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Autore: Anna Parodi
Dintorni
Romanzo Breve
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Dintorni
VILLA (per niente) SERENA

Giugno 1971. Villa Serena. Clinica chic nel cuore della Genova bene.
Una ragazza giovane e bellissima. Capelli rossi e lentiggini. Mia mamma.
Non la certezza ma il sentore che avrebbe potuto trattarsi di un parto gemellare. Così sarà.
Una vita, due vite. Nell'attesa complicazioni. Gravi inattese complicazioni. Il silenzio e il coma. Dal greco "sonno". Interminabili giorni di sonno... anticamera della morte o di possibili danni cerebrali. La speranza di un miracolo a cui aggrapparsi.
Nel frattempo io e mia sorella siamo il primo e l'ultimo dei pensieri. Rattrappite e stropicciate come due vecchiette in miniatura. Non abbiamo ancora un nome. Mio papà non vuole decidere per lei. Al nome ci penserà mia moglie. Appena si sveglia...
I giorni passano. Una suora della clinica insiste.
Dovreste dare un nome alle bambine. Attimi di
titubanza. Pensavamo Barbara per una bambina ed Alessandro se fosse stato un maschietto.
Decise la suora. Facciamo così: una la chiamiamo Barbara e l'altra Anna perché porta quel nome la Santa protettrice delle partorienti.
Papà acconsente. Si può fare. Si deve fare. Si fa. Rientrerò tra i pochi a portare un nome che non è stato scelto dai genitori. È una cosa che mi è sempre piaciuta. Un nome frutto di un evento, per quanto tragico. Un nome che diventa una storiella da raccontare.
Il nostro nome sarà sempre quello che ci apparirà più estraneo. Più lontano. Perché non lo pronunciamo per chiamarci o per parlare di noi. Perché non sappiamo chi siamo ed abbiamo bisogno di un nome per illuderci di saperlo.
Ma ogni nome reca con sé un potere salvifico.
Nel mio caso con evidente certezza.
Mia mamma si è svegliata dal sonno. Ha perso la memoria. Come due bambine? Ma se non sono neanche sposata?
Il finale inatteso di un'attesa. La memoria a poco a poco è ritornata. Ad evitare ulteriori sorprese.
Quelle che la vita ti avrebbe riservato ripartendo da una pagina bianca.

