- Marzo.
L'idea di ucciderlo prese forma il giorno del mio compleanno. In altre circostanze avrei organizzato una cena in famiglia, sarei uscita a festeggiare con gli amici o avrei optato per un tête-à-tête in casa, solo io e te. In un altro tempo, un'altra vita. Ormai tu non c'eri più, e celebrare la mia nascita era diventato irrilevante. Un giorno qualunque. Era tarda mattina, quando scesi in cucina per la colazione e trovai in bella vista una torta, poggiata proprio al centro del tavolo. Una sontuosa costruzione di pan di Spagna al cacao, rivestita di glassa a specchio, sormontata da riccioli di cioccolato e circondata da ciuffi di panna, come una regina attorniata dalla sua corte. In cima spiccava una candelina a forma di “35”. Non era difficile intuire chi l'avesse preparata. Il profumo tentatore del cioccolato si spandeva per la stanza, mentre contemplavo il dolce, combattuta tra la stizza e il desiderio di affondarvi un dito come una bambina incapace di contenersi. Chiunque al posto mio avrebbe apprezzato l'impegno e si sarebbe sentito lusingato da un gesto tanto premuroso. La teatralità del dono avrebbe dovuto lasciarmi a bocca aperta, come minimo causarmi un sussulto di piacere. E invece mi contrariò. La prima cosa che feci fu chiedermi come facesse Raffaele a sapere che quella torta evocava i compleanni della mia infanzia. Quand'è che gliene avevo parlato? Me lo domandai con irritazione crescente, mentre ero dritta in piedi sulla soglia della cucina. Raffaele aveva la capacità di trattenere nella memoria ogni minuzia che mi riguardasse, ogni stupidaggine che uscisse dalla mia bocca, come un'informazione preziosa da custodire e usare al momento più vantaggioso. Di certo si era alzato molto presto per mettersi al lavoro, pur di sorprendermi e ribadire quanto tenesse a me. Sta rovinando un bel ricordo, pensai con acredine. Per un istante fantasticai di affondare un pugno su quella torta così pretenziosa per ridurla a un ammasso di poltiglia informe. Poco dopo lui comparve con un sorriso radioso stampato sulla faccia ossuta. Spalancò le braccia verso di me e mi circondò con calore, augurandomi buon compleanno. Lo lasciai fare, subendo in silenzio quello sfoggio di affetto, benché avessi solo voglia di spingerlo via, come un cane molesto. Mi sforzai di mormorare tra i denti qualche parola di circostanza, sperando che l'intonazione non tradisse il mio astio. - Grazie, Raf. Non era necessario. Davvero - . - È proprio così che te la ricordi? - , replicò lui con un sorrisino ammiccante. Annuii malvolentieri. - Ti va una fetta? - . Senza attendere una risposta, recuperò dal cassetto un coltello e lo affondò al centro della torta. Lo avrei fermato, se questo non avesse comportato la necessità di toccarlo. - Sei stato molto gentile, ma non sono in vena di festeggiare quest'anno - . Parole che scandii una dopo l'altra, come a darvi maggior enfasi. Intendevano essere un cortese rifiuto, ma non sortirono alcun effetto: tuo fratello le accolse con un'alzata di spalle. - Non avresti dovuto - , riprovai in tono più secco. Per nulla scoraggiato, lui continuò a occuparsi del dolce. Ne tagliò due fette abbondanti, le trasferì nei piattini e mi invitò ad accomodarmi su una delle sedie della cucina. Pur contrariata, mi sedetti. Nella mia testa avevo voglia di mettermi a urlare: “Lurido bastardo! Con quale coraggio puoi banchettare così?”. Presi un boccone di torta, ma non ne sentii quasi il gusto. Affondai di nuovo la forchetta nel pan di Spagna e in quel momento balenò in me per la prima volta il desiderio di liberarmi di Raffaele. Un pensiero sorto per caso che mi diede un sollievo inaspettato. Sapevo che era sbagliato, ero consapevole di quanto fosse deplorevole anche solo augurarmi la morte di qualcuno, ma quella fantasia omicida riaffiorò spesso da quel giorno, e ogni volta ne traevo conforto. Come si vagheggia di compiere un viaggio o ci si crogiola in un progetto, nei momenti bui mi aggrappavo all'idea di assassinare tuo fratello. Mi soffermavo ad analizzare quel proposito, lo soppesavo, lo assaporavo. Mi sentivo una persona orribile, ma non potevo – e soprattutto non volevo – impedirmelo. Ancora non sapevo come, dove, quando lo avrei fatto. Ma dentro di me si radicava la convinzione che l'unica speranza per andare avanti fosse legata alla morte di Raffaele. L'unico modo per tornare a vivere. E vendicare il tuo omicidio.
