La baionette nemiche luccicavano alla luce rossa del sole appena sorto e sembravano fiamme o saette, le bocche da fuoco dei fucili erano neri occhi carichi di piombo pronti a fulminarci. Le maschere antigas degli uomini che ci prendevano di mira nascondevano i tratti umani conferendo loro sembianze di mostri di un altro mondo. La mitraglia in cima alla torretta era pronta a vomitare raffiche a un minimo accenno di resistenza da parte nostra a supportare le baionette e i fucili. Un nuovo giorno era nato; ne avevamo visto l'alba e l'aurora, ma non ci saremmo potuti godere il tramonto. Per noi erano riservate soltanto due alternative: non vivere o morire, bensì perire con onore o senza. Le morti eroiche appartenevano ai miti antichi, a romanzi di cappa e spada o poemi epici. La guerra moderna era soltanto un macello senza gloria. In quegli attimi, davanti alla scelta su come terminare la mia esistenza e quella dei miei compagni di sventura, il tempo sembrava scorrere lentissimo. Quella strana sensazione mi donò una breve eternità che dedicai a ricordare gli avvenimenti che mi avevano portato a quella situazione, in quel luogo e insieme alla gente con cui stavo condividendo gli ultimi attimi da vivere. Ricordi vecchi di soltanto un paio di settimane affiorarono e io li rivissi, attimo dopo attimo...
Il motociclista indossava l'uniforme della Regia Marina. Ancora una volta il mondo moderno si confrontava con l'antichità di Monte Erice, come per ricordare a quell'oasi pervasa dalla divina magia di ben tre dee dell'amore che da qualche parte infuriava una guerra. Immaginai Venere, Afrodite e Astarte invisibili ed eterne indignarsi disturbate dal rumore del motore del cavallo meccanico che arrancava sulla ripida stradina. Il marinaio a cavalcioni del veicolo tanto terraiolo era un intruso su un monte, molto più vicino al cielo, nonostante il panorama del regno di Nettuno fosse a portata di vista dal balcone di casa. Il promontorio a forma di falce che ospitava i due porti di Trapani si stendeva, a chilometri di distanza, apparentemente piccolo e quasi afferrabile con una mano, a ricordarmi ogni giorno che io appartenevo a quella distesa blu; qualcosa dentro me, tra la speranza e il timore mi sussurrava che forse il centauro vestito di mare era diretto al mio indirizzo. Il rombo del motore si fece sempre più forte e insistente fino a che la motocicletta si fermò davanti al cancelletto. Lasciai il balcone, camminai a passo svelto lungo il corridoio, mi allacciai la camicia e scesi le scale mentre udivo il battacchio. Assunsi un'aria degna del mio grado e aprii la porta. Davanti a me si ergeva un sottufficiale di Marina che brandiva una busta. Ciò che mi mise sul chi va là non fu il fatto che qualcuno a Roma avesse scomodato un corriere graduato per consegnarmi chissà quale missiva personalmente, ma l'espressione dipinta sul volto del giovane messaggero; quella di chi ha avuto istruzioni sull'importanza e soprattutto sulla segretezza di quel pezzo di carta e cercava di tenerla nascosta senza riuscirvi. – Tenente di vascello Salvatore Pizzi? – chiese mettendosi sull'attenti. – Sì – annuii, aggiungendo: – Riposo. Il giovane restò sull'attenti e osò ribattere: – I miei superiori esigono una conferma sulla vostra identità; scusate, questi sono gli ordini Deglutì, cercando di celare l'imbarazzo. Sorrisi esibendo i documenti che portavo sempre in tasca, anche quando, come quel mattino, vestivo in borghese. Con un'aria più rilassata, l'uomo mi consegnò la busta e un foglio di carta, un calamaio e una penna. Firmai la ricevuta che portava lo stemma della Regia Marina. L'aria di mistero sul volto del Mercurio a motore con le ruote ai piedi restò sul giovane volto sul quale lessi anche una pervasa soddisfazione, come se avesse appena concluso una missione con successo. Era la fantasia che mi portava a immaginare e desiderare chissà che cosa? Solo perché qualcuno a Roma anziché scomodare le Regie Poste spediva un galoppino graduato a comunicarmi l'ennesimo rifiuto alle mie richieste in carta bollata? Ne avevo collezionate a decine. ”Tenente, siamo spiacenti di annunciarle che...” e, sotto, qualche scarabocchio e un timbro con la corona che significava che nonostante le mie referenze e partecipazione alla ”gloriosa impresa” il ruolo di comandante era rimandato alle calende greche. Il graduato salutò, fece dietro front e rimontò come un antico araldo sulla sua cavalcatura, che in breve si allontanò scoppiettando lungo la strada che lo