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Autore: Franco Filiberto
Di nuvole, brugole e altri misteri
Giallo
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Di nuvole, brugole e altri misteri
La scena aveva un che di teatrale: la protagonista, la prima ballerina, era lì, con le gambe leggermente flesse e il corpo piegato in un inchino rivolto a un immaginario pubblico plaudente. I capelli sciolti avevano assecondato il movimento del busto e pendevano come un sipario davanti al capo reclinato. Nel silenzio pesante, bianchi fantasmi s'incrociavano in un viavai convulso scambiando poche parole a bassa voce. Alla luce fredda di quel mattino uggioso si aggiungevano, a tratti, impietosi lampi di luce che si riflettevano fugaci sulle superfici bagnate dall'umidità della notte. Non c'erano quinte e non c'era orchestra, non c'era un pubblico né un palco per quella tragica matinée. Assente anche il regista che aveva voluto fissare in quella scena finale, in quel drammatico fermo immagine, il frutto avvelenato della sua rabbia, della sua insana vena poetica.

Il commissario Cecchi uscì di casa di buonora come tutte le mattine. Ancora assonnato, si frugò nelle tasche in cerca della chiave della macchina. Aprì la portiera e si sedette al posto di guida. Fu allora che lo vide. Scese e prese il biglietto infilato sotto il tergicristalli dell'auto.
Non era una contravvenzione e questo era già un fatto positivo. Si guardò intorno: la strada, a quell'ora del mattino, era deserta.
Aprì il biglietto che era ripiegato più volte e lo lesse. Si guardò ancora intorno per vedere se il latore della missiva fosse lì da qualche parte a osservare le sue reazioni, poi si risedette al posto di guida.
Rigirò più volte il foglio fra le mani e lesse di nuovo:

Senza più luce
Il corpo esangue giace,
Dove il conto non torna
Per più fiate.

Le parole erano scritte in corsivo con un inchiostro marrone scuro, con caratteri arricchiti da grazie e svolazzi. Mise in tasca il biglietto e avviò l'auto per raggiungere la questura.
Parcheggiò nei posti riservati e si fermò al bar per un caffè.
Quando arrivò in ufficio riprese il biglietto e lo stirò con le mani sul piano della scrivania.
Il messaggio era inquietante nella prima parte e decisamente criptico nella seconda.
Chiamò il viceispettore Vanni, pisano purosangue e fervido cultore di quella che lui con orgoglio chiamava pisanità, nella speranza che la sua conoscenza della città potesse essergli d'aiuto per individuare il luogo a cui si faceva riferimento nel biglietto.
Il Vanni lo lesse e chiese: - Come l'ha avuto? -
- Era sotto il tergicristalli della mia macchina. -
Il viceispettore stette un po' a pensare, poi osservò: - Lei ‘un pensa a uno scherzo e, a esse' sinceri, neanch'io. La prima parte è chiara. Un corpo esangue e senza luce è un morto. Un cadavere. La seconda, vuole dirci dove si trova, parla di un posto dove i conti ‘un tornano per molte volte. È roba in stile dantesco e anche il tipo di scrittura riporta a que' tempi. Roba toscana, commissario. Se lei fosse di qui, capirebbe. -
- Vanni, lo sai o non lo sai cosa vuol dire? -
- Commissario, a Pisa di posti dove i conti ‘un tornano, ce n'è tanti. Mi ci faccia pensare un po'. -
- Va bene, vai pure ma fammi sapere al più presto. Questa storia non mi piace per niente. -
- Agli ordini, commissario. -
Prima che Vanni uscisse il commissario puntualizzò: - A proposito, forse a te sembrerà strano ma anche noi di Varese conosciamo Dante Alighieri! -
- Agli ordini, commissario - ripeté Vanni, chiudendosi la porta alle spalle.

Rimasto solo, il commissario dette un ultimo sguardo al biglietto, poi lo ripiegò e lo mise nel portafogli. Ci mancava anche il poeta rompicoglioni, pensò, prima d'immergersi nella lettura dei rapporti della nottata appena trascorsa.
Non erano passati dieci minuti che Vanni si affacciò alla porta del commissario: - Posso? -
- Vieni, ti è venuto in mente qualcosa? -
- Sì, anche se mi sembra un po' troppo facile. -
- Vuoi dirmelo o ci dobbiamo girare intorno ancora per molto? -
- Le dita del diavolo. Secondo me si riferisce alle dita del diavolo. -
- Cos'è, una statua? Un quadro? -
- No, sono dei graffi sul marmo che si dice siano stati lasciati dal diavolo. Una credenza popolare, una leggenda metropolitana, la chiamerebbe lei. Secondo questa leggenda si tratterebbe dei graffi lasciati dalle unghie del diavolo quando il maligno s'arrampicò su que' marmi per fermare la costruzione del duomo. Per quante volte uno li conti, la somma ‘un sarà mai la stessa. -
- Vanni, questi graffi sono in piazza dei Miracoli? -
- Sì. -
- Vieni con me. Mi spiegherai meglio in macchina. -

Franco Filiberto

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