacinque anni si può essere vecchi oppure bambini, è un fatto soggettivo, di lavoro, di contentezza, di voglia di vivere; non ho sonno, ma non mi sento vecchio.
Si sente vecchio chi nella vita ha fatto già tutto o non ha fatto mai nulla, io ho ancora tante cose da fare, tante parole da scrivere e tanti cessi da riempire di pipì.
Ho una moglie, ma non considero assolutamente l'ambiente famigliare come un punto d'arrivo, come la meta. Lo ritengo una nuova visione della realtà, un nuovo viaggio da iniziare. Non assolutamente come la tomba di tutti i ragazzini sogni. Ne ho visti troppi di amici, che dopo il fatidico Si, hanno smesso di vivere le piccole cose vissute prima. Piccoli gesti quotidiani: un caffè con un amico, una partita a calcetto. Subito dopo rinunciare anche a tutti i sogni, nutrirsi di tivù ed ingrassare.
Dicono che dipende dai piccoli quotidiani problemi che non mancano mai.
Non credo sia così, quelli è vero non mancano mai, anch'io ne ho avuto tanti. Tante volte stavo per maturare, per arrendermi al tedio e rinunciare ai piccoli piaceri, però, di notte prima di andare a letto, continuo a riempire una caraffa d' acqua per uscire sul balcone ad innaffiare i miei sogni; non per farli diventare grandi, senza attendere da essi nessun exploit, ma solamente perché il nuovo sole, con il suo calore non riesca a farmeli appassire. Ci vuole coraggio per sognare, ma bisogna avere dei sogni, tenerseli stretti per evitare di perdersi in velleitari bisogni.
Beh, almeno questi pensieri mi hanno fatto smettere di vagolare per casa. Sono seduto, affondato sulla mia poltrona, con il telecomando in mano, per l'abitudine, ma con il televisore spento. In questi frangenti penso sia importante.
Mi perdo nell'appiccicoso filo di pensieri attaccato alla parete di fronte a me, troppo liscia per non lasciarli scivolare giù; seguo le scie in verticale, quelli che arrivano a toccare il pavimento difficilmente risalgono su, qualcuno ce la fa, ma la risalita è molto più dura e difficile della discesa.
Tra un tuono e lo scrosciare della pioggia, direttamente dal buio, mi arriva il pianto del bambino di un vicino, avrà avuto qualche incubo, ma quali incubi si possono avere ad una decina d'anni?
Gli incubi che avevo da bambino adesso mi fanno ridere, gli incubi che ho adesso, mi faranno almeno sorridere?
Sono in casa già da un'ora, nonostante la stanchezza, il sonno è ancora ad un livello troppo basso per portarmi a letto.
Sono passato dalla finestra al computer, dal computer alla televisione, dalla televisione al pianto del bambino, e sono di nuovo alla finestra. Non ho sonno e non sto impazzendo e non sto invecchiando. Forse sto solo pensando a qualcosa di strano. A qualcosa di strano? Continuo spudoratamente a mentire a me stesso, questo mi fa paura.
Sto pensando a Giovanni!
Inutile negarlo sto pensando proprio a lui.
Vederlo all'ospedale così mal ridotto: debole, poco più di una larva, mi ha lasciato dentro un brutto presentimento, misto a una sgradevole sensazione; mi sono sentito isolato come se il mondo attorno a me fosse avvolto dalla nebbia.
Sensi di colpa?
Non lo so, però resta il fatto che non riesco a deviare i pensieri da lui e dalla sua assurda storia da me coadiuvata, fino ad un certo punto. Non posso fare a meno di focalizzare nel buio il suo viso senza ritornare con la mente a quella notte, a quella maledetta notte, quando venne a svegliarmi mettendomi al corrente dei suoi grotteschi quanto assurdi piani.
Già quella notte!
Cominciano piano a sdrotolarsi, a passarmi davanti tutti i suoi improbabili attimi.

Era una notte buia e tempestosa, mi verrebbe da dire, ma in realtà, almeno meteorologicamente, era la materializzazione di una favola.
Dalla finestra di fronte al letto dove io e mia moglie ci eccitavamo toccandoci, entrava il viso di una grossa luna, bianca e rotonda e con due stelline poco distanti a farle compagnia. Un leggero fruscio di vento mitigava il caldo di una notte che senza sarebbe stata irrespirabile.
Continuavamo a toccarci aspettando il giusto punto d'eccitazione, grosso modo, come quando si tiene la pasta sul fuoco aspettando il giusto punto di cottura, pregustandone in bocca il sapore.
Il canto di qualche cicala vagabonda si alternava al prosaico ticchettio della sveglia, immancabile compagna del comodino a destra del mio letto. Con la lingua cominciai piano a viaggiare sul caldo e conosciuto a memoria corpo di Sofia, respirandone e gustandone il sapore.
Una strada conosciuta, percorsa infinite volte, ti da certamente meno emozioni di strade sconosciute, ma la fluidità di manovra scaturita dalla conoscenza del percorso e l'andare a memoria che ne consegue, permettono di perdersi in particolari, sfumature, stati d'animo impossibili su una nuova strada. Ancora una volta ci incamminammo per i sensi del nostro giornaliero viaggio. Ero tra le sue gambe con la luna sulla mia schiena e a tratti sul suo viso.
Non ricordo se dopo l'amore ci addormentammo, ricordo però con precisione che alle 03:05 fummo svegliati dal suono del citofono, perché nel sonno confondendolo con quello della sveglia puntai gli occhi sul quadrante luminoso pensando che fosse già ora di alzarsi, rendendomi conto soltanto qualche attimo dopo che si trattasse del citofono. Qualcuno bussava. Mi girai verso di lei, le sussurrai chiedendo: “Vai tu a sentire chi è?”.
“Vacci tu!”, rispose alquanto alterata.
Mentre il citofono continuava a gracchiare, con un po' d'insistenza riuscii a farla alzare.
Stizzosa arrivò all'apparecchio: “ Chi è”
“ ...” la voce che non potevo sentire.
“Ma a quest'ora? ...Sei matto?”.
Ritornò a letto e rimase in silenzio fin quando non le chiesi: “Chi è?”.
“ Giovanni! uno dei tanti falliti che frequenti tu. Scendi!”.
Si era incazzata! Volevo chiederle cosa volesse, ma era troppa fuori di sé. Lasciandola nel letto scesi giù.
Per strada, seduto sui gradini appena fuori casa mia, sbiancato dalla luna, c'era Giovanni piegato in due. Avvolto dal pigiama gli arrivai in silenzio alle spalle, per un attimo lo guardai senza parlare, poi dissi: “Ehilà!”. Alzò la testa dalle ginocchia, tirando un sospiro mi guardò, disse: “Ciao”, come se non fossero le tre di notte, ma una normale ora diurna. Fingendo di non aver guardato l'orologio accettai il gioco, mi ci accomodai accanto. Era agitato, sudato, trasandato. Gli chiesi come gli avrei chiesto a mezzogiorno:
“Giovanni che c'è?”.
Lui rispose : “Alle tre di notte, come se niente fosse, hai il coraggio di chiedermi che c'è?”

Giuseppe Bianco

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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