avrebbe riportato nel luogo cui apparteneva, dove l'odore del mare era più intenso di quello del profumo dei giaggioli e dei fiori di mandorlo. Attesi ad aprire la busta, rimandando l'ennesima delusione a minuti più tardi. Mi prodigai mentalmente a disinfettare la ferita prossima ventura meditando sulla bacheca appesa al muro contenente le medaglie testimoni di glorie passate e le fotografie di gruppo assieme all'equipaggio dello Squalo, a bordo del quale avevo prestato servizio prima del congedo. Per me la guerra era finita in gloriuzza e la vita comoda mi aspettava, nella torre d'avorio su quel monte. Un futuro di ricordi senza neppure figli o nipoti a cui raccontare epiche imprese. La sensazione spiacevole di incompletezza, un romanzo incompiuto, un'opera interrotta, un dipinto non terminato. Guardai la parete dove le fotografie di Santa e Vincenzo sembravano guardarmi: le cornici erano finestre dall'aldilà dalle quali le persone che avevo amato di più si affacciavano. Giovani vite stroncate anzitempo dalle Parche assassine. Mi versai un bicchiere di Marsala e mi sedetti sul divano. Non appena mi sentii preparato aprii la busta Esistono nella vita attimi in cui, quando la fiamma della speranza sembra ormai spenta, una brace ancora rossa può riappiccare fuoco a contatto con un pezzo di carta. Quel pezzo di carta scaturito dalla busta scatenò un incendio. Lapalissiano: un postino in bicicletta è messaggero di cattive notizie in nero su bianco, ma un uomo di mare in moto non poteva farmi nuovamente affondare nell'oceano della delusione. Lessi la missiva che laconicamente mi fece capire che le mie annose richieste erano state accettate. Seguivano informazioni sul luogo d'imbarco e una intrigante allusione a ulteriori istruzioni che sarebbero state date al momento della consegna. Il vecchio lettore di romanzi d'avventura assopito stava risvegliandosi nel vedere, a caratteri cubitali, quasi fosse stato un essere vivente, il nome del natante che avrei finalmente comandato.
Argo.
Il nome prometteva tutto, rimandando ad antiche leggende di navigatori, appellandosi ai sognatori di avventure quale ero stato un tempo. Classe Medusa. Quarantacinque metri di lunghezza, quattro di larghezza, due motori diesel FIAT, capace di procedere in immersione grazie a motori elettrici Savigliano. Completato sei anni prima, nel 1912, nei cantieri navali FIAT San Giorgio di La Spezia. Il sogno diveniva realtà. Il Ministero della Difesa me lo stava presentando a due passi da casa, nel porto settentrionale di Trapani, snello, metallico e micidiale. Consegna a domicilio, avrei potuto affermare, anche se con amarezza dovevo ammettere che il grande sogno di comandare un sommergibile arrivava alle soglie dell'alba. La lunga notte bellica che tutti ormai definivano come La Grande Guerra stava giungendo al termine. Ben poco avrei potuto operare contro gli Imperi Centrali in procinto di crollare. Qualche siluro per colare a picco flotte moralmante ormai già affondate, o forse noiose pattuglie a fare il cane da guardia a colpi di coda austroungarici o tedeschi. Quello che non riuscivo ancora a capire era come mai, dopo ben quattro anni di insistenze, solo ora mi era riservato il privilegio di diventare comandante della nuova arma chiamata in termini tecnici ”torpediniera sommergibile” Mi affacciai alla finestra mentre la brezza degli ultimi giorni del settembre siciliano mi baciava presentandomi nuovamente il panorama della falce del promontorio come fosse stata una carta nautica immaginandoci una croce sul porto dove finalmente avrei preso possesso del naviglio a me affidato. Il leone assopito sembrò risvegliarsi. Fantasticai immedesimandomi nel titano che secondo la leggenda aveva scagliato la gigantesca falce sulla terra trasformandola nel promontorio che aveva dato il nome alla città, che in greco significava appunto ”falce”. Il mare sembrò salire a monte, a chiamarmi. Ero pronto a rispondere accorrendo. Guardai le fotografie di Vincenzo e Santa. Che possiate essere orgogliosi di me, pensai, lanciando un messaggio in un'altra dimensione pregando che venisse ricevuto. Le tre divine protettrici di Erice sembrarono benedirmi. La clausola della lettera era laconica ma chiara. Avevo tempo fino a sera per prendere la decisione se accettare il comando del sommergibile che implicava la partecipazione a un'operazione di guerra classificata della quale non avrei dovuto far menzione ad alcuno.
Paolo Ninzatti
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