La ragazza della baita di mare
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Sono più di cinque ore che guido la mia vecchia Golf bianca. Il paesaggio è completamente cambiato passando dai fitti condomini della città alla natura selvaggia e libera del sud. Anche l'aria è diversa, pura e frizzante. La brezza di marzo mi accompagna da quando ho lasciato la mia casa, il mio passato tormentato, il ripudio, l'odio. La luce delle dieci fa risplendere ogni filo d'erba, ogni fiore che si affaccia alla vita, le chiome degli alberi radi. La strada si arrampica e riscende in una serie di tornanti. Sono vicina. Il mio futuro mi sta aspettando. Fremo. Il navigatore, impostato sul cellulare, mi dice che mancano dodici chilometri. Provo un miscuglio di emozioni contrastanti che non riesco a districare. Eccitazione, paura, euforia, forza, determinazione, leggerezza. Svolto in uno sterrato lungo qualche centinaio di metri e, davanti a me, si materializza la mia scelta. Il cuore mi batte forte nel petto, nelle tempie. Sento le sue pulsazioni ovunque. Parcheggio il più vicino possibile alla grande casa di pietra, nello slargo sul retro. È chiamata La Baita di Mare, nome curioso. Questa contraddizione, letta nell'annuncio di vendita, mi ha attirata subito. Neanche la vecchia proprietaria sa perché è stata battezzata così. Forse per la sua solitudine o per il tipo di edificio. Spengo il motore dell'auto e resto ferma, intenta ad osservare. La struttura, come da descrizione, ha due piani per un totale di quattrocento metri quadrati. Dalla mia posizione posso solo esaminare la facciata posteriore e passare in rassegna le quattro finestre per piano, simmetriche. Sono piccole, con scuri marroni malmessi e chiusi. Intorno a me solo erba verde, fiori selvatici gialli e massi. Quando esitante apro la portiera e il sapore salmastro riempie le mie narici, inizio a respirare a polmoni pieni, avidamente. Lascio tempo a me stessa per assimilare la mia decisione, il mio presente, per poi scendere risoluta ma con un nodo allo stomaco. Sulla sinistra della casa, una stradina di terra battuta costeggia le mura e promette di accompagnarmi verso l'ingresso che ormai mi aspetta. Muovo i primi passi, desiderosa di particolari. Anche sul fianco ci sono finestre sciupate, ma più grandi. L'abbandono del luogo è totale. La baita ha un piazzale enorme al cospetto dell'imponente portone d'ingresso, e una terrazza in legno con tettoia che si affaccia sulla baia appena sotto. Il candore della sabbia si scontra con la profondità del mare. Sembra di potersi tuffare direttamente da lì. Si sente solo lo sciabordio delle onde che si scontrano con gli scogli, per scappare subito via da loro, infrante. Le stesse si riversano invece dolcemente, sulla spiaggia bianca che luccica e abbaglia. Il suo candore contrasta con l'esteso blu cobalto. Ho sempre creduto, oltretutto, che il mare mi somigliasse. Sa essere calmo e impetuoso, altruista e avido, portandoti con sé nelle risacche ingestibili e prepotenti. Materia in movimento che non si dà pace. Anche se non è una sorpresa, rimango a bocca aperta. Lo spettacolo è mozzafiato, sopra ogni mia aspettativa. Sono ipnotizzata. Il mio corpo si blocca. Solo i miei occhi azzurri scattano da un punto all'altro. La soddisfazione che provo di fronte alla mia nuova sfida è il dono più bello che potessi permettermi. Non so quanto tempo sia passato quando una voce dentro di me mi richiama pretendendo che torni nel mondo reale. Sbuffo per l'interruzione ma la curiosità di vedere l'interno dell'edificio mi conquista all'istante. Ricordando la miseria che ho pagato la baita e avendo esaminato le foto ricevute per e-mail, so che non devo aspettarmi altro che un ammasso di vecchia mobilia e pareti da ritinteggiare. Ma non è importante. L'ho agognata ed è la possibilità concessami da mia nonna con il suo lascito di soldi, prima di abbandonarmi per sempre. Prendo la grande chiave dalla tasca dei jeans e, con la mano che