C'era una volta una storia capovolta, dei mostri parlava e non li vessava.
Voi direte: che falsità, invero è la verità.
Il circo c'è ancora né andrà in malora, immantinente lo saprete e non ditelo al prete.
Divertiva grandi e piccini, con giochi e palloncini, e se erano viziati, capricciosi o maleducati, il circo perdeva i propri affanni niente più fili niente più inganni.
E così la notte incombeva sul circo che nessuno vedeva.
Giunsero in città con i calessi, bardati di tutti gli eccessi, e ciascun bimbo volle venire urlando e facendosi sentire.
“È arrivato, venite di fretta! Lui mica ci aspetta!” Strillavano gli infanti incantati dai fanti.
Carrozze con tende tirate e gabbie ben celate, nascondevano qualcosa: doveva esser mostruosa.
“Quali creature si celan lì sotto?” Chiese il sindaco col suo panciotto.
Caramelle e palloncini furono dati ai bambini, e come in ogni paese c'era pure il marchese.
Scese il buio, calò la notte, s'udirono ciance a frotte.
Chi aveva visto i leoni, ma eran solo i beoni; chi aveva visto i trucchi, ma eran solo i bacucchi; chi aveva visto i giganti ma eran solo i malpensanti.
Giunsero in paese con giochi e imprese, senza avvicinarsi poterono solo accontentarsi d'aspettare l'indomani per vedere gli arcani.
Il giorno seguente fu appariscente: strilloni e menestrelli, con i loro canti sì belli, al pari della colla attirarono la folla e regalarono biglietti distribuendo i dolcetti.
“Venite, grandi e piccini, ci saranno gli omini; di magie e mostri vedrete e siam certi ne racconterete.”
Cadde il tramonto, venne la sera, e col circo parve leggera.
Il mattino arrivò e l'entusiasmò recò: di certo sarebbe stata una splendida giornata.
Gli acrobati provavano e gli gnomi giocavano, il pagliaccio si preparava il trampoliere si sistemava.
Fremevano i cittadini e con loro i bambini, incantati dal tendone speranzosi di cogliere il leone.
Giunsero gli omini con dolci per i piccini, assiepati all'ingresso e si arrangiò un compromesso.
Con cordiale simpatia e qualche trucco di magia, chi era rimasto fuori placò gli ardori: domani avrebbero ammirato lo sfoggio del circo incantato.
L'attesa era alle stelle, si cianciava di strane damigelle, di belve feroci e di bislacchi incroci.
Ebbene, le voci durarono finché le luci calarono.
Passarono i secondi e i minuti, si trattennero sino gli starnuti, poi un brusco rumore e di seguito un bagliore.
Davanti a tutti, belli e brutti, apparve un gobbo il bastone d'appoggio.
Simile a un baronetto aveva il doppiopetto, l'abito elegante e un farfallino gigante.
Le code lunghe come due prolunghe, il cappello da signore che tolse con rigore.
E sotto la tesa una faccia inattesa: il naso schiacciato, il tratto marcato: come una caricatura studiata su misura.
E poi la zoppia, la strana anatomia, la pancia evidenziata dalla schiena arcuata.
Ma il peggiore fu quel grigiore, la pelle colorata come di cenere sporcata.
Forse era il cerone a colorare il padrone, o forse l'aspetto era un suo trucchetto?
“Che siano benvenuti i piccoli e i cresciuti, i bravi bambini e i più birichini. E poi i genitori, che non abbiano timori; il sindaco e il locandiere, giunti a vedere le fiere. Non abbiate dolori per questi orrori, ma solo incanto e nessun rimpianto. Gioite e ridete di ciò che vedrete, finché il sipario non cala al frinio della cicala. Ma non temete, vi divertirete, poiché questa magia vi seguirà sulla via.”
Dopo un sorriso sul suo strano viso, il buio calò e solo polvere lasciò.
Dinnanzi alle genti i nani divertenti irrisi per l'andatura e la loro statura.
L'allegro pagliaccio pareva un poveraccio l'abito ingombrante, il sorriso accattivante.
Rubarono il fiato gli acrobati con un boato e il mago con abilità mise in dubbio la falsità.
Poi i più invocati, quei mostri malnati la platea indignarono i sogni avvelenarono.
C'eran i siamesi che con modi cortesi fecero divertire e inorridire.
Il mangia fuoco impettito col suo strano appetito, il tizio senz'occhi cui credettero gli sciocchi.
Il signore senza volto, un nobile stolto, un povero disgraziato senza odorato.
“Non mi serve odorare e neppure ascoltare, non mi serve vedere per così sapere che voi colti siete sconvolti, ma la mia bocca di gioia trabocca nel sapervi numerosi e di certo gustosi.”
Poi in mezzo alla gente una statua sorprendente, un demone antico imprigionato nel granito.
A mirarlo un'aberrazione, ma tutte le persone chiedevano il significato del mostro pietrificato.
Perché mostrare loro un oggetto da decoro?
Gli occhi assenti, corna appariscenti, ali da pipistrello: era un orpello!
Più adatto al cimitero e poi non era vero!
Gli spettatori volevano gli attori, mostri da baraccone senza religione.
Il gargoyle era finto come un dipinto, cosa significava? Nemmeno volava!
Ma quando il brusio s'alzò qualcosa in lui cambiò.
La notte tetra sfiorò la pietra, e dopo un'istante divenne agghiacciante: gli occhi mosse e il torso scosse.
