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Autore: Ottavia Papa
Il silenzio del sole
Romanzo Distopico
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Il silenzio del sole
Una folata d'aria calda e il sole meridiano abbacinante.
Roxana non lo ricordava così spietato. Dopo tre settimane di oscurità, la radiazione intensa le risultava insopportabile. Schermò lo sguardo con la mano, nonostante indossasse gli occhiali protettivi. Rimase immobile. Silenzio, intorno. A poco a poco le cose riacquistarono contorni definiti. Risalì gli ultimi gradini della rampa e uscì all'esterno. Era in un'area ampia, deserta. Sotto gli stivali scricchiolava uno strato appiccicoso e ostinato di sabbia che ricopriva l'asfalto irregolare e butterato, costellato di buche e solcato da fenditure. A qualche decina di metri di distanza si ergevano vecchi edifici sventrati, mai ricostruiti dopo la Guerra Devastatrice. Crollati i muri esterni dei palazzi, era visibile la struttura portante dei piani, i soffitti da cui pendevano muti fili elettrici, le pareti degli appartamenti recanti ancora tracce di una vita domestica: un quadro, delle suppellettili rotte. In strada si aggirava qualche cane randagio alla ricerca di cibo tra l'immondizia in fermentazione, da cui si levava un odore nauseabondo. Tra i rifiuti abbandonati, si riconoscevano carcasse di pneumatici di gomma, scheletri di masserizie inservibili. Era il ghetto recintato dal Muro, la zona dei Condizionati, dove le autorità di Ylan non esercitavano alcun controllo del territorio ed erano i criminali locali a imporre la loro legge.
La ragazza scrutò nelle vicinanze per vedere se vi fosse un riparo. Uno degli edifici recava ancora la porta al piano terra. Raggiuntala, constatò che era ancora abbastanza integra. Con circospezione girò la maniglia che cedette, ed entrò con la pistola in pugno. Non c'era anima viva. La scala interna che portava al piano superiore era crollata, là non poteva esserci nessuno. Decise di fermarsi a riposare. Era esausta, dopo il viaggio di ritorno in superficie, cominciato quando la notte non era ancora terminata. Si guardò attorno: un vecchio tavolo, delle sedie rotte e un materasso sporco sul pavimento di cemento grezzo. Roxana stese la coperta che aveva portato con sé sul materasso, vi si sdraiò e si addormentò. Dormì più a lungo di quanto avrebbe voluto. Quando si svegliò era il crepuscolo. Terminò l'acqua e divorò le due barrette proteiche che aveva portato di scorta. Agitò lo zaino nella speranza che vi fosse rimasto del cibo: niente. Doveva cercare di raggiungere le porte del muro, dove si trovavano gli accessi al resto della città controllati dalle guardie e chiedere aiuto. Non poteva rimanere nel ghetto, anche se ripresentarsi alla polizia dopo tre settimane di assenza sarebbe stato problematico. Che versione raccontare degli eventi accaduti? Di essere stata l'unica della squadra scampata al crollo, di essere stata catturata dai reietti, infine di essere riuscita a liberarsi? L'avrebbero messa sotto torchio per estorcerle informazioni sulla comunità degli orfani che, presto o tardi, avrebbero usato contro di loro. Ma a questo avrebbe pensato in seguito, sempre che fosse riuscita a tornare viva dai suoi superiori. Attese il calare della notte.
