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Autore: A.S. Twinblack
Un cuore nuovo
Romanzo Rosa
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Un cuore nuovo
- Signor D'Agostino, come ho già detto a sua moglie, purtroppo è arrivato il momento. Alessia dovrà fare il trapianto quanto prima. Non si può più rimandare - .
Io e Claudio ascoltavamo attentamente, seduti sulle due poltroncine di pelle nera davanti alla sontuosa scrivania del professor Macchi. Era una di quelle in legno massiccio con gli intarsi decorativi e dall'aspetto piuttosto pomposo. Il tono del professore, invece, era severo e solenne insieme. Metteva quasi soggezione, come tutto l'ambiente che lo circondava, del resto.
Il suo studio era situato al quinto piano di un elegante palazzo d'epoca in zona Ottaviano. Era molto silenzioso all'interno, a dispetto del traffico che invece scorreva intenso e rumoroso nella strada su cui si affacciava.
L'arredamento mi aveva colpito subito: mobili di antiquariato accostati con stile a pezzi dal design ultramoderno, quadri astratti - sicuramente d'autore - che spiccavano alle pareti e qua e là alcune sculture moderne che decoravano gli angoli di quell'ambiente raffinato.
Avevo già sentito quelle parole una settimana prima, quando portai nostra figlia presso il Policlinico, per il consueto controllo semestrale.
Gli accertamenti clinici erano sempre stati eseguiti lì. Da quando era stata accertata la patologia che affliggeva Alessia, il professor Macchi aveva sempre visitato la piccola nel reparto di Cardiochirurgia Pediatrica dell'ospedale, avvalendosi dell'equipe con cui lavorava.
Quel giorno, in via eccezionale, ci riceveva nel suo studio privato e per questo ero andata provvista di un bel po' di contante. Non avevo idea di quale potesse essere il suo onorario. Sapevo che era un professore molto noto per le sue capacità professionali, anche il suo curriculum metteva soggezione.
Gli avevo telefonato qualche giorno prima per avere un nuovo appuntamento, perché mio marito aveva bisogno di essere rassicurato e convinto sulla necessità dell'intervento, e io non ero stata in grado di fare nessuna delle due cose.
Dopo aver sganciato la ‘bomba', il professor Macchi tacque per qualche secondo, scrutandoci con attenzione, mentre noi restammo col fiato sospeso e il cuore in pena.
Non era facile assorbire la notizia, non era per niente facile. Un trapianto di cuore non è proprio una passeggiata e soprattutto non lo è fatto su una bambina di otto anni. E ancor di più se la bambina è tua figlia.
Macchi riprese a parlare, guardandoci, e con calma spiegò i motivi dell'urgenza dell'operazione e come sarebbe stata effettuata.
Ma non era me che doveva persuadere. Avevo sempre saputo in cuor mio che il trapianto sarebbe stato necessario, prima o poi. Desideravo per Alessia una vita piena e serena, come dovrebbe essere quella di tutti i bambini, ma per la mia piccola purtroppo non era così, perciò, anche se avevo paura, una fottutissima paura, non vedevo l'ora che le mettessero un cuore nuovo e potesse recuperare il tempo perduto.
Claudio, invece, era ancora lì a tergiversare, a fare domande, a cercare soluzioni alternative pur di non rischiare.
L'intervento si sarebbe potuto fare già molti anni prima e a quest'ora Alessia starebbe correndo, giocando a pallacanestro, come le piace, oppure ballando l'hip hop. Ma Claudio si era sempre opposto. Aveva preferito sperare, rimandare, anche perché all'inizio non ci avevano informati della gravità della situazione.
- Può vivere anche così, - ci disse il cardiologo che la visitò nell'ospedale dove fece il primo ricovero, a cinque anni, - solo con un po' di restrizioni - .
“Solo con un po' di restrizioni” significava come un'invalida, ma il dottore non lo aveva specificato. Ce n'eravamo resi conto da soli, col tempo, che Alessia non poteva fare alcuno sforzo. Correre e giocare come tutti gli altri bambini della sua età le era precluso, perché non doveva affaticarsi o stressarsi in alcun modo.
Avremmo anche accettato quello stile di vita limitato pur di non rischiare l'eventualità che potesse morire sotto i ferri. Sarebbe stata, però, una scelta egoistica da parte nostra. Molte volte ne avevo discusso con mio marito, per cercare di farlo ragionare, ma era sempre stato irremovibile.
“Chi ti dice che non potrebbe guarire”, questa era la frase che mi ripeteva sempre.
Lui aveva fiducia nei miracoli e io mi ero lasciata convincere. Lo avevo seguito nei pellegrinaggi, negli incontri di preghiera, a fare meditazioni... e a cosa era servito? Ora non c'era più tempo. Ora bisognava intervenire, altrimenti Alessia sarebbe scomparsa dalle nostre vite lasciando un vuoto tremendo.
Claudio amava Alessia e la paura di perderla lo rendeva incapace di fare scelte giuste e opportune. Tuttavia, ora il problema della scelta non esisteva più. Ora, a quanto pareva, non c'era più via di scampo.
Guardai con attenzione in viso del professor Macchi. Lui posò lo sguardo prima su di me e poi su mio marito, continuando a parlare, ma dopo qualche minuto smisi di seguirlo. Il mio pensiero volò da un'altra parte, tanto la mia decisione l'avevo già presa: Alessia avrebbe fatto il trapianto di cuore.

