Mi chiamo Giacomo, ho da poco compiuto trent'anni e l'unica cosa che so fare nella vita è raccontare storie. Il mio nome non mi è mai piaciuto, o almeno è così da quando da piccolo ho scoperto che se le gambe facevano giacomo-giacomo eri nella merda. Sono sopravvissuto fregando tutti: quello che era straniero pareva essere più figo e allora ho fatto in modo che gli amici mi chiamassero Jack. E così è successo. Ho un lavoro tranquillo come impiegato in una piccola azienda e di cognome faccio Alighieri: escludere del tutto la possibilità che il cognome abbia influenzato la mia vita mi viene davvero difficile. Ho una laurea in Economia Aziendale che incorniciata è buona per coprire un'infiltrazione di muffa sulla parete. Il muro da nascondere è quello del salotto del mio spoglio bilocale, preso in affitto in una zona malfamata ma non troppo della città, di quelle piene zeppe di palazzi dalle altezze tutte diverse, un po' grigi e un po' color mattone, con giardini semiabbandonati e senza troppi accoltellamenti. Sono single e non ho straripanti progetti all'orizzonte, lavorativi o sentimentali. Per una ragione che non so spiegare e non ho il coraggio di indagare, dopo i vent'anni, ho iniziato a prendere per buono quasi tutto quello che mi capitava. In pratica, ho iniziato ad accontentarmi. A scansare i problemi con abili quanto indolenti passettini laterali. Non ho mai dubitato che prima o poi sarebbero tornati per centrarmi in pieno.
Roberto mi chiama che sono le undici del mattino di un anonimo martedì. Rob è il mio migliore amico da una quindicina d'anni, vale a dire dai tempi delle superiori. Uno di quegli amici che agli inizi nemmeno si considerano, perché si è provenienti da pianeti diversi ma poi, per un caso fortuito quando ci si incrocia non ci si lascia più. Lo sbarco tra extraterrestri era capitato durante una festa in casa organizzata dal Monzio nella sua villa ai piedi delle colline; una festa in stile Tempo delle Mele, con succhi di frutta in bella mostra sul tavolo da mischiare alle bottiglie di Keglevich portate di nascosto. Luci spente e musica più adatta a piangere che a ballare. Erano bei tempi. Rob era lì, impalato a bordopista, cioè a bordo tappeto, inguainato in una camicia col colletto negli anni in cui, tra gli adolescenti, fanno ancora colpo i jeans strappati, le borchie o le magliette banali ma firmate. Troppo timido per attaccare bottone con le ragazze e troppo educato per calpestare il tappeto. E poi io, nell'altro angolo, quello bar, troppo annoiato per spendere energie nel tentativo di conquistare una ragazza. Credo di essere stato io a fare il primo passo e credo che Rob mi abbia accettato per sentirsi meno solo. Deve essere l'unico modo decente di sentirsi quando un terrestre dall'aspetto disgustoso e che puzza di vodka alla fragola ti si fa incontro porgendoti un dono conico. Non ricordo affatto cosa dissi ma rammento che parlammo molto, e più che aprirsi, Rob esercitò il proprio diritto di opinione su questa o quella canzone o ragazza, in una manifestazione pura del suo libero pensiero e perciò inattaccabile, almeno per me. Io, incredibile a dirsi, parlai meno, ascoltai sfoderando di tanto in tanto l'affilata arma del commento sarcastico, una memoria calcistica già allora ragguardevole e qualche piccola riflessione profonda e sensibile. Iniziammo a frequentarci, lui sempre impeccabile con la riga nel mezzo e le camicie chiare, io con le mie T-shirt, le scarpe comode e il carattere ringhioso. Contestavamo tutto, io lanciando oltre la staccionata la mia rabbia, lui aggirando gli ostacoli con grazia. Entrambi volevamo far ragionare i nostri coetanei, aprire loro gli occhi, ma usando due tecniche opposte, io prendendoli a schiaffi, lui convertendoli con una carezza. Dopo la maturità io mi sono infilato dritto dritto a sinistra, nel tunnel dell'Università, giusto per tergiversare ancora un po', mentre lui ha svoltato a destra, verso la porta blindata di una banca. Siamo rimasti amici, lui in giacca e cravatta e io, al massimo, con una polo Lacoste. Ora gestisce i miei risparmi, vale a dire quelle quattro lire che alla fine di ogni mese rimangono sul mio conto corrente. Una sua telefonata in orario lavorativo è più rara di un bambino albino in Nicaragua. Sono seduto al PC, mi alzo e mi allontano per rispondere. Di comune e tacito accordo saltiamo i convenevoli. Ha la voce agitata e mi chiede di raggiungerlo in filiale in pausa pranzo. - Ma per cosa? - provo a insistere. Adesso che non siamo più dei ragazzini, tra le qualità che gli procurano un certo successo con le ragazze non c'è il fascino del bel misterioso, che comunque con me non ha mai attaccato. - Non sono cose di cui parlare al telefono. - - Mi prendi per il culo? - - No. - Riappende. Non è nemmeno il tipo