Con altrettanta prudenza di quando era entrata, uscì dall'edificio che per poche ore era stato il suo rifugio. Se possibile, il buio era più fitto e denso di ostilità di quanto non fosse l'oscurità sotterranea della vecchia metropolitana. Sospesa a ogni rumore, anche il più impercettibile, come il latrato di un cane in lontananza o il sibilo del vento tra le orbite vuote degli edifici, si muoveva rasente ai muri degli edifici spettrali, tesa a cogliere ogni più debole segnale di presenza umana. Doveva procurarsi dell'acqua, del cibo e cercare di intuire l'itinerario per le mura. Giunta a un piazzale, si fermò. Guardinga, scrutò nelle tenebre. Intuiva altri edifici a circa una cinquantina di metri. Corse veloce al primo palazzo. Si fermò ansante. Ascoltò il silenzio. Avanzò ancora di alcune decine di metri. Sulla destra una porta sventrata. Si introdusse nell'edificio, attese, accese la torcia. Il locale dove si trovava doveva un tempo essere stato un emporio, c'erano ancora dei banconi ricoperti da polvere scura. Roxana camminava tra gli scaffali, per la maggior parte rovesciati a terra. Qualche frammento di vetro rifletteva la luce. Lì non avrebbe trovato nulla, il negozio era stato saccheggiato da decenni. Tornata nei pressi dell'uscita, spense la torcia ̶̶ non poteva rischiare di essere individuata e inoltre era necessario risparmiare energia ̶̶ e continuò a camminare seguendo la parete della costruzione. A qualche metro dalla fine del muro, vide uno spiazzo illuminato dal bagliore rossastro di un fuoco e, attorno a esso, simili a ombre, degli emarginati che parlavano tra loro una lingua sconosciuta, una cantilena strascicata. La ragazza si fermò, col cuore in gola. Retrocesse fino all'angolo dell'edificio e si diresse verso destra, lungo un porticato. Attraversò la strada e raggiunse il palazzo di fronte.
L'entrata del complesso era priva di porta. Roxana trattenne il fiato, avanzò a tentoni, inciampò. Alla debole luce della pila vide un primo locale dove per terra si trovavano cinque materassi, coperte, indumenti abbandonati, delle scatole per alimenti aperte e vuote. Attigua una seconda stanza dove si muoveva qualcosa di lucido e nero: scarafaggi. Era il riparo di qualcuno, in quel momento assente. Meglio muoversi, prima che gli inquilini tornassero. Mentre stava per andarsene, notò una bacinella piena d'acqua. Aveva sete e, nonostante l'istintivo ribrezzo, la bevve accostandovi direttamente le labbra. Percepì dei passi che si avvicinavano e dei bagliori di torce. Doveva nascondersi. Si rintanò nel locale più interno. Due uomini parlavano animatamente tra loro, i suoni duri diventarono concitati. Roxana si accovacciò, si sporse di poco, vide che uno dei due ghermiva con le mani una scatola di cibo, di quelle che venivano distribuite ai poveri che esibivano la tessera annonaria agli addetti inviati dal governo nei punti di distribuzione vicini alle mura. L'altro scagliò la torcia che teneva in pugno. La pila scivolò verso Roxana che si ritirò nascondendosi all'interno della stanza. La ragazza sentì il sibilo di un coltello, il rumore della scatola che cadeva e rotolava. Poi uno, due colpi. Un grido. Un terzo colpo, lo stramazzare di un corpo, dei rantoli. Il vincitore, affannato, raccolse la scatola, la torcia e se andò. I passi si spensero nella notte.
Roxana, scossa, raggiunse la vittima. L'uomo, un anziano dalla barba incolta e ispida, portava al collo una piccola luce che rischiarava gli occhi chiari spalancati sul nulla. Roxana si inginocchiò accanto al corpo e gli chiuse gli occhi. Mentre si rialzava, per caso vide spuntare dalla tasca della giacca insanguinata del morto una tessera annonaria. La estrasse e guardò l'immagine digitale sovrimpressa. Era il volto di una giovane donna dai capelli scuri e gli occhi verdi. La foto era un po' danneggiata. Forse il vecchio aveva utilizzato il documento della figlia deceduta. Capitava abbastanza di frequente che i familiari degli aventi diritto al sussidio non denunciassero la loro morte. I poliziotti addetti alle distribuzioni spesso lasciavano correre, anche se avevano dei sospetti, o per pietà, o per disinteresse. Controlli e censimenti dei Condizionati non erano così scrupolosi. Nascere e morire nella zona C per molti derelitti rimaneva un oscuro mistero. Roxana prese la tessera e con circospezione uscì per strada.
