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Autore: Maria Carla Mantovani
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Un fascio di luce entrava dal finestrone della sala giorno illuminando fiocamente la mano di Greg. L'aria condizionata non funzionava come avrebbe dovuto e le tapparelle erano tirate in modo da riparare il più possibile il salone dal caldo sole estivo, ma, con tutte quelle persone nella stanza, l'afa si faceva ogni minuto più insopportabile. Era pieno di gente: un'atmosfera caotica confrontata agli altri giorni della settimana. Era domenica e i parenti venivano a fare visita agli ospiti, ma Greg non aveva mai ricevuto una visita da quando era lì. Mentre faceva scorrere lo sguardo sulla sua carne flaccida che strabordava dai tubolari metallici della sedia a rotelle, pensò che non aveva bisogno di visitatori piagnucolosi: contemplare la luce che colpiva la sua mano rugosa era davvero piacevole... a cosa servivano tutti quei rumori e tutte quelle persone petulanti quando poteva osservare quel bellissimo raggio di sole?
Non riusciva a definirlo, sembrava un déjà-vu. Ricordava di essere stato a un tavolo a prendere decisioni importanti: tutti attendevano il suo responso, tutti contavano su di lui e ascoltavano la sua opinione... Se quegli stupidi infermieri avessero saputo chi era lui, non lo avrebbero trattato in quel modo, come una specie di bambino incapace di decidere per la sua vita. Non gli avrebbero detto cosa o quando mangiare, quando andare a dormire... Aveva avuto una vita prima di quella triste vecchiaia, una vita in cui era una persona importante di cui la gente aveva considerazione, anzi, ne era certo, la gente, quando lui era ancora in forze, faceva carte false per avere la sua di considerazione. Non ricordava nemmeno di essere invecchiato; ricordava soltanto di essere stato all'apice e poi poco altro... una donna riccia dagli occhi nocciola che gli sorrideva, un gruppo di persone attorno a un tavolo che gli portavano rispetto. Rispetto, autentico rispetto per lui e per le sue capacità.
Il ricordo di quella sensazione era così bello da fargli male al cuore.
Ma era successo davvero? Greg a volte pensava che fosse accaduto soltanto nella sua mente, una fantasia o il ricordo di un sogno. Eppure, ogni volta che osservava il suo corpo, appoggiato come un pupazzo su quella vecchia sedia, immaginava che il vero Greg fosse stato al di fuori di quel corpo, a qualche metro da lui, a osservare disgustato e malinconico quella specie di carcassa umana. Quella non era la sua vita, non gli apparteneva. Ma più si sforzava di ricordare, più si rendeva conto che del passato, di quel glorioso passato che sicuramente aveva avuto, non aveva altro che flash, immagini e sensazioni, la principale delle quali era l'assoluta convinzione di essere stato altro da quella creatura irrilevante che era diventato.
Non era la sola emozione che provava però: da quando era stato ricoverato lì (Greg non era sicuro di quanti anni fossero passati) le infermiere avevano cercato di coinvolgerlo in centinaia di attività per quello che loro definivano ‘mantenersi lucido': dipingere, qualche gioco da tavola, infilare perline, intrecciare braccialetti... Nessuna di queste attività che gli proponevano lo interessava. Soltanto scrivere gli dava sollievo. Tuttavia era fin troppo ottimistico definire ‘scrivere' ciò che faceva; si limitava a coprire i tovaglioli con qualunque sostanza trovasse, sugo, pastelli, addirittura il suo stesso sangue una volta, con un'unica magnifica scritta: L219E2655K21. Provava un piacere soave nello scrivere quei numeri e lettere, in quel preciso ordine. Greg non aveva la più pallida idea di cosa volessero dire, ma guardare quelle forme su un tovagliolo, sulle lenzuola o sullo specchio gli procurava un'immensa soddisfazione: quando le scriveva era quasi certo che quell'immagine che aveva di sé stesso nel passato non fosse uno scherzo della sua mente. Quando osservava quelle lettere era davvero sicuro di essere stato giovane.
Ovviamente nessuno sapeva di questa sua segreta passione. Greg era molto attento a non lasciare alcuna traccia di questa sua passione: stracciava i tovaglioli dopo averli scritti, ripuliva lo specchio dopo averlo imbrattato... quegli orribili infermieri non meritavano di godere della bellezza di quella splendida successione di lettere e cifre.
Il suo sguardo si posò sul programma della domenica: Greg si chiese come mai le volontarie della casa di riposo s'impegnassero tanto nel preparare ogni settimana un programma diverso, quando poi accadevano sempre le stesse identiche cose. La minestrina che mangiavano a pranzo era sempre con la pasta a forma di stelline, c'era sempre una fetta di formaggio magro e dei grissini, dopo il riposino sempre il pomeriggio con i parenti. Greg odiava essere preso in giro da quei finti programmi speciali, non era ancora così rincretinito come loro credevano... tuttavia, quel giorno aveva avuto la possibilità di scrivere le sue lettere e i suoi numeri su un vero pezzo di carta. Aveva addirittura usato una penna, l'aveva rubata alla reception. Per un istante rimase a contemplare l'opera: era troppo bella per distruggerla. Per la prima volta aveva addirittura voglia di condividerla con qualcuno. Greg ci mise qualche secondo a rendersi conto di avere il battito accelerato e il respiro affannato: era eccitato per qualcosa, erano anni che non gli capitava una cosa simile.