* * *

Il fiume di ricordi che il professore mi aveva suscitato – la settimana prima - facendomi il nome del dottore che avrebbe operato nostra figlia, riprese a fluire.
Immagini nitide iniziarono a scorrere davanti ai miei occhi come fotogrammi di un vecchio film.
Mi ritornò in mente l'angolo del cortile antistante l'istituto Dante Alighieri, quello dove era piantato un grosso tiglio, probabilmente l'unico sopravvissuto dei molti messi a dimora durante una festa dell'albero di tanti anni prima.
Lì, sotto la folta chioma e col profumo dei fiori che ci stordiva, ci eravamo baciati per la prima volta, nascosti agli sguardi indiscreti degli altri che si erano già allontanati per entrare in classe. Eravamo restati abbracciati ancora per qualche minuto. La voglia di stare assieme era incontrollabile, intensa, e poco il tempo a nostra disposizione.
Finalmente avevo sentito il sapore delle sue labbra, la pressione della bocca di lui sulla mia... quanto avevo desiderato quel bacio!
Era primavera inoltrata, una primavera tiepida per il clima, ma bollente per i nostri giovani corpi desiderosi di scoprirsi, di esplorarsi.
Lui mi aveva appoggiata delicatamente al grosso tronco e lentamente si era avvicinato alla mia bocca. Percepivo la mia pelle come arsa dal sole, quasi fossi sotto il solleone, mentre invece c'erano, forse, appena diciannove gradi. Mi sentivo una povera stupida, ero imbarazzata. Non è che non avessi mai baciato nessuno, ma non l'avevo mai fatto con un ragazzo che mi piacesse come mi piaceva lui.
Lui era sempre al centro dei miei pensieri, dei miei sogni. Per un anno lo avevo osservato da lontano senza avere il coraggio di rivolgergli la parola.
Lo avevo notato subito, dal primo giorno in cui avevo messo piede nel mio istituto. Era bello, forse uno dei più fighi della scuola e seduceva le ragazze senza neppure rendersene conto. Lo chiamavano “faccia d'angelo”. A me dava l'impressione che fosse un lupo travestito da agnello, altro che angelo.
Ciò a cui non si poteva assolutamente resistere di lui era il sorriso. A parte il fisico atletico e gli occhi verdi, il sorriso era quello che stendeva tutti, e metteva KO anche i professori. Lui stesso mi raccontò che in diverse interrogazioni era riuscito a evitare l'insufficienza proprio grazie al suo sorriso disarmante.
Insomma, mieteva cuori a tutto spiano e mai mi sarei aspettata che notasse proprio me. E invece era accaduto, era stato lui a farsi avanti ed era proprio me che stava baciando.
Non appena la sua lingua aveva iniziato a roteare e a giocare con la mia, mi ero sentita mancare. Lui aveva sorriso e mi aveva sorretta con le braccia forti. Di certo lui aveva già baciato, e anche più di una volta. Si vedeva che aveva esperienza. Per me invece era il mio primo vero bacio. Non ero mai stata con un ragazzo prima di allora, non una cosa seria, almeno. Roberto e Marco erano state solo delle cotte innocenti, senza contatti fisici, dei fidanzati sulla parola.