A ovest il cielo era di un buio profondo, ma a est si tingeva di blu. Ben presto all'orizzonte un impercettibile baluginare annunciò il regredire della notte. Roxana, delusa dalla sortita notturna, doveva trovare un riparo prima dell'alba. Tra due edifici di maggiori dimensioni, uno più ampio, che recava una targa di pietra dove era ancora leggibile la scritta in capitale maiuscola “Comando dei Vigili Urbani”, e l'altro costituito da un vecchio condominio fatiscente, quasi incastrato dietro a una cancellata, Roxana scorse la facciata di un fabbricato più basso, recante al centro un piccolo rosone al di sotto del quale si aprivano tre porte, più alta quella centrale in corrispondenza del fiorone. Ripensò a delle immagini che aveva studiato alla scuola clandestina. Un'antica chiesa medioevale. Era la prima volta che ne vedeva una dal vivo. Non pensava che ce ne fossero ancora. A una leggera pressione, la cancellata si aprì. La ragazza avanzò tra le erbacce ed esaminò le entrate di legno marcio. La porta di sinistra aveva le ante tenute chiuse da una corda fissata alle maniglie. Roxana sciolse il cordone ed entrò.
La chiesa era a una navata. Nessuna traccia dell'altare, né di panche per i fedeli. Sconsacrata da parecchio, era stata riconvertita. Ciò spiegava perché i guardiani della rivoluzione zhaoista non l'avevano distrutta. Rimanevano ancora alcuni banconi, armadi con registri. Dalle finestrelle entrò la luce bianca dell'alba a illuminare la parete destra. Uno strato di intonaco aveva ricoperto l'ampio affresco sottostante, ma ne era visibile ancora una porzione. Emergeva il viso dolente della Madonna e la figura di San Giovanni. Più in alto rimaneva un frammento dell'ala variopinta di una di quelle creature chiamate angeli. Come avrebbe desiderato potere avere le ali e volare via! Akilah e Vasile non erano mai stati in una chiesa vera. Che emozioni avrebbero provato? Padre Gheorghe le avrebbe risposto che sono i fedeli a essere le pietre vive della Chiesa.
Roxana avvertì dei rumori provenienti dallo stabile vicino. Si precipitò all'entrata della chiesa, chiuse la porta dall'interno riutilizzando la corda e restò in allerta. Sentì delle persone uscire dall'ex comando e passare davanti al cancello esterno della chiesa. I passi si allontanarono. Che fare? Senz'acqua né cibo non avrebbe resistito, la ricerca della notte precedente era stata rischiosa e non aveva avuto alcun esito. Con il passare delle ore il via vai sarebbe diventato più intenso, tanto valeva farsi coraggio. Fuori tutto tranquillo. Risistemò la corda all'esterno come l'aveva trovata e d'un balzo fu di nuovo sulla strada.
Camminava con passo spedito ma senza correre, con i vestiti che Felipa, Azeeza, Conchita e Salma le avevano regalato: un paio di pantaloni scuri attillati, una canotta e una vecchia blusa di un tessuto sintetico di pessima qualità. Quel che restava della tuta termica con cui era discesa nella metro era nella bisaccia ̶̶ una sacca sdrucita che aveva barattato con lo zaino della polizia ̶̶ con gli occhiali da sole, e le armi. Non doveva indossare nulla che potesse farla identificare come abitante fuori zona, tanto meno come poliziotta.
La gente cominciava a uscire dalle case. Alcuni uomini si avviavano in piccoli gruppi. Dalle tute grigie, marroni e nere, Roxana capì che erano lavoratori che si avviavano alle mura dove avrebbero trovato i mezzi di trasporto che li avrebbero condotti ai luoghi dove svolgevano le mansioni più semplici o pericolose: necrofori, impiegati ai servizi mortuari alla Torre della Memoria, addetti allo stoccaggio dei rifiuti e delle scorie, alla derattizzazione e al contrasto alla proliferazione di insetti. Altri prestavano la loro manodopera nelle serre di stato, o nelle colonie extraurbane come addetti alle carceri.