“Ehi, che bel programma! Perché io non ne ho uno...?”
Una voce nervosa che spiccava nel chiacchiericcio della sala lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò per vedere a chi apparteneva: non molto lontano da lui c'era una donna di non più di trent'anni. Quella sua giovinezza gli faceva montare una rabbia... avrebbe voluto strapparle dal volto tutta quella freschezza e prenderla per sé. Fece un lungo respiro per calmarsi: era sempre stato collerico, o almeno era convinto di esserlo sempre stato, e forse era per questo che nessuno andava a fargli visita.
“Cosa ha detto che fa all'aeroporto, giovanotto? Come ha detto di chiamarsi?”
Un'altra voce poco lontana lo costrinse di nuovo a voltarsi. La signora Duvall, come lui ospite della struttura, stava parlando con un uomo. Accanto a lei, la signora Sanders, completamente partita con la testa, si limitava a fissare il vuoto. Greg non aveva mai stretto amicizia con gli altri anziani, anzi provava repulsione per quella gente; un paio di volte si era addirittura convinto che le pillole che gli davano lo rendessero ancora più misantropo.
“Derek! Mi chiamo Derek. Gliel'ho già detto, non lavoro all'aeroporto,” rispose stancamente quello. “Faccio il giornalista. È per questo che le ho portato tutti questi giornali,” aggiunse con un sorriso incerto. “Li vede anche lei, Signora Sanders.”
La Sanders non pareva nemmeno averlo udito e restava catatonica a rimirare il tavolino tra loro.
“Ah...” la signora Duvall, invece, sembrava piuttosto delusa. “Peccato perché quello all'aeroporto era un bel lavoro.”
Il giornalista era un bel lavoro, rifletté Greg. Questo Derek era forse l'unica persona nel suo mondo che potesse aiutarlo nel dare un senso a quei numeri... a tutta la sua vita, o almeno a quel poco che ricordava. Greg strinse i denti e cercò di alzarsi; mise tutta l'energia che aveva nelle braccia ma tutto ciò che riuscì a ottenere fu di farsi venire un forte male ai polsi. Fece un secondo tentativo ma, dopo aver fatto un altro sforzo, ebbe il forte sospetto di essersela fatta addosso.
“Prendi...lo,” biascicò tendendo la mano verso il ragazzo.
Aveva parlato: si sentì strano dopo che le parole furono uscite dalla sua bocca e dopo averci pensato un secondo si rese conto di non ricordare l'ultima volta che l'avesse fatto. Questo mise in allarme un infermiere che cominciò a osservarlo preoccupato.
Il giovane Derek comunque lo stava ignorando, impegnato a tentare di comunicare con la vegetativa signora Sanders.
“Ti... prego.”
Greg tese di nuovo la mano verso il giornalista, ma si rese subito conto che era inutile. Era in un angolo e la sua voce era troppo lieve per poter superare il frastuono della sala. L'infermiere che lo aveva notato si consultò con un altro e cominciarono ad avvicinarsi; il suo cuore a quella vista cominciò a battere freneticamente. La vista gli si annebbiò, la bocca tutto a un tratto si fece secca e Greg seppe con certezza che in quelle condizioni non sarebbe stato più in grado di emettere alcun suono. In quel momento però una strana consapevolezza lo raggiunse: anche se era ridicolo, era certo che ci fosse qualcosa dentro di lui programmato per farlo stare male se avesse cercato di passare quelle lettere a qualcuno. Perché poi? Perché a lui? Greg sentiva il cuore martellargli in petto, l'aria gli mancava, ma con le ultime forze fece l'unica cosa che gli sembrò sensata in quell'istante: gettò il pezzo di carta lontano da sé.
Sentì gli infermieri lamentarsi di doverlo spostare; non che dovessero fare un grande sforzo, osservò Greg, accasciato sulla sedia a rotelle che veniva portata via. Gettò un ultimo sguardo sulle persone che lo guardavano attonite e si rese conto che la giovane con la voce fastidiosa si era chinata per raccogliere il suo programma. Avrebbe voluto avvertirla, spiegarle quanto tutto quello fosse importante per lui, ma continuò solo ad agitarsi di più mentre la sua tachicardia lo faceva sentire nel bel mezzo di un terremoto.
Dopo alcuni minuti una dottoressa dall'aspetto familiare entrò nell'infermeria in cui era stato accompagnato, aprì un cassetto di medicinali e gli preparò una flebo con molta calma. Greg continuava a respirare a stento, con un dolore alla tempia divenuto insostenibile, si convinse che stava avendo un infarto. Ma perché quella donna non si sbrigava? Gli pareva fosse la dottoressa della clinica, ma non ne era del tutto sicuro: si sentiva confuso e l'aria gli mancava, così tanto da fare fatica a pensare.
“Lo sai?” disse la donna avvicinandosi a lui, una siringa in mano. “Desideravo farlo da almeno sei anni.”
La dottoressa iniettò con una siringa un liquido nella flebo, che ne colorò di un arancione smorto il contenuto. Il medicinale arrivò in pochi secondi al braccio di Greg. Immediata come era iniziata, la tachicardia cessò e di colpo si sentì molto più tranquillo e rilassato: non riusciva nemmeno a ricordarsi per cosa si fosse così esaltato; dopo poco si addormentò sereno.
Non si risvegliò mai più.

Maria Carla Mantovani

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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