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Autore: Maria Gisella Catuogno
Ofelia
Romanzo
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Ofelia
Un'elbana alla corte dei Windsor.

La scuola di ricamo.

Cavo, Isola d'Elba, marzo 1939
Era una giornata d'inizio primavera, con il cielo più trasparente e profondo del solito, e un sole che prometteva di farsi presto caldo. Le ragazze della scuola di ricamo d'Ofelia, all'Ombria, erano più inquiete di sempre, con quell'ago tra le dita che non voleva saperne di scorrere velocemente e il punto a giorno, il giornino, che sembrava loro insopportabilmente noioso:
“Bimbe belle” le rimproverava la maestra con sguardo severo e alzando la voce “di questo passo a Natale siamo sempre qui! E invece sapete quante consegne abbiamo da fare! Maggio è il mese dei matrimoni...”, ma anche lei era irrequieta e con la coda dell'occhio, senza smettere di colmare con il suo punto pieno, fermo e sicuro, la ghirlanda di fiori disegnata sulla balza del lenzuolo che aveva in grembo, guardava quasi in colpa l'effetto delle sue parole: le ragazze più disinvolte avevano continuato con lo stesso ritmo, ma alcune, timide e orgogliose, erano arrossite per l'umiliazione e ora lavoravano di lena in silenzio. Ad un tratto la pace pomeridiana fu incrinata dal sibilo di un aereo di passaggio: dai vetri della finestra, dove le tendine erano state scostate per far entrare più luce e ritardare l'accensione della lampadina, tutte lo videro e vi tennero alzato lo sguardo finché non scomparve dal loro orizzonte visivo:
“Che bello dev'essere viaggiare tra le nuvole!” sospirò Angela
“Io avrei paura di cascare!” ribatté Anna
“Io chissà che darei per essere tra quella gente!” esclamò trasognata Alba
“Ragazze mie” intervenne allora Ofelia, ma con un timbro di voce caldo e conciliante, molto diverso da quello aspro di poco prima “faccio davanti a voi questa solenne promessa e previsione: anch'io un giorno volerò come i passeggeri di quell'aereo e andrò a conoscere il mondo! Il Cavo mi sta troppo stretto, la stessa Isola d'Elba mi soffoca... ricordatevi queste mie parole, bimbe mie! E ora lasciamo il ricamo e andiamo a salutare la primavera in arrivo. Non lo sentite come ci pizzica il cuore?”.
Con gridolini di gioia a stento trattenuti, tutte piegarono in fretta il loro cucito, sciolsero i lacci del grembiule e, precedute da Ofelia, si sparsero fuori, all'aperto, sotto il pergolato dove già la grande vite mostrava le prime gemme. Qui si trattennero una mezzora, cercando il sole sedute sulla murella che delimitava il contorno della piazzetta: erano molto giovani, alcune bambine, graziose pur nelle vesti modeste, a volte troppo corte per i loro corpi adolescenti, ma pulite, pettinate, dignitose. Le più grandi avevano voglia di confidenze e si rivolgevano a Ofelia sperando da lei qualche consiglio; le piccole le guardavano incantate, soggiogate dalla loro femminilità in boccio, dal seno valorizzato dai reggipetti che si cucivano da sole, e sospiravano che il tempo passasse veloce e anche loro potessero presto stringersi con le cinture il punto vita, mettersi il rossetto, disegnare con la matita l'arco delle sopracciglia, arricciarsi i capelli col ferro o con gli straccetti e parlare di fidanzati, di baci, di promesse.
A un tratto tutte diressero lo sguardo sulla strada perché stavano rientrando a casa i cavatori, dopo una faticosa giornata di lavoro cominciata all'alba: erano sporchi di polvere e di pirite, sul viso i segni della fatica e della stanchezza, in mano il pentolino vuoto che aveva accolto il convìo; ma quando videro quel gruppo di ragazze sembrarono illuminarsi e le salutarono con allegria e affetto, scambiando con loro qualche battuta e augurio per il resto della giornata. Poi le allieve a poco a poco sciamarono via e la maestra le accompagnò con lo sguardo finché non scomparvero dal suo orizzonte visivo: tra qualche anno molte di loro avrebbero avuto già la fede al dito e magari qualche marmocchio attaccato alle gonnelle; il principe azzurro, tanto vagheggiato leggendo i romanzi rosa di Carolina Invernizio e di Delly, si sarebbe dovuto adattare a vestire i panni dimessi dei giovani paesani, del minatore, del marinaio, del pescatore, del contadino, sicuramente meno raffinati degli affascinanti rampolli di quelle pagine divorate la sera a letto, quasi di nascosto, ma forse più di loro onesti e affidabili.
