Anno 1998, scuola primaria di Gjesvᴂr, contea di Finnmark, Norvegia settentrionale.
Alcuni scolari giocano all'aperto durante la ricreazione. Uno di essi se ne sta in disparte, come al solito; è abituato ad essere escluso. I compagni si fanno beffe di lui chiamandolo “femminuccia”, perché porta sempre al collo, giorno e notte, una catenina d'argento in cui è infilata una piccola moneta bucata da una corona. Ma questo non è l'unico motivo per cui si accaniscono; esiste un fattore fisico: il labbro leporino. I ragazzi non accettano le diversità e non perdono occasione per deriderlo. Dal suo angolo, egli li guarda con odio. Un giorno mi vendicherò. Mi prendete in giro, bastardi, voi che avete un fisico normale e una madre che vi attende a casa, mentre io non ho né l'uno né l'altra. Me la pagherete. Il suo cuore è gonfio di rabbia contro il mondo. Se potesse, lo incenerirebbe con lo sguardo. Si chiama Marius Dahl. Va d'accordo con uno solo dei compagni, l'unico che non si burli di lui e lo tratti come un ragazzo normale. In un giorno sereno della breve estate, i due amici giocano a rincorrersi; la giornata è fresca, ma splende il sole e l'aria è così nitida che si distinguono chiaramente i lembi delle isole intorno al porto. Marius confida il suo segreto all' unico amico, a lui e a nessun altro. “Mia madre è annegata due anni fa” reprime un singhiozzo. “Ė caduta dalla barca in un giorno di mare mosso. Sapeva nuotare, ma non ce l'ha fatta. Alcuni, nel villaggio, dicono che si sia buttata di proposito, ma non farci caso, sono bugie; a lei piaceva vivere e non si sarebbe mai suicidata. Mi diceva sempre di essere felice, perché la vita è un'avventura da vivere intensamente. Uno che la pensa così non si uccide. Quando hanno ripescato il corpo, le hanno trovato addosso una catenina. Da allora me la sono messa al collo e non me ne separo più, neanche quando faccio il bagno. Ero molto infelice, ma questo piccolo oggetto mi ha fatto stare meglio; è quasi come avere ancora mia madre vicina e riesco perfino a parlare con lei.” L'amico lo fissa, incredulo, colpito e nel contempo lusingato di essere stato scelto per certe confidenze, che attirerebbero il ludibrio degli altri ragazzi; ascolta con estrema serietà, giurando a se stesso di non farne parola con nessuno, e manterrà la promessa. L'estate finisce troppo presto e in breve l'inverno avvolge la Norvegia settentrionale col suo buio gelido. Giorno dopo giorno, trascorre la parte più cruda della stagione; il periodo in cui il sole non sorge mai è finalmente terminato. Ė una tarda mattinata di fine febbraio, la luce è tornata a illuminare gli animi, anche se per poche ore al giorno. I due ragazzi giocano a colpirsi con pezzi di neve indurita dal freddo. Ridono, corrono per evitare i proiettili, e non si accorgono di essersi inoltrati in una zona pericolosa. Sono sulla superficie ghiacciata di un laghetto. In un tratto lo strato è sottile e cede all'improvviso sotto i piedi scalpitanti di Eivind. Senza avere il tempo di capire che cosa stia accadendo, il bambino sprofonda nel gelido morso dell'acqua sottostante, che gli blocca il respiro. I polmoni paralizzati e affamati di ossigeno, annaspa disperato, cercando di attaccarsi ai bordi ghiacciati per risalire, ma questi si sbriciolano al contatto delle sue dita. Terrorizzato, ormai quasi rassegnato a morire, sentendosi mancare le forze, sta per affondare, quando vede, come una visione, sporgere qualcosa vicino alla sua testa: un bastone bianco. Marius gli tende un remo. Si aggrappa con le poche energie residue, risvegliate dal primordiale istinto di sopravvivenza. Marius, che si trova bocconi sul ghiaccio, ha difficoltà a fare presa, pur premendo con le punte degli scarponi sulla superficie e, nello sforzo di tirare fuori l'amico, slitta sempre più verso l'apertura; con fatica sovrumana riesce nel suo intento, ma fatalità vuole che, quando l'altro finalmente riemerge, egli scivoli a sua volta nel buco. Giungono sul posto alcune persone, attirate dalle grida; anche Marius viene portato in salvo, ma non così prontamente, e non ne esce bene. Eivind trema come una foglia, è fradicio e semi congelato, ma respira ed è cosciente. Marius, invece, ha smesso di respirare. Sembra un cadavere quando lo posano per terra. Uno dei soccorritori gli pratica la respirazione bocca a bocca, poi viene caricato su un elicottero per raggiungere l'ospedale più vicino. Il velivolo si alza, roteando le eliche in una danza macabra. Eivind lo guarda allontanarsi, sfocato e incerto come un sogno, attraverso le lacrime che gli tessono un velo incolore sugli occhi. Marius non tornerà più al villaggio.