Pensavamo di esserci sottratti a occhi spioni e invece il giorno dopo, tutto l'istituto sapeva che ci eravamo baciati. Erano state due compagne di classe di lui, le più stronze, a vederci e a far sapere in giro ciò che sarebbe stato meglio mantenere segreto.
Infatti, dopo qualche mese la notizia arrivò anche all'orecchio di mia madre che se ne risentì non poco, quando le confessai di avere un ragazzo.
- Hai solo quindici anni. Sei ancora troppo piccola per queste cose - disse. - Ora devi pensare solo a studiare e a divertirti come tutte le ragazze della tua età. Poi verrà anche il tempo per il fidanzato - .
Ma troppo piccola per cosa? Per amare? Ma se l'era scordato la mamma come si amava a quell'età?
A quell'età è: o tutto o niente. A quell'età l'amore è totalizzante, simbiotico con colui che ti prende il cuore. È un sentimento intenso e per te eterno, è il momento del “non ci lasceremo mai”, del “ti amerò per sempre” anche se è senza radici, e nella maggior parte dei casi ha vita breve. Molte delle mie amiche, anche più piccole, avevano già un ragazzo, qualcuna non era neppure più vergine.
Io non facevo nulla di male, non quel male che intendevano gli adulti. Lui mi toccava, certo, e cercava di toccarmi anche lì, ma lo fermavo sempre. Mi creava molto imbarazzo farmi sfiorare le parti intime, soprattutto tra le gambe. Mi piaceva molto, tuttavia qualcosa mi frenava, non riuscivo a lasciarmi andare. Lui sbuffava ma senza farmi pressioni. Però questo a mia madre non lo avevo raccontato. Le dissi che ci piacevamo e basta, e che non stavamo insieme proprio come due fidanzati. Era solo una bambinata, insomma.
Le cose invece stavano in tutt'altro modo. Io ero innamorata persa e anche lui era molto coinvolto. Se avessero provato a separarci sarebbe stato proprio come dividere un cuore a metà, causandoci una sofferenza atroce.
Poi mia madre aveva voluto sapere chi fosse questo pseudo-fidanzato, e quando avevo pronunciato il suo nome, lei era andata su tutte le furie. Mi aveva minacciata che se non avessi smesso subito di frequentarlo mi avrebbe rinchiusa in un collegio e non mi avrebbe fatto mettere piede in paese neppure per le vacanze scolastiche.
La sua reazione esagerata mi ferì. Non replicai e scoppiai a piangere. Ebbi paura che mi separasse da lui. Lei era proprio fuori di sé.
Così da quel giorno iniziai a raccontarle un mucchio di bugie.

* * *

Il professor Macchi continuava a parlare. Come sottofondo ai miei ricordi sentivo Claudio che gli rivolgeva una domanda dietro l'altra. Era nel panico. Lui era sempre nel panico quando si trattava di Alessia.
Anch'io non mi sentivo più così forte. Non riuscivo più a fronteggiare l'ansia e nemmeno l'angoscia che mi serpeggiava dentro.
Guardai di nuovo verso la finestra grande che, aperta dietro le spalle del professore, offriva la vista sui palazzi antichi della bella città di Roma. Era lì che si era trasferito lui alla fine del liceo...
La mia mente evase di nuovo e tornai a tutti quei luoghi in cui ci appartavamo per baciarci di nascosto, prima di entrare in classe.