Solo le sognatrici incallite avrebbero sofferto del divario tra la letteratura e la realtà e sarebbero state eternamente scontente, le altre si sarebbero adeguate, con qualche sospiro, riuscendo a trarre dal matrimonio quello che di buono poteva dare: la sicurezza economica, seppure spesso modestissima, il rispetto della gente, l'onorabilità, i figli. Qualcuna non ce l'avrebbe fatta a coronare il suo sogno d'amore, per circostanze varie e sfortunate, e sarebbe rimasta zitella, parola e ruolo che tutte aborrivano, considerandola quasi sinonimo di disgraziata, anche se poi, nella loro minuscola realtà conoscevano donne sole che erano più colte, indipendenti e serene di tante coetanee sposate perché non correvano il rischio di essere picchiate da mariti maneschi o ubriaconi, di morire di parto, di generare troppa prole non desiderata. E lei, Ofelia, che nel crepuscolo marzolino ancora freddo e umido si abbandonava a quei pensieri, mentre Solana, di fronte, ancora si beava del tepore dell'ultima timida luce, a che categoria apparteneva? Aveva venticinque anni ed era presto per essere considerata zitella, però a quell'età tante sue amiche erano spose e madri o erano fidanzate ufficialmente: lei no, non lei, perché lei era difficile come dicevano i suoi, era diversa da tutte.

Ofelia in famiglia

E che fosse diversa lo si era verificato subito, fin dalla nascita, perché una neonata così bella non si era mai vista: un visetto perfetto dove spiccavano occhi grandi e ben tagliati, una boccuccia a cuore e la carnagione di luna. La puerpera si consolò subito del tremendo travaglio ed annunciò che avrebbe voluto darle un certo nome, di cui le piaceva il suono e il cui significato, come aveva letto nell'Almanacco dei Santi, significava colei che assiste, che aiuta.
“E che nome sarebbe?” indagò subito Isolina, l'ostetrica, mentre lavava nella tinozza di zinco quel corpicino appena staccato dalla madre
“Ofelia...” pronunciò in un soffio la mammina
“Ofelia... non è male” sentenziò la levatrice, notoriamente di gusti difficili “ma perché lo dici così piano? O non sei convinta o non hai abbastanza forze... e questo sì che mi farebbe preoccupare!”
“E' che la maestra mi ha detto che una certa Ofelia è impazzita perché il suo fidanzato, un principe, non la voleva più e lei si è annegata...”
“Mamma mia che storia tragica! Però che te ne importa? Se il nome ti piace e il suo significato è bello, mettiglielo pure, lo onorerà!” concluse trionfante Isolina che era una donna pratica, abituata a un mestiere difficile e non poteva perdere tempo in quisquilie.
E fu così che quella miniatura di bimba, che strappava baci e complimenti a tutti, quando la sua mamma orgogliosa se la portava a spasso per le vie del paese, si chiamò Ofelia. E fu l'orgoglio anche del babbo, lavoratore indefesso, cavatore di mestiere, ma all'occorrenza manovale, contadino, pescatore, adesso quasi incredulo che da lui e dalla sua sposa fosse uscita quella meraviglia. Di domenica, all'uscita dalla messa celebrata da Don Andrea, che veniva apposta da Rio Marina in bicicletta, per portare un po' di conforto e di luce spirituale a quella brava gente dei cavesi, lui diceva alla moglie di avviarsi a casa a preparare un po' di desinare e da solo, spingendo la carrozzina in cui la neonata dormiva beatamente, se n'andava giù, verso il minuscolo centro del paese, ad esibire il suo trofeo:
“Da quando ti è nata ‘sta figliola, sei proprio rincoglionito!” lo sfottevano gli amici, ma intanto gli facevano cerchio intorno per vedere quel fagottino.