Il buio
Eivind bevve una lunga sorsata di Mack e fissò le teste di renna attaccate alla parete di fondo, che sembravano sorridergli, sebbene morte e decapitate, poi spostò lo sguardo fuori dalla finestra, passandosi il dorso della mano sulla bocca. Una tenue smorfia si dipinse sul viso quasi infantile. “Non ti piace proprio stare qui, eh?” Il giovane si voltò verso il suo interlocutore, un uomo che dimostrava almeno vent'anni più di lui, la barba bionda parzialmente incanutita e piuttosto incolta, i capelli in tinta alquanto lunghi che accarezzavano il collo del maglione. Si sentì in imbarazzo. Ogni volta che manifestava le sue opinioni negative, gli sembrava di offendere gli abitanti del posto. “Non riesco ad abituarmi a questo buio” borbottò a bassa voce, disturbato dal fatto che Gunnar avesse percepito i suoi pensieri, o che il suo viso fosse troppo espressivo, e bevve un'altra lunga sorsata per annegare le sue parole. L'altro abbozzò una risatina. “Neanche venissi dalla Costa Azzurra!” “No, non sono mai stato in quei posti da sogno, ma a Oslo, almeno, c'erano i giorni e le notti, e non si rimaneva al buio per due mesi e mezzo d'inverno!” “Non è buio del tutto, è una luce... crepuscolare, direi. Tutto sta nel farci l'abitudine.” “Beh, chiamala come vuoi, ma a me sembra di impazzire!” “Torna a Oslo, allora.” “Ė quello che farò appena posso. Ė stata mia moglie a insistere per venire qui; sua madre aveva bisogno di assistenza, dopo una caduta rovinosa con varie fratture e, secondo me, non è stato l'unico motivo. Lei è nata qui ed è maledettamente attaccata a questo luogo desolato, ha le sue amiche e tutto il suo mondo.” “Vi siete conosciuti a Oslo, voi due, se non sbaglio. Però, anche tu sei nato qui. Mi ricordo di te, quando eri bambino.” “Sì, ma mio padre mi ha portato al sud quando avevo otto anni, per cui mi sono abituato a un altro tipo di vita.” “Già.” “Ho studiato a Oslo, mi sono fatto degli amici. La vita di città mi piaceva, era più allegra e stimolante. Poi...” Si arrestò, sembrò domandarsi se proseguire o tacere, quindi continuò. “Lavoravamo nello stesso albergo, Lovise e io, ma eravamo stagionali, purtroppo, senza un contratto fisso. Lei ha approfittato del fatto che siamo stati licenziati e che non riuscivamo più a trovare un'altra occupazione stabile e accettabile, per convincermi a venire qui. Mi ha offerto di lavorare in negozio con suo padre e, siccome ero discretamente scoraggiato, ho acconsentito.” Bevve una lunga sorsata “Sai qual' è stata l'unica cosa che mi sia piaciuta in questo posto sperduto? Accompagnare i turisti a fare i giri faunistici in battello, durante l'estate. Io adoro stare in mare, mio padre mi ci portava spesso da piccolo, e poi questa gente è in vacanza, è allegra e ha voglia di divertirsi, contagia il buonumore. Ti senti inserito nella società umana, una persona normale.” “Capisco. Ho sentito dire che sei un accompagnatore molto solerte, ti dai parecchio da fare: aiuti a stare in piedi chi minaccia di cadere per il rullio della barca e indichi gli uccelli e gli altri animali appollaiati sulle rocce a chi non riesce a vederli. Fai molto di più di quello che ti viene richiesto.” Eivind alzò le spalle: “Mi piace, tutto lì. Ecco, vedi, se fosse sempre estate, non sarebbe poi male, questo posto. A parte la luce, che non è cosa da poco, in quel periodo c'è un po' di vita, con tutti i gruppi di turisti che passano di qui per andare a Capo Nord. Non ti senti isolato e sepolto vivo come adesso.” “Se cerchi la vita, hai bisogno di tornare in città, ragazzo” sospirò Gunnar. “Oh, sì. Voglio dare un ultimatum a Lovise. Lascio passare qualche mese e poi, se non è disposta a seguirmi a Oslo, piuttosto ci vado da solo.” “Fai bene. Bisogna dare retta alle donne fino a un certo punto. Io non mi sono mai sposato perché non ne sopporto nessuna. Vivo nella mia casetta ai margini del villaggio e sto bene da solo. Contrariamente a te, io amo la solitudine, il rumore del vento e il silenzio della neve, piuttosto che la voce degli uomini.” Altri due avventori entrarono nel locale. Dalla porta che si apriva, per richiudersi subito dietro di loro, entrò una folata d' aria gelida, che spezzò come una lama il calore formatosi nel bar, alimentato dal riscaldamento elettrico e dai corpi umani presenti. “Ascolta un consiglio, se lo vuoi. Prima trova il lavoro e poi parti. Così eviti di trovarti laggiù e non saper cosa fare.” “Certo, cosa credi? Sono giovane, ma non tanto stupido.” Si alzarono e, pagate le birre, si allontanarono nel biancore della neve, reso magico o spettrale, a seconda dei punti di vista, dalla scarsissima e singolare luce, che non era né diurna, né notturna, e rendeva del tutto particolari le forme e i colori del mondo circostante. “Eccoti qui, finalmente!” La voce stanca di Lovise lo accolse nel buio silenzioso. Due locali con servizi e seminterrato: una minuscola casa di legno messa a disposizione dai genitori di lei, che, prima che arrivassero loro, ne ricavavano un profitto affittandola a qualche turista estivo che amasse trascorrere le vacanze in un luogo particolare. Eivind ebbe un moto di fastidio. Al suono di quella voce lamentosa, lo scontento e il cattivo umore salirono al vertice.
Marialuisa Moro
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