* * *

All'uscita di scuola l'appuntamento era fisso e l'albero di tiglio restava il nostro posto preferito, il luogo in cui consumavamo il nostro amore. In effetti non è che facessimo molto, ci scambiavamo solo dei baci, lunghi baci dati con una frenesia addosso che non riuscivo a spiegarmi e nemmeno a controllare.
Ricordavo lui che mi toccava dappertutto, ogni tanto invadendo quelli che gli avevo messo come confini, ma appena avvertiva il mio disagio, si fermava subito.
Un giorno però, preso da un maggior impeto, mi confessò, mentre mi baciava sul collo: - Voglio fare l'amore con te Flavia. Voglio averti - .
Non risposi, non a parole almeno. Fu il mio corpo a farlo al posto suo. Un calore intenso m'avvolse e un languore si diffuse nel ventre. Era una sensazione di frustrazione dolorosa che allora non capivo ma che col tempo imparai a identificare come struggente desiderio, voglia di unirsi all'altro per nutrirsi di piacere, di amore fisico.
Le mani di lui correvano frenetiche sul mio corpo e si strinse ancora di più, aderendo a me completamente. Muoveva il bacino, sfregandosi sulla mia pancia e avvertivo la sua erezione dura, quasi da farmi male. Pensai che il suo gesto fosse inconsapevole, che non si accorgesse di strusciare sfacciatamente il suo sesso contro di me.
In verità, che si trattasse del suo membro reso turgido dall'intensa eccitazione lo capii solo tempo dopo, così come capii che il suo sfregare non era affatto inconsapevole, bensì la ricerca istintiva di un piacere carnale. Allora avevo sentito solo qualcosa di marmoreo che mi premeva contro. Pensavo fosse la cintura dei suoi pantaloni ma un dubbio mi sovvenne quando una volta, avvertendo la stessa dura pressione, mi accorsi che lui invece indossava la tuta da ginnastica. Ero ancora molto ingenua e non sapevo cosa accadesse ai ragazzi quando si eccitavano e neppure cosa accadesse a me.
Un giorno ebbi la brillante idea di chiedere lumi alla mia compagna di classe, ripetente, che era seduta davanti al mio banco; mi sembrava la più sveglia per quelle cose. Le riferii il fatto, come se fosse accaduto a una mia amica e non a me, e quella era scoppiata in una grassa e sonora risata.
- Flavia Pacelli! Che frana che sei, non sai manco riconoscere un cazzo! Ahahah, una cintura... roba da matti - e aveva continuato a ridere sguaiata.
La stronza aveva pure gridato il mio nome e cognome, per essere certa che tutti capissero bene a chi si stesse riferendo.
- Ma non è successo a me - avevo ribattuto con veemenza, sperando di essere convincente e mettere, così, rimedio alla colossale figura di merda che stavo facendo. Ero mortificata.
- Sì certo, non è successo a te... come no. - E quella giù a ridere di nuovo.
La sentirono tutti nell'androne dell'istituto dove eravamo radunati per la ricreazione. Era dicembre, ma io ero diventata rossa come un cocomero ad agosto. Ero arrabbiata con quella stronza, perché mi stava mettendo in ridicolo, e anche con me stessa. Ero proprio un'imbranata e una stupida. Mi pentii di non essere stata zitta. Tutti mi guardarono incuriositi. C'erano anche le compagne di classe di lui e di certo stavano facendo le loro deduzioni.
Lui, invece, per fortuna quel giorno era assente altrimenti sarei proprio morta dalla vergogna.
Avrei voluto scappare via, ma preferii restare per poter contenere il disastro che quella cretina stava combinando. Grazie a Dio, la campanella dell'inizio delle lezioni suonò. Tutti rientrarono in aula, e io dietro di lei.
- Ahahah, una cintura... -
La perfida aveva continuato a ripeterlo a bassa voce per tutta l'ora, voltandosi di soppiatto verso di me per essere certa che la sentissi. Mi limitai a farle la linguaccia, due o tre volte, e poi m'imposi di non darle più importanza, perché più me la prendevo più lei faceva peggio. Le avrei fatto inghiottire, volentieri, l'astuccio dei colori che tenevo sul banco, a quella brutta stronza.
Da allora, comunque, non le chiesi più nulla. Andai a documentarmi da sola, su qualche rivista o da amiche meno ingenue di me ma fidate. Con quella spocchiosa non ci parlai più, ma quell'oca giuliva aveva continuato a guardarmi sempre con un sorrisetto malizioso e non si era risparmiata di rivolgermi una battuta delle sue.
* * *