Poi passeggiava sul lungomare, a respirare un po' di salmastro e a fare mentalmente progetti per rendere più comoda la piccola casa che aveva tirato su con le sue mani, mattone su mattone, insieme muratore, idraulico, falegname, tutto lui, perché non poteva permettersi altro: aveva solo le braccia per lavorare e tanta buona volontà. L'unico cruccio era non poter vedere il mare. Come gli sarebbe piaciuto, all'alba, quando s'alzava per avviarsi in miniera, aprire la porta e sentir respirare sotto di sé quella distesa immensa che cambiava umore da un giorno all'altro – come gli esseri umani – trascolorando dal buio fitto della notte alla liquida trasparenza del giorno, mentre il cielo si riempiva di una caligine chiara, che gli ricordava il latte che beveva da bambno, le perle della collana buona di sua madre, le vesti chiare delle donne, d'estate. Invece la sua casetta era all'Ombria, lontana almeno un chilometro dal mare e, come diceva il nome, poco corteggiata dal sole: l'ideale in estate, un tormento in inverno, quando la guazza penetrava fino alle ossa e la luce vera non si vedeva che a mezzogiorno. Ma ora aveva una famiglia, una bellissima famiglia, e quasi si sentiva in colpa d'ospitare nel cuore quel cruccio.
Gli anni erano poi passati in fretta e alla sua bambina aveva dato fratelli e sorelle, forse troppi per le loro modeste condizioni. Ogni volta che vedeva la moglie inquieta per il suo ciclo entrava in crisi, si faceva scuro in volto e silenzioso, le teneva il muso, quasi fosse solo colpa sua aver fatto di nuovo la frittata; inutilmente allora lei cercava di consolarlo, di tirarlo su, di rammentargli con orgoglio quanto erano belli i loro figli e assicurandogli che ce l'avrebbero fatta ancora una volta, che lei sarebbe andata a lavare i panni a domicilio, che la Provvidenza li avrebbe aiutati: lui si prendeva la testa fra le mani e giurava a lei e a se stesso di non toccarla più. Ma poi ci ricascava, perché quello era il solo piacere di una vita di fatica, di rinunce, di sacrifici, di ripetizione giornaliera degli stessi gesti. La mattina, la sveglia al primo sbadiglio dell'alba per entrambi, e mentre lei preparava il convìo – un pezzo di baccalà, un po' di ceci, un pugno di fagioli, raramente un po' di spezzatino – lui si lavava il viso con l'acqua gelata, si vestiva da lavoro e aspettava, sorseggiando un po' di orzo caldo, che i compagni gli facessero un fischio dalla strada; poi, tra battute e sfottò per sentirsi vivi e farsi coraggio, s'incamminavano tutti insieme per la strada buia e fredda, fino all'arrivo alla cava.
Allora – e sempre che non piovesse, perché in tal caso la paga della giornata era persa o quasi – a diventare padroni delle loro vite erano il piccone, le mine e le coffe per la raccolta del minerale grezzo; e poi erano necessari la selezione e il caricamento sui vagoncini di quel minerale ferroso, fino al suo trasferimento ai moli d'attracco dei lacconi, che lo trasportavano al largo, verso i bastimenti in attesa. E tutte queste operazioni sfiancanti avvenivano in un rumore incessante di voci, grida, ordini, risposte, bestemmie, preghiere, scherzi, risate, sospiri e lamenti, mentre il sole percorreva il suo arco nel cielo consolandoli d'inverno e bruciandoli d'estate e la terra brillava esibendo oscenamente le sue viscere rosse.
Sino al rientro serale, fatto sì di sollievo e di abbracci con la famiglia, ma anche di nuovo lavoro: il campetto, l'orto, la capra, qualche riparazione, un pizzico d'assistenza ai vecchi genitori. E finalmente un po' di cena, con i figli in intorno come tanti pulcini e la consolazione del letto e d'una donna a fianco. Era così che, oltre ad Ofelia, erano nati Bice, Natalina, Adina e Armando.