mi trema per l'emozione, apro a fatica la porta dalle assi di legno deformate. Un tanfo di muffa mi invade all'istante coprendo il profumo del mare e delle ginestre vicine. È giunto il momento di fare i conti con la realtà. Prima di partire, non ho lasciato niente al caso, e mi sono fatta allacciare acqua, luce e gas. Data quindi l'oscurità, tasto alla ricerca di un interruttore. Trovo il generale subito, accanto a me, e lo faccio scattare. Si accende solo una lampadina, evidentemente troppo piccola. No, non ho assolutamente intenzione di lamentarmi. Anzi, ringrazio che il bagliore mi permetta di avanzare senza inciampare o sbattere contro qualcosa mentre mi dirigo, a naso chiuso, verso le altre due finestre che intravedo. Le spalanco frettolosamente, bisognosa di ossigeno. I raggi del sole penetrano prepotentemente all'interno e illuminano il grande locale malmesso. Mi rendo subito conto che l'unica cosa a non avere bisogno di interventi è lo splendido pavimento in cotto. Il resto è un vero disastro. Questa è la sala che dovrà accogliere i tavoli del ristorante, attualmente ammassati in malo modo in un unico angolo in fondo, vicino al lungo bancone bar. Appoggiate ad essi, pile di sedie buttate a casaccio. Sento un nodo alla gola ma lo eludo dandomi da fare. Ho ancora molto da scoprire. Nel vuoto che mi circonda, i miei passi rimbombano mentre mi muovo a sinistra, verso una porta saloon in laminato bianco. Dentro trovo solo penombra e ancora cattivo odore. Trattengo il respiro ma non mi scoraggio. Ero preparata. Porterò avanti il mio sogno. Apro velocemente le finestre, quella che dà sul piazzale principale e quella laterale, più grande. Mi trovo nella vecchia cucina. È lercia e un brivido di disgusto mi percorre la schiena. Non mi sorprenderebbe affatto di trovarci una famiglia di ratti. O una colonia. Tiro fuori tutto il raziocinio che mi appartiene ed esamino con attenzione ogni oggetto al suo interno. Ho lavorato in una tavola calda e conosco ogni singolo macchinario. La mia mente selettiva decide da subito ciò che raggiungerà velocemente la discarica e quello che invece sarà utile e rimarrà con me. Nell'ispezione frettolosa, mi reputo fortunata notando che la maggior parte dei pezzi sono in acciaio inossidabile come la Asl richiede. Guardo il forno, i fuochi, il grande acquaio, il piano da lavoro con sotto ante scorrevoli che nascondono ripiani, i pensili, il famigerato frigorifero, la lavastoviglie, l'affettatrice ed infine un grande armadio che trabocca di cocci misti. Mentre spero che almeno qualcosa sia funzionante, penso già a quanto acido mi servirà per rendergli vita nuova. Esco da lì bloccando con un pentolone e un vecchio frullatore la porta pesante, in modo che circoli aria. Le mie gambe attraversano in lungo la sala facendola rimbombare ancora ad ogni singolo movimento, e si dirigono sull'ala destra, dove ci sono altre due stanze da scoprire. Apro quella più vicina all'ingresso e mi ritrovo dentro a un piccolo vano con una scrivania e due sedie. Una libreria è appoggiata al muro. Come ho fatto ovunque, apro e respiro. Si vede il mare e guardandolo i nervi e i polmoni si distendono. Al momento, l'immensa distesa blu, è la mia unica complice. La mia salvezza. Mi guardo intorno, con la luce che ha invaso ogni angolo e mi accorgo che ci sono scartoffie sparse. Ne prendo in mano un paio capendo solo allora che mi ritrovo nel vecchio ufficio. Esco con un ghigno stampato sulle labbra e raggiungo l'ultima stanza. Come mi aspettavo trovo un disimpegno con lavello che affaccia su due piccoli bagni. Una volta doveva essere tutto di ceramica bianca. Adesso è puzzolente e incrostato di giallo. Spalanco vetri e sporti per poi scappare letteralmente verso il piazzale. Ho il fiato corto come se avessi fatto una corsa di almeno un chilometro a causa dell'aria viziata che sono stata costretta a respirare. Lascio passare qualche minuto prima di decidermi a salire al piano di sopra. Per accedervi, ci