"MIA" NONNA

Ricordi confusi che arrivano dall'infanzia.
Mi sono sempre chiesta se le nostre foto da bambini siano un'ancora per la memoria o costituiscano il fulcro del ricordo postumo.
È un dubbio che ho ancora.
Avevo (ed ho) una sorella gemella. Nessun ricordo dell'infanzia prescinde dalla sua presenza. Al punto da creare, spesso, sovrapposizioni.
Avevo (ed ho) un fratellino di tre anni più piccolo ed il suo arrivo a casa, avvolto in una copertina bianca (esagerata per la stagione), è, questo con certezza assoluta, la prima immagine nitida della mia esistenza.
Ma da quel momento in poi, dalla nebulosa che avvolge quegli anni, spuntano unicamente immagini e sensazioni legate a mia nonna.
Mia nonna.
Mia adoratissima nonna.
La grazia di quel corpo a dispetto dei suoi chili di troppo. La pelle dai poteri magici, che da chiara diventava scurissima, con l'aiuto di un olio di cocco somministrato con generosa abbondanza. Sovraesposizione ai raggi solari in anni in cui non c'era ancora il buco dell'ozono.
Poi le sue mani che erano belle e morbide in barba al duro lavoro (manuale appunto) fin dai tempi in cui era una bambina. Grazie ai suoi poteri magici non si erano affatto rovinate.
Ripenso ai tuoi risvegli da bambina, molto prima che spuntasse il sole, insieme alla tua mamma e alle tue sorelle. Direzione mercato della frutta. Per sbarcare il lunario di quella famiglia tutta al femminile.
Papà volato in cielo troppo presto.
Ma anche da bambina si può lavorare se si hanno a disposizione poteri magici.
I geloni alle mani nelle fredde mattine invernali: per quelli non conoscevi la formula magica. Ma per l'infanzia di tuo figlio (e per la nostra) avevi in
mente differenti prospettive.
Il quartiere "in", la scuola privata, le foto scattate dal fotografo direttamente a casa, il vestito bello e le paste alla domenica. Cavolini con la panna. Il gelato da Klainguti.
E poi la tua eleganza discreta... innata... senza divagazioni. Un'eleganza da poteri magici per quel fisico che avrebbe dovuto ostacolarla ma non ce la faceva. Gli occhi ed il sorriso a prendersi tutta la scena.
Raramente ti ho vista con i pantaloni... quando te li mettevi un poco mi dispiaceva. Per alcuni istanti non eri più la mia regina dai poteri magici.
Tornavi ad esserlo subito dopo... quando le tue parole mi trasportavano in mondi fantastici.
Se avevo paura correvo a nascondermi col viso sopra le tue ginocchia o mi tenevi forte la mano. Potevo averne solo una delle tue mani. L'altra non era per me.
C'è stato un momento, intorno ai tre anni, in cui non ho dovuto dividerla con nessuno.
Frequentavo il primo anno di scuola materna a Villa Bernabò Brea (a pochi passi dalla casa della nonna). Avevamo due maestre: una per la mattina e un'altra (dolcissima) per il pomeriggio. La maestra Pina si ammala e per una decina di giorni - proprio durante i pomeriggi - ci avrebbero smistati nelle altre classi. Che pratica odiosa quella dello smistamento!?! Con me la sorte non fu benevola. Ero stata assegnata alla classe della Cicci Gallo. C-I-C-C-I G-A-L-L-O!
Cazzo! Avrei voluto piangere ma timidezza e riservatezza me lo impedivano.
Il pensiero di dieci pomeriggi con lei mi terrorizzava. Dieci interminabili pomeriggi di terrore! In realtà non avevo un'esperienza diretta tale da poter affermare che la Gallo fosse cattiva ma sempre e solo la stessa dannatissima immagine davanti agli occhi. Ora di musica... Tutte le classi insieme in salone ad imparare stupidi motivetti con la maestra di pianoforte. Ciao amico ciao ciao ciao se lo dici con il cuore ecc. ecc. con tante manine svolazzanti. Il gran finale con le manine svolazzanti.
E poi c'era la canzoncina del gatto che mangiava e mangiava e mangiava e alla fine diventava sempre più grasso e... PUUUMMM! Esplodeva!
La Cicci Gallo era quel gatto. Era lei a mimare la canzoncina con le grandi braccia spalancate a simulare l'ingrassamento ed, infine, l'esplosione.
In quel momento tremavo di paura. Una fifa cane di quell'orco mascherato da maestra.
Mia sorella sosteneva che la Cicci Gallo era brava e faceva ridere: in realtà la pensavano un po' tutti così.
Sapevo di avere una sola possibilità di salvezza: era mia nonna l'unica via di scampo. Nonna ti prego salvami! Vieni a prendermi a mezzogiorno... fino a quando guarisce la maestra Pina. Ti prego nonna! Ti prego!
Acconsentì. Acconsentì! Amen e così sia!
Ti scongiuro non ritardare mai! Con la Gallo non dovevo rischiare di starci neppure per un minuto.
E lei sempre puntuale... i suoi poteri magici la
facevano comparire all'improvviso. Mi portava via... lontana dal pericolo.
E in quelle poche ore era tutta per me. Tutta per me.
Era tutto per me.
Sopportavo il risolino divertito di mia sorella che si avviava nella classe della Cicci Gallo con l'aria trionfale di quella che non aveva paura. Lei non ne aveva. E allora? Sapevo che era giusto averne. Non si trattava di un capriccio.
Veniva a prendermi ed era tutta per me.