Nessuno si era domandato perché fosse incatenato, un inutile trattamento per lo strano ornamento.
Poi un tintinnio fece scemare il vocio, la catena si spostò e in volo s'alzò.
Il gargoyle prese vita la platea fu basita, il demone pietrificato dallo sguardo annoiato, con quella boccaccia fece una linguaccia alla gente babbea che gremiva la platea.
Il mostro era vero, non l'arredo d'un monastero che calata l'oscurità tornava alla realtà.
Allorché il prete sbiancò e il rosario afferrò: sarebbe stata un'impresa tornare alla sua chiesa poiché tutta la facciata ne era dominata.
Il mostro urlava a volte sputava turbando gli spettatori che volevano filare fuori, finché sentì un odore e virò dal domatore: lo spuntino mostrava e il mostro richiamava.
“Di pietra tornerà quando l'alba sorgerà. Ora ci credete? Anche voi, Signor prete?”
Disse una voce per nulla feroce, ma il sipario calò e lo spettacolo continuò.
Il suo numero finì, nessuno applaudì troppo scioccati e ancora spaventati per quella magia che sapeva d'utopia.
Legata per le braccia come una minaccia entrò la Diva, metà buona metà cattiva.
Un occhio di diamante, una bellezza accecante, la pelle era chiara e sul capo una tiara.
Ma questo su un lato l'altro uno sgarro del creato.
L'iride nera come pece, il corno strillare fece, la pelle come bruciata, ben si capiva se era legata!
Aguzzi erano i canini, mostrati a tutti i bambini, che si spaventarono e indietreggiarono.
Le ali parevan vere di piume candide o nere, ma quando uno dubitò si dispiegarono e in aria s'alzò.
Volteggiava sopra di loro, non erano un decoro, forse un artificio oppure un maleficio?
Le fauci mostrò, ma mite si scusò, fu dolce con i bambini, e gli diede degli abomini, il domatore la trattenne, il pubblico uscì indenne.
Un abito da sera non celava ciò che era.
Un aborto della natura, della notte oscura, o un parto del demonio fuori dal comprendonio.
Seguì il la matta con la sua gatta cui fece i tarocchi per quegli sciocchi.
Quegli sciagurati con i loro peccati portarono nel paese risate e pretese.
Poi la cicala frinì e il gobbo ricomparì, con garbo ringraziò e i pargoli avvisò.
Disse ai bambini, anche ai più piccini: “A dormire nelle camerette! O i mostri vi faran a fette!”
Lo spettacolo finì la folla uscì, trasognata o curiosa, e di certo smaniosa.
I bimbi andarono a letto temendo un dispetto di un mostro strisciato sin nell'abitato.
Non eran nelle scale tanto meno nel canale, solo nell'ombra della mente sgombra.
S'alzò il mattino su ogni lettino, i bimbi eran sereni tranne gli avventurieri.
Urlarono le madri gridando ai ladri e poi le sirene, cantarono le loro pene.
Ma nella locanda solo una domanda poiché nel paese, solo delle imprese del circo si parlava, null'altro contava.
Chi s'interrogava sulle luci, chi sui mostri truci, chi li dileggiava e chi ne ghignava.
Solo un uomo chino su un tomo, stava in disparte, gli occhi sulle sue carte.
Era un professore, o meglio: un Dottore, un uomo colto noto il suo volto.
Le ciance ignorava a leggere continuava, non seguiva il fermento né il loro divertimento.
Non li ascoltava poco gli importava di quella carovana, poco lontana.
Sino il prete e il giornalaio seguivano quel vespaio!
“William, già al lavoro?” Non badò al decoro, di quell'interruzione e colse l'occasione per assaporare il caffè e gustare un bignè.
“Hank, amico mio: sai, ci son solo io! Son ventiquattro le ore, son l'unico Dottore!”
L'amico prese posto davanti all'altro composto, adocchiò le sue carte, ma le mise in disparte.
“Non ti ho visto ieri sera, al circo che tutto avvera.” Promulgò curioso con piglio ansioso, un'occhiata amara non subito chiara.
“Non è cosa per me, buffoni e trucchi demodé.” Agitò la penna in aria l'obiezione fu straordinaria.
Come un pupo sognante o il più fervido amante narrò tutte le imprese condite ed estese.
“Ti dico che c'è il trucco!” Disse, e rimase di stucco.
“Sarà un'assurdità, ma abbi pietà della mia intelligenza se parlo con veemenza, sarò ardito: non è un mito!”
Il Dottore alla sua follia lo salutò con cortesia, giammai l'aveva veduto così posseduto!
“Il lavoro mi aspetta, non avere sì tanta fretta con la tua decisione mio caro credulone!”
La giornata proseguì, ma in breve intuì che pure il moribondo sbraitava di quel mondo.
Chi doveva vedere vaneggiava di magie e potere; chi lo aveva già veduto ne parlava come posseduto.
Giunse a sera tanto sfatto che lesse solo un atto, nel giaciglio s'infilò e subito s'addormentò.
La notte con il suo manto arricchì l'incanto: sognò di rossi tendoni, di artigli e d'illusioni.
Nulla si seppe dei bambini: vuoti rimasero i lettini.
E nelle ore trascorse nessuno se ne accorse, non giunse notizia e non fu per pigrizia di piccoli spariti, ma non si fecero quesiti.
Meglio tacere simil segreti o si crepano i vetri: pochi infanti in meno non era osceno.
Valentina Palomba
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