L'Italia nella prima guerra mondiale
Accanto agli episodi veri e propri di insubordinazione, si registrarono altri casi di opposizione alla guerra che, seppur meno evidenti delle ribellioni, erano ugualmente sintomo del malessere che sempre più andava colpendo le truppe e il cui scopo era quello di porre fine – almeno individualmente – a tale tragica esperienza o, come nel caso delle - tregue tacitamente concordate - , di giungere ad una temporanea sospensione – all'insaputa dei superiori – delle ostilità. Si trattava in tal caso del ricorso all' - auto-ferimento - (che non di rado si manifestava nel gesto estremo dell'auto-amputazione) che molti combattenti finirono col procurarsi allo scopo di essere ricoverati in ospedale, inviati in licenza o definitivamente riformati. Uno dei motivi che portava i soldati a dar atto a fenomeni di autolesionismo, era quello di voler evitare l'orrore degli assalti. Così Clemente Comazzi, contadino della bassa Valsesia, ricordava tale - stratagemma - :
- C'era gente che si feriva per venire a casa. Io c'avevo due di Gozzano e l'ora di notte si mettevano basso nel camminamento, preparavano un grosso sasso in cima la trincea e quando noi si passava dicevano: - Deh, fa il piacere, dai un calcio a quel sasso lì - . Il sasso veniva giù spaccava la gamba e venivano a casa [...] Poi c'era chi si sparava nelle mani [...] - .1
Si trattava, come detto, di un sintomo che dietro al disagio per l'esperienza che i soldati stavano vivendo, celava una sorta di - opposizione passiva - alle dure condizioni di vita e disciplinari imposte dai superiori. Di ciò se ne resero ben presto consapevoli gli stessi vertici militari, al punto che le indagini riguardanti i casi di soldati che lamentavano le più disparate ferite, nonché le più variegate tipologie di malattia, divennero molto meticolose. L'obiettivo era, come facilmente intuibile, quello di smascherare gli imbroglioni così da far desistere eventuali emuli dal porre in atto simili atteggiamenti. In tal senso si venne a creare una sorta di lotta tra i combattenti – che giunsero a mettere in atto un approccio pseudo professionale alla medicina – e il medico che doveva smascherare eventuali simulatori. Una battaglia senza esclusione di colpi spesso, come dimostra – ad esempio – il caso del trentino Daniele Bernardi che riuscì a procrastinare per molto tempo l'invio al fronte. Ricoverato nel maggio del 1915 presso l'ospedale militare di Linz riuscì, attraverso l'applicazione di foglie di Ranunculus – una pianta dagli effetti ulceranti – a praticarsi e mantenere vive diverse piaghe assai dolorose - grazie - alle quali fu in grado di continuare a rinviare la sua partenza per il fronte. La gamma dell'autolesionismo per evitare la trincea era molto ampia; si andava dalla simulazione delle più svariate malattie facendo ricorso anche all'assunzione di sostanze, fino all'autoamputazione. Nel primo caso i soldati non esitavano ad assumere sostanze per simulare le patologie: iniezioni di nicotina sotto le palpebre per simulare il Tracoma, iniezioni di trementina o petrolio alla pianta del piede, fino alle bruciature di sigaretta sul glande o il vario uso di deiezioni umane. In qualche caso, ricorda un reduce, si usava strofinare gli occhi con la - Belladonna - , una nota pianta velenosa che causava dilatazione delle pupille e momentanea insensibilità alla luce.2 Si trattava di esperimenti e azioni che spesso finivano col concludersi con la morte per avvelenamento del simulatore a causa delle sostanze assunte. Nel caso dell'autoamputazione, invece, si giungeva spesso a infierirsi tagli, anche netti, ad esempio alle dita della mano nella speranza di essere definitivamente congedati per inabilità al servizio militare. Nel complesso va detto che i rischi per i simulatori erano molto alti; a fronte di casi di chi riuscì a superare i rigidi controlli medici e ad ingannare l'esaminatore, vi furono infatti molti casi di condanne del simulatore. Condanne che furono pesanti: l'articolo 174 del Codice penale dell'esercito prevedeva infatti un minimo di 5 anni di reclusione