MALEDETTA PRIMAVERA

Andavo (andavamo) a scuola dalle suore e la cosa, di per sé, mi pareva abbastanza normale. Metodi repressivi da parte di represse metodiste. Non erano metodiste ma mi piaceva il gioco di parole.
Gli anni settanta lasciavano spazio agli ottanta... ma nella scuola/convento si respirava aria di decenni precedenti. La Goggi cantava "Maledetta Primavera" e la suora malediceva lei che malediceva la primavera. Non è concepibile che venga offesa una stagione meravigliosa dono del Creatore. A noi la canzone piaceva e continuavamo ad ascoltarla di nascosto. Col 45 giri nero in vinile dentro lo stereo arancione coi buchi.
Anche la storia d'amore tra Terence e Candy Candy veniva osteggiata con convinzione. Quell'unico bacio tra i due, in un'attesissima puntata dell'ultima serie, venne presa come spunto per una lezione di sessualità, non sapremo mai se del tutto improvvisata. Sono cose da grandi... quindi non ammissibili! Cose per quando due sono sposati...
Volavano gli schiaffoni... ma accettavamo tutto di buon grado con la convinzione che andasse bene così. Anche quella sembrava essere una cosa normale. Ai miei occhi era un'umiliazione che avrei evitato con ogni mezzo possibile, anzi con l'unico mezzo possibile: rigare dritto. Niente risate fuori luogo o chiacchere con le compagne durante le spiegazioni. Tono pacato. Modi gentili. Probabilmente sarebbe bastato. Botte zero, sgridate zero, mai una volta fuori dalla porta o dietro la lavagna. Fino ad un giorno sfortunato in cui un atto di puro impulso valse la resa... Un'unica macchia su un curriculum immacolato.
Era carnevale ed il massimo della trasgressione di allora era procurarsi fialette puzzolenti, polverine urticanti, oggetti di plastica che simulavano feci o schifezze analoghe.
Barbara Sanpietri, mia compagna di banco dell'epoca, portò a scuola una cacca finta, di gomma,
dall'aspetto molto verosimile. Dovevamo solo decidere il da farsi. A ricreazione la collocammo sulla sedia della suora/maestra che avrebbe dovuto sedercisi sopra alla ripresa delle lezioni. Campanella. Rientro in aula. Un urlo stizzito che pone fine al divertimento. Dallo scherzo alla tragedia in un nanosecondo. Silenzio in aula e la suora/maestra che scaglia l'orrendo oggetto fuori dalla porta con tutta la stizza di cui era capace... Sarebbe stato ovvio rimanere in silenzio in attesa degli eventi ed invece cosa faccio? Mi alzo per recuperare l'oggetto e restituirlo alla legittima proprietaria: Barbara Sanpietri. Un errore fatale, imperdonabile. Come fatali furono le conseguenze. Da te non me lo sarei mai aspettato. E poi urla che non riuscivo più ad ascoltare e il trovarmi in un attimo fuori dalla porta a cercare di dare spiegazioni... Ma che stronzata galattica! Cosa mi è saltato in mente! Per salvare la Sanpietri e la sua cacca di merda!
Ma in un colpo solo avevo imparato parecchie lezioni: "farsi gli affari propri" la più importante di
tutti. A seguire "Non discutere con chi è più forte e rispetta sempre il potere costituito".
Non sbagliai più un colpo tanto da essere assunta a modello di integrità e moralità negli anni a venire.
Non cascai nella rete della presunzione e non sottovalutai altri dettagli che suonavano come campanelli d'allarme.
In classe era cominciato un traffico “illegale” di rose che Cristina Ugoletti raccoglieva in un giardino poco distante da scuola e rivendeva alle bambine dell'Istituto. Alcune compagne cominciarono ad acquistarle a prezzi modici per omaggiare le mamme e, in alcuni casi, la suora/maestra. E passi l'azione riprovevole dell'arruffianamento ma regalare fiori a chi dispensava botte era un'azione che non riuscivo proprio a condividere. La pratica andò avanti per alcune settimane suscitando sempre maggiori sospetti nella suora/maestra. Fino a quando... un urlo straziante! Le finestre del convento si affacciavano sul giardino dove l'Ugoletti (con alcune a farle da palo)
faceva il suo raccolto quotidiano di rose. Ormai si trattava di furti su commissione. Quella mattina il consueto silenzio accompagnava l'azione. Poi quell'urlo straziante e una finestra che sbatteva all'improvviso! E una voce! Quella voce! Ladre! Piccole Ladre! Ora vi sistemo io! La certezza della pena che puntuale arrivò. Con allegata ramanzina moraleggiante. Il fine non giustifica i mezzi! Mai! Ladre! Ladruncole! Ero solo un'osservatrice del tutto estranea ai fatti. Omertosa (forse).
Avevo imparato la lezione. A memoria.

Anna Parodi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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