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Autore: Johanna Finocchiaro
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Poesia
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SE SOLO VOLESSI

Non sei stanco di negare
Di emigrare
Sfiorare
un'anima in transito senza le gambe?

Non sei stanco di pesare sospiri
Di pesare i pensieri
Erigere muri,
un corpo di stoffa senza le mani?

Non sei affranto per queste partite
Giocate e perdute
Di certo truccate,
un breve rimorso senza le labbra?

Se solo volessi rispondere
A te e a nessun altro
Sarebbe come scrivere,
per penna il cuore, al centro.

.:.

L'ACQUA CHE SCORRE

Sei come l'acqua.
Sei come l'acqua che scorre. Calda, fredda. Calda, Fredda. Rovente, sovente.
Culla di civiltà perse ma non perdute. Radice di case stanche. Veraci. Imperfette. Belle:
intonaco e crepe.
Osservo dal basso la materia di cui sei fatta.
Di cui non sono fatta.
E gli altri non sanno, ignoranti.
Non lo sanno.
Che ne sanno?
Mi riconoscono, in te. Sorridono, dicendolo. Sorridi tu, credendolo.
Gracchiano, le voci, sul viso mio. Attraversano, stridendo, il tuo.
Che spessi strati di tempo hanno incrostato. Ed un giorno in più, oggi.
Ti donano tutti quanti.
Loro non sanno.
La materia di cui sei fatta.
Di cui non sono fatta.
Gelosia e fierezza nello stesso bicchiere. Amaro il suo sorso, di fiele. Scolo di getto, scolo il fiele. Percorre la gola tutta.
A te non serve.
Sei come l'acqua. Rinvigorisci, rinfreschi, ravvivi.
Senza chiedere e senza bussare, racchiusa in argini rotti.
Sei l'acqua. Che mi scorre in vena. Invano.
Vene varicose, malate, viola. Fanno male.
E fai male tu, talvolta, onda d'urto ed urto d'onda, sulle pareti deboli d'esse.
Le riempi, dondolando, come riempivi i miei occhi, freschi. Appena sbocciati. Incolori.
Di latte.
Sei l'acqua che scorre. Bollente, marchiata d'estate; gelata, scolpita d'inverno.
Levighi e rinnovi e affoghi e lenisci e distruggi. A tuo gusto, a tuo comando,
talvolta al mio, che mi ribello e cambio e camuffo quegli occhi, cresciuti dal male e marciti.
Occhi che non riempi più. Neri. Di sale.
Bruci, acqua; disinfetti ferite che son difetti. Che son pazzia.
Impavida, senz'elmo, segnata la carne tua dalla vendetta mia.
Guida maldestra, sovversiva maestra, unicorno di mare.
Ti seguono ancora quegl'occhi neri sul cammino, a tratti tracciato, secco;
il sale, intanto, cade.
Perché? Istinto. Sopravvivenza.
Sei l'acqua.
E calda e fredda son io, come e per te.
Sei.

Bollente. Gelata.

Mi scappi di mano ma resti. A piccole gocce, piccola vita. Stremata, nei deserti,
anche allora, rischio.
Avventure già morte in partenza.
Eppure resti. Mi aspetti. Mi salvi. A piccole gocce, piccola vita.
Sei come l'acqua che scorre.
Scorri.
È amore

.:.

CLIC

Ho una madre. Un padre. Un fratello. Un nipote. Un tetto, un libro in testa, un libro in mano;
ho due mani.
Un gatto, grande e robusto, nero, un letto, tre sogni a dir poco.
Quattro o cinque a dir il vero.
Ho un Dio che mi ha creata a Sua immagine e di cui non ho sembianze.
Ho un tamburo che danza rituale e sbraita meschino di notte.
Ho un mondo. Il più delle volte, le volte buone.
E ricordo a me stessa quel mondo. Dovrei amarlo. Dovrei sentirlo. Dovrei staccarmi da terra, messaggera alata
e trovarlo.
Il panorama autentico, scevro d'egoismo. Mio. Mitologico.
Volare sopra di me, senza di me, concentrare la vista sul fuoco.
La scintilla: palesemente necessaria.
Ma proprio non può, no, prendersene merito. Della luce. Che da quella partenza cresce e muta e si ribella. E va, evaporando.
Io, io non lo posso fare. Non più. Comincio a capire.
E a fuggire dalla luce, lei, mia, che rendo buia perché buia sono. Ancora senz'ali.
Non sento niente e non so perché.
Umana compassione cercasi.
E le tragedie, anch'esse, non turbano. Non urtano. Le viscere non mi pungono.
Ma neppure son pazza, oggi, non son io quella pazza.