Tre mesi prima - Dicembre
Ho ripensato molte volte all'ultima sera passata insieme a te, ma per quanti sforzi abbia fatto, non sono mai riuscita a ricostruirla del tutto. Per l'intera durata della mia degenza in ospedale, giorno dopo giorno, ripercorrevo le ultime ore in modo ossessivo, come si tenta di riportare alla memoria le confuse immagini di un sogno che più tentiamo di trattenere, più continua a sfuggirci. Intrappolata in un letto, anelavo in modo compulsivo a ricordare ogni parola detta da te, nel vano tentativo di trovare indizi di quanto sarebbe accaduto in seguito, nell'esasperata brama di capire. Nonostante l'impegno, riuscivo a recuperare solo pallide reminiscenze dei giorni precedenti, come se l'incidente avesse tracciato un confine invalicabile, uno spartiacque netto tra prima e dopo. C'era come un vetro smerigliato che separava passato e presente, e rendeva sbiaditi tutti gli eventi collocati al di là di quella maledetta notte. La notte in cui ti ho perso. Colpa del trauma fisico ed emotivo, dicevano i medici. Quanto è strana la memoria. A distanza di giorni, rammentavo alcuni specifici particolari dell'ultima cena passata insieme. Dettagli che si erano impressi nella mente, benché insignificanti di per sé. Rivedevo i piatti che avevo preparato – una frittata di patate, insalata mista e macedonia di frutta – e ricordavo gli argomenti toccati a tavola – il mio lavoro in libreria, la caldaia da far controllare, i programmi per il Natale alle porte – così come avrei saputo elencare le notizie che il telegiornale aveva dato, ascoltate distrattamente da una televisione accesa mentre mangiavamo. Eppure mi scoprivo incapace di rievocare ciò che ti riguardava. Non avrei saputo dire di che umore fossi, se apparissi in ansia, assente, turbato, o se mostrassi tracce di quell'impeto di terrore che ti avrebbe spinto a trascinarmi fuori di casa nel cuore della notte. Non rammentavo affatto se in quelle ultime ore trascorse insieme, avessi detto qualcosa che facesse presagire le tue intenzioni o svelare i problemi che ti logoravano. Era colpa della mia disattenzione, se non avevo saputo coglierne i segni? Se non fossi stata assorbita dalla nostra apparente felicità, avrei potuto impedire quanto sarebbe accaduto? Me lo sono chiesta spesso con rimorso. Se fossi stata meno concentrata sulla vita di tutti giorni, avrei prestato maggiore attenzione ai tuoi stati d'animo, mi sarei allertata quando ti chiudevi in una stanza per telefonare, quando ti sentivo sussurrare o discutere da dietro la porta, o quando ti vedevo davanti al computer con la fronte aggrottata. Ci conoscevano sin da ragazzi ed eravamo sposati da due anni e mezzo, eppure mi era difficile interpretare i tuoi silenzi o indovinare cosa ti passasse per la testa. - Filippo era un uomo schivo - , rivelai alla polizia, per giustificare la mia incapacità di rispondere alle domande, per motivare le mie spiegazioni imprecise, la mia cecità. In principio una parte di me si rifiutava con semplicità infantile di prendere atto della tua morte, anzi la negava come si respinge una qualsiasi assurdità che ci venga raccontata ma della quale non si ha evidenza tangibile. C'è uno sbaglio, non può essere vero. Deve esserci un tragico malinteso. Nella mia mente distorta, io ero ricoverata in ospedale e tu ti trovavi momentaneamente da un'altra parte. La consapevolezza arrivò più tardi con la brutalità che segue sempre una fase di negazione. Accadde quando la polizia mi consegnò una busta di cellophane che conteneva alcuni oggetti che avevi al momento dell'incidente, di nessuna utilità per le indagini. Effetti personali, così li definiscono, quasi a prendere le distanze da ciò che rappresentano per chi resta. La tangibilità di quel sacchetto spezzò ogni resistenza dentro di me, ponendomi davanti a una realtà impossibile da confutare. Pur conservando una parvenza di riguardo per le mie condizioni di salute e la perdita subita, la polizia continuò a farmi visita in ospedale con assiduità, giorno dopo giorno. Agenti in divisa o investigatori in borghese. Facevano domande, ascoltavano attentamente, prendevano appunti. Li sentivo confabulare tra loro, li vedevo lanciarsi sguardi di sottecchi per concordare come procedere, spesso dissimulando la contrarietà per le mie repliche vaghe, i miei silenzi attoniti, i miei sguardi istupiditi dal dolore.
Maria Teresa Steri
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