- Professore ma è sicuro che non potrebbe continuare solo con le medicine? Staremo attenti a farle fare uno stile di vita che non la metta in pericolo - . Le parole di Claudio mi facevano arrabbiare.
D'accordo, era preoccupato, legittimamente angosciato, ma ravvisavo solo dell'egoismo nel suo voler continuare a tenere nostra figlia in una condizione di disagio fisico quando, invece, ci sarebbero state forti possibilità che potesse avere una vita normale come tutti.
Non era facile decidere. Chi avesse osservato la situazione da fuori, forse avrebbe avuto difficoltà a capire e magari avrebbe pensato che fossi una mamma sconsiderata, incosciente, e invece no. Io amavo mia figlia, l'amavo così tanto da volere che fosse nelle condizioni di vivere e non sopravvivere semplicemente. Volevo che partecipasse alla vita in tutti i modi che desiderava e non che guardasse quella degli altri da dietro i vetri di una finestra chiusa.
Ogni tanto il mio orecchio veniva catturato dal tono agitato di Claudio, e allora appositamente tornavo a estraniarmi. Riandavo con la mente a quegli antichi vissuti che, infrangendo le barriere dello spazio e del tempo, si presentavano ora in maniera intensa.

* * *

Lui era stato il mio primo vero ragazzo, quello che avevo amato fino a sentire un forte dolore dentro, al solo pensiero che avrebbe potuta lasciarmi. Anche lui mi amava, me lo ripeteva in continuazione, ma facevo fatica a credere che uno come lui, cui le ragazze molto più belle di me facevano il filo spudoratamente, avesse scelto proprio una insignificante come Flavia Pacelli.
Maledetta insicurezza. Fu proprio per colpa della mancanza di fiducia in me stessa se dopo un anno la nostra storia finì.
Da come mi sentivo in quel momento, però, non sembrava affatto che fosse finita. Era bastato sentire il professor Macchi pronunciare di nuovo quel cognome, che ero ritornata indietro di trenta anni. Avevo avvertito lo stesso languore di un tempo alla bocca dello stomaco, uno struggente desiderio.
In quel momento la mia bambina sarebbe dovuta essere una priorità nei miei pensieri, e invece la testa era piena solo di lui. Mi sentivo una pessima madre per questo.
Tutti potrebbero pensare che lo fossi e non avrebbero tutti i torti. Alcuni me lo direbbero pure, di vergognarmi, se non in faccia, di certo dietro le spalle come fa spesso certa gente, quella che è così brava a puntare il dito sugli altri... loro invece tutti santi sugli altari, tutti di sani principi.