Un clic. Qualcosa in me ha fatto clic e non ritorna. Indietro.
Sciolgo i capelli, fili spezzati di un nastro nero alla luce di luna.
Dicembre comincia e prosegue la nenia.
Anemica di cuore, anemica d'amore.
La rima non é originale. La rima non era prevista.
Frugo e scavo e graffio ma non trovo. Quel geniale modo, il migliore, di confessare. Confessare.
Confessare che non sento niente e so perché.
Clic

.:.

E BASTA

Si discuteva, ieri.
Netta la linea. Occhio verde, brutto sorriso
e sincero.

Si discuteva, ieri.
Quando succede che vivi.
Nessun fardello ad ingobbire l'animo tuo.

Rari quegl'attimi. Ossa d'argento, diademi d'avorio
e belli.

Troppo intensi loro da analizzare.
Allora non lo fai.
Ecco, succede,
e vivi. Li vivi.
Domande inutili a porsi, risposte tutte da perdere
e volentieri.

Prendersela comoda.
O scomoda
e poco importa.

Indugiare negli attimi belli, parlarne coi denti sporchi e tra pochi, esigui pensieri
e morti.
Per fortuna, una volta tanto: silenzio.

Quale abisso di quiete. Quale delizia di sete.

Moto di lingue fuggite, felici.
Parlare senza rete. Solo parlare
e bene.
Nelle vuote carezze, ciondolarsi.
Immuni all'interiori torture, ingerenze
e castighi. Smarrirsi.

Dura un tempo, immemore, etereo e storpiato.

E basta, perché è quanto basta.

.:.

RIPETERE X3

Fai fai fai,
estenuati,
sfinisciti,
credimi.

Vivi vivi vivi,
vivi giorni di vita viva,
dai la carica al tempo scandito, candito; giralo, vestilo a festa.
Che sia gennaio, marzo, persino novembre. Son tutti belli, son tutti svegli.

Lotta lotta lotta,
e guarda al sole. Lui sorge sorge sorge, non si fa ammirare, fugge
e nascosto, solo allora, muore.
È piccante, è possente, è gigante e coscienza non ha.
Non sa, non spera, di certo.
Al gigante non serve.

Lassù, eterno. Noi quaggiù, fissando:
troppo a domandarGli e poco a carpirGli. Anzi, niente.
L'occhio si stringe e si chiude la pupilla. Lascia stare.
Assorbilo: solo pelle pelle pelle.

Brilla brilla brilla,
no, non il sole, tu. Acceso senza interruttore, di fretta.
Impossibile a spegnersi; la conseguenza.

E ringhia ringhia ringhia,
forte,
al disastro in agguato, a quello presente,
e diGli -ehi, non La senti? La musica su cui ballo, bum bum, bum, non disturbare, non sei gradito, non adesso, non stanotte, non domani, non più, mai più-

Trema trema trema,
nel caldo cocente dei poli,
E scopri scopri scopri
la carne gelata del cuore, bocca di vulcano quieto.

Infine spera spera spera,
che disperato non morrai.
Ed anche fosse, sarà una scelta, sarà potere, sarai audace, sarai tu. Tu, tu.

.:.

IL RESTO

A volte mi chiedo.
A volte.
A me stessa.
Chiedo.
Se anche gli altri.
Se anche il resto.
Se voi,
vediate quel che non vedo
e non vediate quel che vedo.
Se solo io
e perché mai,
cerchi e ricerchi quel che non c'è a scapito del cielo.

Allo specchio, all'uscio, alla stazione.
Passi e frenesia.
Occhi pittori di tele vergini.

Ma lo scordo presto.
Come scordo il resto.

.:.

OLTRE

Guardando alla nebbia, stamane, ho creduto di vederci qualcosa.
Fermamente.
Benché ferma non fosse, la mente.
Oltre lei, oltre le mura color seppia, come postumi d'incendio, in quella nebbia.