da fare scherzi. Sono moderatamente preoccupato. Preoccupato perché Rob è Rob e vive circondato da un alone di serietà, moderatamente perché non sono una persona che si fa prendere dall'ansia. Gli ultimi dieci minuti prima della pausa però sono un supplizio: l'occhio fugge di continuo sulla lancetta più lunga e non appena questa raggiunge una posizione vagamente verticale non ci penso due volte e me la squaglio. Il cielo è limpido e la giornata mite, di quelle che ti illudono che l'inverno sia ormai alle spalle una volta per tutte. Dalla periferia dove mi trovo io al centro dove lavora Rob ci metto poco, ma è trovare parcheggio il vero casino: vista l'ansia strisciante che questa situazione surreale ha creato fregandosene del mio carattere moderato, vado contro i miei più solidi principi morali e lascio la mia auto in un parcheggio custodito. Sarà l'amicizia o sarà che sto invecchiando? Preferisco non rispondermi. Varco la soglia della banca con la delicatezza di un rapinatore o di chi deve depositare un riscatto da un milione di dollari entro l'ora di chiusura. Rob mi nota subito, ma va detto che non è proprio un'impresa da aguzzate la vista della Settimana Enigmistica. Mi viene incontro con il suo metro e ottanta abbondante, capelli castano chiari e barba perfettamente rasata, il tutto reso ancora più curato grazie all'abito grigio e alla cravatta cremisi; ha un'eleganza naturale che io non avrò mai, nemmeno dopo un secolo di addestramento con il signorile Candelabro de La Bella e la Bestia. Nei suoi occhi, marroni, c'è però una tensione che io, con anni di allenamento alle spalle, ho imparato a evitare. - Troviamo un buco - mi dice. Lo seguo e dopo un paio di porte sbuchiamo in quello che, più che un ufficio, sembra un acquario: tavolo rettangolare nel mezzo e vetri su tutte le pareti. Di mangime non se ne vede e io ne avrei un gran bisogno: pagherei il corrispondente di un'intera giornata lavorativa per farmi togliere un pizzico di ansia da un bicchiere di prosecco. Rob mi fa segno di accomodarmi e mi porge dei fogli, il tutto senza dire una parola. Quindi incrocia le braccia all'altezza del petto. Lo guardo. - Dai un'occhiata. - C'è il logo della banca, il mio nome e tutti gli altri dati. - Be'? - Non ci vuole un genio per capire che si tratta del mio estratto conto, ma ammetto di non esser mai stato troppo bravo a concentrarmi con una persona che mi fissa. Diciamo pure che sono campione europeo di distrazioni facili. - Niente da dire? - - Sì, il saldo non torna. Mai avuto così tanti soldi. - Rob è sempre in piedi di fronte a me e scioglie le braccia conserte. - Mi prendi per il culo? Hai guardato attentamente solo la riga finale, come fanno tutti. - Fa un passo in avanti e punta l'indice sulla penultima riga. C'è un bonifico da cinquemila euro. Il numero di conto da cui proviene è coperto da asterischi. - Che cazzo è? - - Vuoi dirmi che davvero non ne sai niente? - - Cosa cazzo dovrei sapere? - Alzo un pochino la voce. - Te lo riassumo, così magari capisci meglio la situazione: ti arrivano cinquemila euro da un conto svizzero, non uno di quelli normali ma uno cifrato. Il bonifico è per te perché i dati anagrafici coincidono alla perfezione, io violo la legge e rischio anche il posto di lavoro per informarti, perché per certe cose dovrei fare una segnalazione e tu davvero mi dici che non ne sai niente? - Se fossi una di quelle persone che fanno yoga saprei rispondere con calma e ieratico distacco. Invece, in qualche posto dalle parti delle meningi mi si chiude una vena e quindi mi metto a gridare che non so una beata fava di quei soldi o di conti svizzeri ma che ho solo una fame della madonna. Un paio di colleghi di Rob alzano la testa dalle scrivanie sulle quali stanno mangiando delle insalate e anche il mio amico rimane un poco sorpreso. Probabilmente si aspettava una mia confessione, io che stressato dal segreto mi butto sul tavolo piangendo e scusandomi, spiego che è stato un periodo difficile e non ho potuto fare a meno di mettermi in uno di quei casini che ogni tanto, a intervalli regolari, combino. Ce ne stiamo zitti entrambi per qualche secondo, io a sbollire, lui con un vago senso di colpa. - E la causale cosa dice? - - È quella che mi ha insospettito di più: dice “Prestazioni del 28 febbraio 2014 e dell'11 marzo 2014”. Mi è sembrato tutto troppo specifico per essere un errore, capisci? - Per capire, capisco, anche se al momento sto cercando di mettere a fuoco nella mia testa il ricordo di quei giorni. Mi spremo le meningi, perché può anche essere che non siano stati giorni come tutti gli altri, ma non esce niente. 