La ragazza li seguì e ben presto giunse in prossimità del muro del ghetto dove c'erano i poliziotti che, controllati i permessi di uscita dei lavoratori pendolari, li avrebbero caricati sui mezzi. Non conosceva nessuno di essi, temeva di accostarsi per chiedere aiuto. Sapeva che erano gli agenti peggiori a essere destinati a quel servizio. Se non l'avessero creduta? L'intera vicenda poteva risultare molto sospetta, soprattutto a impiegati violenti, ottusi e pigri. Nel data base della polizia Roxana Mandelli risultava di certo deceduta. Era sporca, dimagrita, con dei vestiti consunti e in tasca la tessera annonaria di un'altra persona. Avrebbero controllato l'archivio anagrafico e le avrebbero attribuito l'identità di quella giovane donna sconosciuta. L'avrebbero perquisita, trovato le armi e quel che restava dell'equipaggiamento da poliziotta, incriminata per furto e magari anche di omicidio. Solo ora Roxana comprendeva quanto assurda e paradossale fosse la sua situazione. Certo, poteva fornire i nomi dei suoi superiori, istruttori, chiedere il controllo della retina e delle impronte digitali, ma prima di poterlo fare sarebbe stata picchiata, tradotta in carcere. Avrebbe dovuto spiegare in modo esaustivo e convincente la sua prolungata permanenza presso gli orfani.
Così preferì allontanarsi dai posti di blocco e girellare nelle vie adiacenti. Sentì delle donne imprecare contro la Repubblica perché dalle condutture non arrivava l'acqua. La fascia oraria di erogazione spesso non era rispettata dalle autorità. Per tenere in stato di sudditanza quella gente, si ricorreva all'odiosa misura della sospensione. Poco più avanti, in fila davanti a una fontana pubblica, una cinquantina di abitanti della zona si accalcavano con taniche e recipienti improvvisati. Roxana proseguì e vide dei ragazzini lerci giocare nelle strade con i rifiuti. Non erano numerosi i bambini nella zona C. Roxana sapeva che lì, nel ghetto, c'erano i discendenti dei vinti, coloro che si erano opposti ai soldati della rivoluzione. La giovane si appoggiò al muro pericolante di un edificio, scivolò a terra e si sedette. Rifletteva sul fatto che anche l'ultimo degli Ergasiani si sarebbe potuto considerare un privilegiato rispetto ai Condizionati. In preda a un profondo sconforto, restò inerte per l'intera giornata.
- Alzati - . Roxana si sentì afferrare e scuotere per un braccio. Si riscosse dal torpore e sollevò lo sguardo. Era una donna all'apparenza anziana. La ragazza ne osservò la mano ossuta e grinzosa, dalle unghie sporche.
- Fra poco c'è la distribuzione serale. È ora di mettersi in fila - , sorrise con la bocca sdentata. Roxana, frastornata, non capiva.
- Hai fame anche tu. Vai a prendere il cibo. Attenta alla tessera - . I piccoli, lucidi occhi neri ammiccavano nell'intrico delle rughe sul volto dell'anziana.
L'adolescente si accorse che la donna aveva adocchiato il rigonfiamento in corrispondenza della tessera annonaria all'interno della tasca. Si alzò con lentezza.
- Non mangio da un giorno - .
- Ti darò un po' del mio cibo - , le promise Roxana.
La vecchia deglutì, gli occhi le brillarono di animalesca soddisfazione.
- Vieni, ragazza, vieni con me - , la prese per mano e la accompagnò al centro distribuzione del cibo allestito sotto il muro perimetrale del ghetto, vicino a un ospedale prefabbricato in cui andavano a morire i malati del quartiere. Giunta in prossimità, le indicò davanti a quale padiglione era preferibile che si mettesse in fila.
- Là il personale è meno cattivo. Ti aspetto qui. Non ti dimenticare di me - , disse remissiva, sperando che la giovane non venisse meno alla promessa.