e i lavori forzati per atti di automutilazione e simulazione. Pene che nel rigido clima di disciplina imposto dai vertici militari nel corso del conflitto finirono spesso per essere inasprite al punto che furono non pochi coloro che vennero condannati a morte per aver messo in atto gesti autolesionisti. In proposito – tra i molti casi – un soldato del 7° alpini, il ventitreenne D.B.A., venne condannato alla pena di morte per fucilazione nel petto a causa dell'automutilazione che si inflisse. Nella sentenza (che sarebbe stata eseguita il 20 settembre 1915) emessa il 15 settembre 1915 dal Tribunale militare di guerra del IX corpo d'armata di Agordo, così si motivava tale decisione:
- [...] perché allo scopo di procurarsi infermità da renderlo incapace di proseguire nel militare servizio e sottrarsi così per codardia ai pericoli della guerra, il 19 giugno 1915 al passo delle Cirelle, dove trovavasi di servizio in faccia al nemico, si procura lesioni all'anulare e medio della mano destra ed il 3 del successivo agosto, mantenendo lo stesso proposito, mentre trovavasi in servizio di vedetta in località Costabella in faccia al nemico, si esplodeva un colpo del proprio fucile carico a pallottola, contro l'indice della stessa mano [...] - .3
Condanne del genere furono tutt'altro che infrequenti e sarebbero potute essere anche numericamente più rilevanti se, molte volte – come emerge dagli atti dei processi per autolesionismo – l'iniziale sentenza alla pena capitale non fosse stata commutata in diversi anni di carcere magari per la mancanza di precedenti penali degli imputati o per la loro buona condotta sin lì tenuta nel corso del conflitto, eccezion fatta ovviamente per il caso di autolesionismo. Vi erano poi le - tregue concordate - – all'insaputa dei Generali – di cui si resero protagonisti i soldati di tutti gli eserciti coinvolti. Si trattava spesso di taciti accordi che miravano a consentire a ambo gli schieramenti di poter usufruire di una tregua per recuperare i corpi dei soldati uccisi o portare soccorso ai compagni feriti; altre volte si consolidava l'abitudine di non fare fuoco nel momento del rancio. Inerzia, limitata aggressività nei confronti del nemico, soprattutto al fine di evitarne la replica, furono caratteristiche proprie di tali tregue. Capitava così che molte volte le opposte pattuglie impegnate nelle perlustrazioni evitassero consapevolmente di incontrarsi, con gli artiglieri che sparavano sempre negli stessi punti. Spesso, tuttavia, tali tregue erano deliberati gesti concordati – magari facendo ricorso a segnali visivi fatti con mozziconi di sigarette o lo sventolio di determinati tessuti – tra i due eserciti contrapposti e le cui trincee distavano magari pochi metri. Ciò era indice non solo dell'insofferenza dei combattenti nei confronti di un conflitto di cui, come detto, spesso non comprendevano il significato, ma allo stesso tempo del prevalere del proprio lato umano su quello impostogli dai superiori volto a farne dei perfetti esecutori degli ordini loro impartiti. Capitava così che, ad esempio durante le festività, i fanti giungessero a veri e propri armistizi per festeggiare spesso insieme, magari scambiandosi doni, auguri e mangiare insieme quel po' che la situazione consentiva di avere. Un caso emblematico fu in tal senso quello di ciò che in seguito venne definita come la - piccola pace - ; il 24 dicembre del 1914 i soldati britannici e tedeschi impegnati sul fronte occidentale fraternizzarono festeggiando insieme il Natale e giungendo anche a disputare una partita di calcio nella - terra di nessuno - .4 Così ricordava un soldato italiano una - tregua concordata - di cui fu testimone:
- C'erano degli austriaci delle parti del Tirolo che sapevano l'italiano eh, e si parlavano con le nostre vedette. Loro dicevano: - Abbiamo fame, dateci qualche pagnotta - . Loro avevano tanto da fumare, ne avevano in abbondanza, allora i nostri ci facevano passare qualche sacchetto di pane e non si sparavano mica, nemmeno un colpo di niente - .5
Giovanni Fenu
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