Uno spiraglio.

Magari sbagliavo;
presto, troppo presto e
troppo fitta.
Era troppo fitta.
Non so, non vorrei aver confuso le cose.

Ma pareva uno spiraglio.

A forma di sole, col suo occhio schiuso sul giorno e sul mio lungo collo.

Pareva tanto uno spiraglio.

Mi ha assalita una voglia:
prendere e riempire un bagaglio.
Buttarci dentro una maglia, veloce,
un rossetto corallo, un buon libro. E raggiungerlo in volo.
Scoccare. Centrarlo.

Non saprei scegliere, così, su due piedi. Dopotutto.
La maglia, il rossetto ed il libro.
Non son brava ad improvvisare.
Lo ammetto.

Non ho potuto, dunque.

Oltre la nebbia non ci posso arrivare.
Ma va bene, ancora sui due piedi; altroché.
Che poi a che serve un bagaglio
se non ho più mani,
se divento un uccello,
pochi etti di carne tra due ali
e nessun muro al mondo a fermarmi?

Domanda legittima.

Mi è piaciuto immaginarlo.
Moltissimo.
Dipingerne il piumaggio.
Fitto fitto, come la nebbia di stamane e variopinto.
L'uccello impettito, vestito di festa, a prova di fuoco.
Illumina il cielo e ci si confonde.

Impazzisco,
guardando allo spiraglio che appare e scompare nuovamente. Tra le mura.
Il lungo collo ne sente il richiamo. Riaffiora la voglia.
Ma c'è la finestra
e i miei due piedi e pure il bagaglio
a farle resistenza.

Mi tengo le mani. Non sono un uccello; certo.
Sì. Capisco. Che la nebbia è troppo fitta.

Ho solo voglia di andare oltre.

.:.

COME SI FA

Ti spiego come si fa.

Ogni volta che posso, imbranata, in cucina.
Seduta, bevendo un caffè non offerto.
E in piedi, porgendo una guancia allo specchio.
Sì, meno pallida e più forte. Mi sento più forte.
Ci provo persino di scatto, fuggendo al lavoro.

Divisi da un muro di piombo rincorro il tuo sguardo.
Sì, meno prossima e più audace. Mi sento più audace.

Ti spiego come si fa.

Io provo, perlomeno.
Non sono perfetta e ci ho preso la mano.
Che non è così male concedersi un pianto. Sa di buono quel sale se libera il petto.

Tento a spiegartelo ancora.

A prenderti per mano con gli occhi un po' stanchi:
seguimi, seguili,
dico.
Velati di brina, pur sempre brillanti.

D'inverno il giorno non rende, è breve il mio mondo.
Dopo aver fatto i piatti, spazzato per terra e via dalla stanza le troppe parole,
non lascio passare il tuo sonno tra noi. Sia esso di rabbia,
fatto di noia o sconforto.

Parla con me, di me, su me.
Fallo per me. Affonda le labbra sul fondo del pozzo, attingi e riportale qui,
A me.
Alla superficie, dove aspettano spari e parole.

Fingiamo di tradurle; ti prego.
Niente più caos.
Dobbiamo pur bere per vivere. O per non morire.

Capisci?

L'argilla ha un destino: raffredda. Sempre. E solo col tempo.
Solo il tempo raffredda, il tempo!
Possiamo fermarlo.

Dobbiamo far presto,
noi due.
S'impone oramai la scadenza: s'addentra il travaglio.
Dobbiamo far presto,
noi due.
Breve intervallo tra le doglie e breve sopportazione
la mia.
Sento che arriva la spinta; ha vita e la dà.
Oggi la toglierà.

Allora sbrighiamoci:
corri sciancato, malconcio, poco m'importa, da me.
Serve il tuo tocco. Corri.

Ti spiego come si fa, ancora.
No. Non mi arrendo.
Mi ascolti?

Ti rispiego come si fa.
Come si fa.
Come.
Come?
Come, cosa?

L'ho scordato

.:.

SU QUESTA BARCA

Tutti su questa barca, stiamo, a navigare.
Tutti un po' mozzi.
Mozzi mozzati ad ambo le braccia.