Roxana si mise in coda con gli altri. I Condizionati che avevano un lavoro o diritto a un sussidio per la collaborazione al progetto di contenimento delle nascite ricevevano una tessera annonaria con cui riscuotevano la quantità di cibo e acqua a cui avevano diritto. Davanti alla ragazza c'erano alcuni degli uomini che aveva visto recarsi al lavoro all'alba, e delle giovani donne. Attendevano il proprio turno con pazienza, senza parlare, a capo chino. Roxana si chiese se fosse vero che nell'acqua distribuita ai Condizionati vi fossero disciolte delle sostanze che inducevano alla passività e sottomissione. Arrivato il proprio turno, l'adolescente, che aveva conformato il proprio atteggiamento alla remissività come tutti gli altri, esibì la tessera. Nessuno si accorse della mancata corrispondenza di identità. La ragazza prese la bottiglia d'acqua e la razione di cibo: zuppa di verdura liofilizzata, gallette di farina di alghe, magmeal. Allontanatasi di pochi metri, venne raggiunta dall'anziana che veniva a riscuotere quanto promesso. La donna estrasse da sotto la lunga ampia veste nera un piatto, un cucchiaio piegato e una tazza sbeccata.
- Da quando mio marito è morto, non ho più nessuno che mi dia da mangiare e sono troppo vecchia per lavorare - . Sembrava che ci tenesse a farlo sapere alla ragazza.
- Non hai figli? - , chiese Roxana.
Mentre sorseggiava la minestra, l'altra fece segno di no con il capo. - Ne avevo uno, ma è morto da piccolo. Avrei fatto meglio a partecipare al progetto di riduzione delle nascite del governo, almeno ora potrei mangiare. Lo stato dà un bonus alle donne che si sottopongono di propria volontà alla sterilizzazione. Ho capito subito che non sei di qui - . Roxana sussultò. - Tranquilla, non ti preoccupare. Non ti tradirò. A patto che tu mi dia un po' del tuo cibo. Che dici? Ci stai? - , la ricattatrice la fissava divertita con i piccoli occhi penetranti e la bocca lucida di grasso di crema proteinica.
- D'accordo - , rispose Roxana. Non si fidava di quella donna. Le aveva ispirato da subito un misto di ribrezzo e di pietà.
- Domani sera al solito posto dove ti ho trovato oggi? - .
- Nello stesso posto - , rispose la ragazza.
- Attenta alla tessera. Nascondila meglio. Qui si uccide per molto meno - .
Roxana rimase incerta se tornare alla chiesa o cercare un altro riparo per la notte nelle vicinanze. La situazione si faceva sempre più critica. La zona adiacente al muro era quella che le era sembrata più popolosa e abitata da famiglie di lavoratori, meno a rischio di violenze e criminalità. Sarebbe stato più sicuro rimanere lì. Era però maggiore il rischio di venire individuata come una non residente e denunciata per una razione di cibo in più. La vecchia che aveva un accordo con lei forse non l'avrebbe tradita per non rinunciare a un pasto sicuro, ma gli altri? Decise quindi di tornare alla chiesa, cercando di ripercorrere lo stesso percorso del mattino. Ma, dopo poco che camminava, vide davanti a sé, in fondo alla via, un branco di cani randagi. Terrorizzata, svoltò in una traversa in fondo alla quale camminavano verso di lei due ceffi all'apparenza ubriachi. Non voleva confrontarsi con loro, un corpo a corpo era da escludere, gli spari della 92 FS le avrebbero messo alle calcagna gli scagnozzi del capo della zona. Sgattaiolò in un vicolo adiacente, cercò di ritrovare la giusta direzione, si infilò in una stradina, sbucò in un vicolo cieco.
Si era persa.
Il sole stava tramontando e alla base delle costruzioni sventrate l'aria si raddensava già fredda e scura. Mentre tornava indietro, sentì un vociare. Sembrava un gruppo abbastanza numeroso. Se quegli uomini avessero imboccato la viuzza, non avrebbe avuto scampo. Gettò la borsa con la pistola d'ordinanza dietro a un cumulo di rifiuti una frazione di secondo prima che la marmaglia svoltasse nel vicolo.

Ottavia Papa

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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