28 febbraio e 11 marzo: dove ero? Con chi? Che cazzo di prestazioni può aver fatto uno come me in Svizzera? - Ti giuro che non aspetto soldi da nessuno, tanto meno dalla Svizzera. - Roberto mi guarda negli occhi con quell'aria che ha lui di voler credere alla gente, la stessa con cui, in terza superiore, ha fissato la sua compagna di banco un attimo dopo essersi sentito dire un bel - Ti preferisco come amico. - Che bella faccia di merda, tra l'altro, la Staccioli. - Senti Jack, da quanto tempo ci conosciamo? Quindici anni? Non raccontiamoci palle: gli errori di versamento accadono ma non è questo il caso. Quei soldi arrivano da un conto svizzero, cifrato, roba per cui molta gente finisce nei casini. Casini veri, non che ti svegli in macchina, con il cellulare scarico e non sai dove ti trovi e come ci sei finito. Chiamandoti sono andato ben oltre il mio dovere e anche contro la legge, perché dovrei segnalare subito l'operazione come sospetta; quindi, ripeto, ti chiedo solo la cortesia di non mentirmi e ti giuro che farò il possibile per aiutarti. - - E io ti giuro che non so nulla davvero. Ci sarà un modo per saperne di più, no? - - Non è così semplice. - - Be', un cazzo di modo ci sarà, no? Tipo da chi arriva il bonifico, da quale banca... - - Ho già controllato, è una piccola banca svizzera, la filiale è quella di Zurigo. La data del bonifico è quella dell'11 marzo, due giorni fa. L'ordinante è anonimo, bisognerebbe sentire loro ma dubito che diano informazioni riservate. - Pausa. - Cosa hai fatto in quei giorni? - - Ci devo pensare. - Provo a tornare ancora indietro con la memoria, mi aiuto anche mettendomi una mano sulla fronte come farebbe un bambino di sei anni, ma non mi viene in mente nulla. Rob mi guarda per qualche secondo, poi rinuncia. - Va bene, allora sarà per forza un errore. Rimando indietro il bonifico come errore sperando che basti a evitare casini, ok? - - Certo. Ti ringrazio. - Annuisce, ci alziamo e mi accompagna all'ingresso. - Grazie ancora Rob. - Scrolla le spalle e ci salutiamo come sempre, anche se mi accorgo subito che la preoccupazione non gli ha lasciato del tutto lo sguardo. Vorrei poter dire che la cosa è normale e mi lascia indifferente, ma mentirei. Nessuna delle sue reazioni mi scivola mai addosso, forse perché rappresenta il mio esatto contrario, una sorta di modello di comportamento che non ho mai avuto la forza di seguire. Rob, con la sua rettitudine e la sua infinita comprensione è una cartina tornasole per la gravità delle stronzate che combino. Sbuco in strada sperando come non mai che quei benedetti cinquemila euro tornino a casa loro nel più breve tempo possibile, riportandosi indietro, cortesemente, anche gli imbarazzi generati. Cammino verso la macchina godendomi quello che resta dell'ora d'aria, con il sole caldo che rende bellissimi gli scorci illuminati e più accoglienti gli spezzoni di ombra. Studenti e uomini in giacca e cravatta affollano il marciapiede e incrociano le loro vite per pochi istanti, forse sperando di non crescere mai i primi e sicuramente cercando di trovare il modo per tornare indietro gli altri, entrambi certi, comunque, di essere destinati alla sconfitta. Mi infilo in un McDonald's e ordino un panino, le patatine e una Coca. Non voglio esagerare perché il tempo stringe e anche perché, facendo due conti, mi accorgo che venire in centro per farmi cazziare mi sta costando un po' troppo rispetto ai miei standard da pranzo in ufficio. È in questo momento, nell'attimo esatto in cui sto per addentare il mio paninazzo guardando un cinese enorme entrare nel fast food, che mi ricordo l'unica cosa un po' particolare dell'11 marzo, che mi pare fosse un martedì. Quel cazzo di scherzo dell'aeroporto. Come diamine ho fatto a non pensarci prima? Una coincidenza, per forza. E poi in che modo quella situazione può avere qualcosa a che fare con il 28 febbraio? Guardo l'orologio sul display del cellulare e capisco che devo davvero darmi una mossa. Cammino a lunghe falcate verso il parcheggio e tiro un paio di rutti notevoli. Nonostante l'assurdità di tutta la faccenda un brivido freddo si è insinuato lungo la schiena e ora me lo sento anche sullo stomaco, una specie di sottofondo mischiato con la Coca Cola ghiacciata. Guido verso la periferia chiedendomi senza sosta cosa ho fatto il 28 febbraio. La risposta arriva più tardi, davanti allo schermo del PC, e ovviamente solo dopo aver chiesto alla mia unica compagna d'ufficio se quel giorno, al lavoro, non fosse per caso accaduto qualche fatto particolare. Lei ha girato la pagina del piccolo calendario da scrivania e con la solita aria tranquilla che mi riserva chiede: - Ma il 28 non eri a Milano, a quel corso sulla sicurezza? - Perché non uso un'agenda, come tutte le persone normali? Quella prima, logica domanda è stata immediatamente soppiantata da altre riflessioni, ben più impattanti.
Simone Rocchi
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