Tutti su questa topaia, a contemplare;
la linea dell'orizzonte davanti.

Erezioni in fila indiana, sull'attenti.
E tante le remate, imprecise ma uguali:
pareri verticali.

Tutti un po' capitani.
Tutti un po' di tutto.
Tutti un po' di niente.

Coordinati dalla fatica, stiamo, a criticare.
E se pure volgesse il tempo,
senza a noi darne,
faremo del mare un ennesimo nido: non serve nuotare se puoi galleggiare.

Sì, via dalla barca, in acqua, di testa tuffati, di testa soldati,
che tanto sarebbe affondata.

Con i resti che ci concederanno,
su quei detriti smembrati dal vento,
trovare sostegno, per qualche momento,
le braccia mozzate potranno.

Ed ancora, daccapo, se ne costruiranno.
Di nuovo, nuove le barche su cui affonderemo e sempre le stesse che ci salveranno.
Niente timone, nessuno al comando: su questo saremo d'accordo.

.:.

PUOI

Temi di perdere. Temi di credere. Temi di essere.
Temi a tenermi e molto.
Temi il tempo, lo spazio, lo sguardo che sfugge lì accanto, appena lì accanto, mistico e stanco.
Passati di cui non dobbiamo sapere, neppure tornare; semplici intrecci,
tramati su stoffe scadenti.

Copriti in me, adesso, coprimi in te, adesso,
si può.
Possiamo.

Forte quel demone, quasi mi tocca.
E caccia, sulla tua pelle rotta.
Riprende la lotta. Ancora ed ancora.
E difendi i confini e ricordi ogni crepa e ti affanni per stringere il mare.
Nude le mani, bucate, deluse. Forse confuse.

Copriti in me, adesso, coprimi in te, adesso,
si può.
Possiamo.

Crolla quel demone, quasi lo vedo,
oggi e certo domani lo sotterreremo.
Ti dico, guardami. Ti prego, vedimi. Ti stimo, guidami.

Non ho le risposte, non sono capace.
Ma queste domande son venti di vetro;
lasciale andare, non annaspare,
soffino fuori da noi.
Puoi.

.:.

SAPERE TUTTO

Vorrei sapere tutto, sai? Vorrei sapere tutto, sappilo.
Vorrei sapere, tutto.

Sia esso dramma.
Sia paura, sia cristallo.
Sia insulso, sia depresso, sia pure perverso, d'accordo.
Sia dolore.
Sia rabbia; accoglierei anche lei. Posso farcela.

Sia quel che sia lasciando sia quel che saremo.
In evoluzione, come le lingue.
Come il mio corpo sotto la luna.

Senza sapere potrei vivere.
È cosa comune.
La gente lo fa, da sempre: l'atavico equilibrio dell'essere umano,
riassunto nel breve sussurro di pochi certi dati concreti,
racchiuso in una manciata di biglie opache,
gettate in acqua senza prenderne mira.

Io non ci sto mai. Io ci sto male sempre.
Stretta,
ci sto stretta.

Sapere tutto, tutto, tutto.

E poi ridartelo,
dagli occhi,
unito al mio.
Tutto più tutto fa noi.

Non mi era mai successo.

.:.

FRONDE

Ho fronde sopra la testa,
negli occhi,
sugli occhi.
Iniettati di verde e speranza.
È la speranza.
Fronde sopra l'anima.

Si sollevano sorridenti. Riflettono il cielo. Sussurrano quiete.
Terra e cielo, costanti. Uniti perché distanti.

Non spero, io. Non dispero, no.
Solo fronde, una panchina, un respiro lento
che mi respira dentro.
E si fa strada, in me, incendiando quelle stesse fronde.
Forse già aride, non lo ricordo.
Torneranno verdi; spuntano i germogli
di già robusti. Germogli d'acciaio.
Possibile?

Mi sovrastano, mi sollevano, mi elevano.
Fronde.
Verde: tutt'intorno.
Un unico estremo assolato perfetto verde.
Il verde più nobile abbia mai visto.
Fronde fan da cornice.

Per ogni volta, talvolta, qualvolta.
In centro, il battito.
Primo piano, pian piano accelera.

E quello sguardo, tuo.
Ancora fronde, sugl'occhi chiusi.

Johanna Finocchiaro

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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