sono delle scale esterne che salgono lungo il fianco, in corrispondenza della cucina. Serve una seconda chiave, più piccola. Ho deciso che farò in fretta per poter tornare a godere del paesaggio e lasciare che la mia mente tiri le somme su ciò che mi aspetta nel prossimo futuro. L'uscio aperto filtra luce a sufficienza per scorgere il lungo corridoio di fronte a me. Raggiungo la finestra in fondo lasciandomi da entrambi i lati quattro porte. Solo dopo una boccata d'aria mi permetto di iniziare ad aprirle. Sono otto camere da letto e ognuna ha il suo piccolo bagno con doccia. Nelle fotografie non avevo notato questo particolare e ne rimango entusiasta. Naturalmente le condizioni in cui riversano non sono civilmente accettabili, ma è già qualcosa. Godo poi al pensiero che metà di questo piano diventerà il mio appartamento. La mia prima casa sicura. Il mio nido. La mia fortezza. Torno fuori e vado a passo svelto verso la veranda. I miei piedi fanno scricchiolare alcune assi del pavimento. Afferro una panca di legno senza schienale e la posiziono in direzione della baia. Prendo una sigaretta dalla tasca sperando che la nicotina e il panorama riescano a frenare i pensieri che corrono troppo veloci nella mia mente. Se avessi una bacchetta magica, non avrei bisogno di temporeggiare un secondo di più. So esattamente come voglio che diventi questo luogo. Lo immagino in ogni suo più piccolo particolare. Tutto sarà bellissimo. E a modo mio. Mi trattengo assorta fino all'ora di pranzo, per poi cedere ai miei impegni. Ho vari appuntamenti e prima voglio mangiare qualcosa.
Il paese più vicino si trova a venti minuti di auto, su una collinetta lontano dal mare. Imposto ancora il navigatore, inserendo il nome dell'albergo dove ho prenotato. Immaginavo di non poter passare la notte in quelle stanze senza avere dato il via ai lavori. Passo vicino a case curate ricche di fiori, un piccolo emporio, una macelleria, una merceria e ad altri negozi che contrastano con i grandi centri commerciali e store all'avanguardia della città. Qui tutto sembra diverso. Una realtà parallela. Rallento e scorgo finalmente l'insegna Da Massimo. Non ho problemi a trovare parcheggio. Una novità. Afferro la valigia e mi inoltro nella umile pensione. “Buongiorno.” “Buongiorno a lei” mi risponde un signore di mezz'età, impegnato dietro al banco della reception. “Desidera?” “Ho prenotato una camera per un paio di settimane, a nome Anita Martini.” “Ma certo, benvenuta ragazza della baita” esulta. Rimango interdetta. Io non l'ho mai visto prima ma lui sa perfettamente chi sono. O almeno, cosa ho comprato. Sembra leggermi nel pensiero. “Non devi sorprenderti sai. In un posto come questo, tutti sanno tutto... ah e scusami se ti sto dando del tu, ma sembri davvero giovane.” “Non le hanno ancora rivelato la mia età?” Sorrido inacidita. Non mi piace. Io preferisco farmi gli affari miei ed essere lasciata in pace. “Ventiquattro anni e sei di...” “Ok. Adesso basta per favore.” L'uomo ha il mio documento in mano e lo sta leggendo ad alta voce. “Si limiti a fare la registrazione, magari cercando di non dare gli estremi del mio documento a chiunque. Grazie.” So che non dovrei essere scortese. Contrasta con il mio desiderio di lavorare al pubblico ma, evidentemente, il mio carattere prevale sul buonsenso. Lui si ammutolisce avvertendo il mio fastidio. Sperava forse di fare due chiacchiere ma gli ho tappato la bocca. Peggio per lui. Non si deve impicciare dei miei dati personali. “Prego, la chiave della camera ventiquattro. Primo piano a destra.” Adesso la sua espressione è fredda. Me la passa insieme alla patente. L'afferro velocemente e, solo per educazione, ringrazio. Salgo chiudendomi la porta alle spalle. La camera è accogliente e pulita. L'ambiente è intimo e il bagno, se pur piccolo, è decoroso. Decido di farmi una doccia veloce per eliminare la stanchezza del viaggio e il cattivo odore che ancora mi sento addosso, dentro, ovunque. Lascio i capelli