Gli anni passavano e i figli crescevano bene, preparandosi, pur nella chiassosa scompostezza dell'infanzia, ad una vita onesta e laboriosa, che si sarebbe snodata entro i solchi già tracciati dai genitori e dai nonni: un lavoro per sfamare la famiglia per il maschio, un fidanzamento con un compaesano per le ragazze, che sposandosi avrebbero avuto il compito di accudire la casa, concepire e partorire figli, e partecipare nei limiti del possibile all'economia familiare cucendo, ricamando anche per fuori – le mani di fata erano un dono di Dio! – e, nella peggiore delle situazioni, lavando i panni a domicilio per gli altri. Ma, tra i cinque, i genitori si erano presto accorti che c'era una sognatrice, che non si sarebbe accontentata di percorrere le medesime strade né di passare tutta la sua esistenza tra l'Ombria, Solana e Capocastello. Il padre purtroppo avrebbe dovuto rinunciare presto a riempirsi lo sguardo della grazia della sua primogenita, come della confusione gioiosa di tutti i suoi figli: quando Ofelia era appena adolescente e gli altri ancora bambini, chiuse gli occhi per sempre, stremato, seppure giovane, dalla fatica di miniera e da una salute che non era all'altezza delle sfide quotidiane, lasciando nella più nera disperazione la sua famiglia. Come sarebbero vissuti la vedova e i cinque orfani? Come avrebbero potuto vincere lo spettro pauroso della miseria?
Occorreva asciugarsi gli occhi e rimboccarsi le maniche, se volevano campare, e così fecero, a loro modo, tutti e sei, in proporzione all'età e alle forze; naturalmente, più di tutti, la mamma e la figlia più grande: la prima non risparmiandosi nell'accettare quel che capitava – lavori domestici nelle ville dei ricchi, che al Cavo non mancavano, specialmente d'estate – e la ragazza aprendo il modesto salotto della sua casa a chi volesse imparare a ricamare e organizzando una piccola ma efficiente scuola di cucito, che all'inizio aveva visto la presenza di due o tre bimbette volenterose, ma poi era decollata, ospitando fino a dieci allieve. Tanto che, ad un certo spunto, quando non c'era più spazio nemmeno per un gatto tra quelle sedie, e i gomiti si urtavano, Ofelia prese il coraggio a due mani e con l'aiuto della mamma trasformò in laboratorio, come lo chiamava lei, un locale piuttosto ampio a ridosso della casa che il babbo aveva costruito con le sue mani, come premessa, nelle sue speranze, di un ampliamento futuro della casa, che non ci sarebbe mai stato. Da quel giorno nella sua scuola la ragazza aveva già passato otto lunghi anni, educando al ricamo, al buon gusto e al galateo decine e decine di bambine. Ma ora, che le sorelle e il fratello erano cresciuti e il gelido spettro della miseria allontanato, Ofelia si sentiva sempre più impaziente di fare altro, di tentare la fortuna altrove. Ma come? Nell'attesa di un'occasione stava all'erta, con le orecchie, gli occhi, la mente e il cuore pronti a cogliere l'attimo, curando da autodidatta la propria educazione, tentando di imparare un po' d'inglese e un po' di francese, per spiccare il volo, chissà dove, e non trascurando di avere sempre un aspetto curato e gradevole. Del resto, ora che si trovava nel fiore della sua gioventù, era un'autentica bellezza, che si distingueva già al primo sguardo tra le ragazze del paese: portamento regale, lineamenti fini, corpo snello, eleganza disinvolta. Forse dipendeva dal fatto che si pettinava come le attrici, imitava i vestiti che vedeva su qualche rivista, si fabbricava da sola creme e profumi che non si poteva permettere, ascoltava alla radio non solo le canzonette, ma anche le trasmissioni più impegnate, e adorava leggere. E soprattutto non accettava che il suo orizzonte esistenziale dovesse esclusivamente coincidere con la speranza che un compaesano la corteggiasse, la sposasse, le facesse fare una nidiata di bambini e l'accompagnasse ad una rassegnata vecchiaia, senza che lei avesse mai conosciuto davvero quel che c'era oltre: oltre il Canale di Piombino, oltre la povertà, seppure dignitosa, oltre la mancanza di cultura, oltre una vita che il destino s'era già incaricato di scrivere al posto suo.

Maria Gisella Catuogno

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