* * *

- Professore, è certo che andrà tutto bene? Che non ci sarà la benché minima complicazione? -
Il professor Macchi doveva essere per forza un santo se aveva tutta quella pazienza a spiegare più volte le stesse cose, visto che mio marito continuava a ripetergli le medesime domande. La voce di Claudio tradiva tutta l'ansia bestiale che stava provando in quel momento. Avrei dovuto comprenderlo, provare pena per lui, invece mi innervosiva, perché riusciva a contagiarmi con la sua angoscia.
Sentivo già il respiro che aveva difficoltà a fluire. Un peso sul petto mi impediva di respirare normalmente. In verità avevo la morte nel cuore, da quel maledetto giorno in cui mia figlia Alessia si sentì male per la prima volta. Erano tre anni che combattevo contro la paura, il panico... da quel giorno maledetto, quando nostra figlia svenne a scuola.
Avevo stampato un sorriso sulla faccia, sempre pronto per tutti, anche per Claudio, ma quando ero certa che nessuno mi vedesse, allora piangevo tutta la mia disperazione.
Avevo paura. Avevo paura di perderla. Lei era la mia piccolina, la mia vita.
- Sì, non si preoccupi - replicò Macchi, - il dottor Lamberti è molto preparato, l'ho detto anche a sua moglie la settimana scorsa, quando venne per il controllo - .
Claudio si voltò verso di me a cercare conferma a quelle parole, ma io mi girai velocemente verso destra. Feci finta di prendere un pacchetto di fazzolettini dalla borsa. Tirai su col naso per rendere ancora più credibile la mia simulazione. Tanto un po' di raffreddore ce l'avevo per davvero.
Non volevo incrociare gli occhi di mio marito perché avrebbe capito che mi sentivo in difetto. Volutamente gli avevo nascosto il nome di chi avrebbe dovuto eseguire l'intervento. Non sarei stata in grado di parlare con disinvoltura di lui.
In quel momento mi sentivo una pessima moglie oltre che una pessima madre.
- Come ha detto che si chiama questo dottore? - chiese di nuovo mio marito tornando a guardare il professore.
- Lamberti, Diego Lamberti - .
Mi soffiai il naso una, due volte.
Claudio fece una faccia sorpresa e il professore replicò: - Lo conoscete? -
Il professore si girò a guardarmi, attendendo una risposta.
La volta precedente quando aveva pronunciato quel nome, non avevo battuto ciglio, ma dalla mia parte avevo la scusante che la notizia ricevuta era stata troppo traumatizzante per dirgli che...
- Ma non avevi un amico al liceo che si chiamava così? - domandò mio marito voltandosi del tutto verso di me e costringendomi a partecipare alla conversazione.
Il naso aveva smesso di colare. I fazzoletti non mi servivano più. Mi girai e li rimisi in borsa. Cercai di attardarmi ancora. Diedi un colpo di tosse, rovistai per cercare una caramella...
Mi resi conto di essere veramente ridicola e di non poter continuare ad andare avanti con quella farsa.
Allora mi voltai e, serafica, gli risposi: - Beh... in effetti c'era un ragazzo al liceo con questo nome, ma non credo si tratti di lui. Non era uno a cui piacesse molto studiare - .
- Ma sì, era il Natale di nove anni fa. Ci incontrammo a quel concerto in cattedrale e due sere dopo andammo a cena. C'era anche la moglie. Ci disse che si stava specializzando in cardiochirurgia - replicò Claudio con tono sempre più convinto.
Mio marito era sicuro della data perché proprio il giorno in cui avevamo incontrato Diego, aveva ricevuto la comunicazione che per l'anno nuovo avrebbe iniziato a lavorare per l'azienda dei trasporti regionale.
- No, non mi ricordo e comunque non credo sia lui. Si tratterà di un caso di omonimia - dissi con noncuranza.
Sapevo benissimo, invece, che il dottor Lamberti, quello che avrebbe operato Alessia, era proprio quel Diego Lamberti, il ragazzo che mi baciava sotto il tiglio, nel cortile della scuola. Lui, il mio primo amore.
Claudio sembrava scettico, ma non insistette. Era un uomo intelligente e il suo cervello, sotto sotto, avrebbe continuato a lavorare e mi avrebbe chiesto di nuovo di Diego. Per il momento, però, lui tornò a interrogare il professore e io a viaggiare nei miei ricordi.

A.S. Twinblack

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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