mori, lunghi e ricci, bagnati. Mi vesto e scendo di nuovo. Ho fame. Cerco con lo sguardo quello che deve essere il proprietario dell'albergo e, con voce più calma, lo chiamo. “Sono la ragazza della baita in mondo straniero, può dirmi dove posso mangiare un panino?” Sono sarcastica ma non più nervosa e lui sembra rallegrarsi. Può rendersi utile dando sfogo alla sua parlantina e alla sua curiosità. “Certamente. Duecento metri a destra, su questa strada. I prodotti che servono sono tipici del luogo e freschi. Glielo consiglio...” “Grazie uomo della reception o forse Massimo?” Esco sorridendo prima che possa aggiungere altro. Spero di essere stata abbastanza garbata. Passeggio sul marciapiede guardandomi intorno. La vita sembra scorra al rallentatore. Le macchine sulla carreggiata sono poche, come le persone che incontro. Molti negozi, data l'ora, hanno i bandoni abbassati. Raggiungo una trattoria-paninoteca-bar. Un locale ibrido ma carino. Deve essere questo il posto. Entro e una ragazza, forse della mia età, mi dice che posso accomodarmi dove preferisco. Lei mi raggiungerà subito con il menù. Ci sono circa dieci tavoli con tovaglie di cotone bianco e tovaglioli coordinati. Tre sono occupati da coppie. Scelgo di sedermi vicino alla finestra, lontano da loro. “Eccomi, buongiorno, cosa desidera?” “Se possibile un primo.” “Certamente!” Sembra euforica, forse troppo. “Allora prenderei uno spaghetto gamberetti con zucchine e una bottiglia di acqua naturale, grazie.” Senza scrivere niente corre letteralmente in cucina. Pochi secondi dopo mi porta da bere, seguita da un ragazzino smilzo in abiti da cucina che, guardandomi incuriosito e insistentemente, sparecchia i tavoli accanto. Distolgo lo sguardo fingendo di non essermene accorta. Purtroppo, come da copione, con la cameriera arriviamo subito alla resa dei conti. Stavo aspettando. “Posso permettermi una domanda?” mi chiede mentre stappa la bottiglia. “Lei è la ragazza del baita vero?” Devo averlo scritto in fronte, è ovvio. Mi prometto di non rispondere male e di essere il più gentile possibile. Qui tutti potrebbero essere potenziali clienti, aiutanti e soprattutto distruggermi con un passa parola negativo. Odio trattenere l'istinto di alzarmi e andarmene. “Sì, sono io. Ho capito che mi stavate aspettando...” le sorrido arcigna e a denti stretti. “Posso darti del tu?” Non aspetta risposta ma prosegue. “Tutti sanno che la signora Mariapia ha finalmente venduto la proprietà ad una ragazza di fuori. Non vedevamo l'ora che arrivassi.” Arrossisce. “Sì, me ne sono accorta.” “Siamo felici di averti qui e spero tanto che tu possa rendere merito alla baita. Anni fa, era meravigliosa.” “Spero di non deludere nessuno.” Il mio tono è più tranquillo e devo abituarmi a mantenerlo. “Sono sicura che non lo farai! Comunque piacere, mi chiamo Marcella.” Felice che stia riponendo in me la sua fiducia, cosa che non do mai per scontata, le sorrido. “Piacere, Anita.” Sento che qualcuno la chiama e lei si allontana per portarmi il mio piatto. “Ti lascio mangiare in pace. Se hai bisogno chiamami pure.” “Sei gentile.” È la verità ma non ci sono abituata. Quando ho finito, mi alzo per andare a prendere il caffè al banco. “Te lo avrei portato al tavolo!” mi dice interdetta Marcella, come se avesse mancato in qualcosa. “Mi piace prenderlo in piedi, tranquilla. Poi mi serve il conto. Devo andare.” Quando tiro fuori i soldi mi sento in dovere di dirle che era tutto perfetto. “Grazie Anita. A presto allora.” Mentre torno verso l'auto con la sigaretta in bocca, mi rendo conto che qui posso finalmente rilassarmi. Anzi, devo farlo. Non posso continuare a stare sull' attenti ogni secondo e mostrare il mio caratteraccio. Oltre a lavorare sul ristorante e al piano superiore della baita, è necessario lavorare ancora molto su di me. Getto il mozzicone a terra e mi accendo un'altra sigaretta. Dopo il caffè, minimo sono due.
Piccarda Morganti
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