Pagazzano, maggio 1944
La polvere dello sterrato era arrivata sin lì, alzata dal vento, malgrado quello fosse l'unico punto del paese dove il Sindaco aveva concesso di pavimentare. I ricchi signori che abitavano in quell'edificio erano tanto potenti che persino lui, il primo cittadino, sperava che, prima o poi, volessero assumere suo figlio, un ragazzo con poco sale in zucca e dall'aspetto per niente gradevole. Ma, si sa, il bisogno e l'ambizione riescono ad aprire più porte che non cento anni di attesa silenziosa. E così Umberto Fioravanti, l'illustrissimo Sindaco, si adoperava molto per assecondare i capricci del proprietario di quel caseificio che vantava alle proprie dipendenze quasi quattro dozzine di anime, accomunate, ahimè, dalla mancanza di aspettative e dalla miseria. Per la verità, a giudicare dal numero delle persone che vi entravano, potevano essere almeno il doppio, ma anche in questo caso lui non si sarebbe mai permesso di denunciare la cosa all'ufficio delle tasse, né tantomeno di far pagare una multa ai proprietari per l'eccessivo consumo d'acqua. E poi, bastava guardarlo in viso, rubicondo e flaccido, forse a causa della troppa Barbera con la quale allietava le sue giornate, tra scartoffie da siglare e strette di mano frettolose e spesso untuose: amava, insomma, a quel che si diceva, il quieto vivere. Gli ultimi tempi, che lasciavano intravedere la fine della guerra, erano difficili per tutti. I più intraprendenti si preparavano ad avviare nuove attività, mentre quelli meno audaci cercavano di salvaguardare il poco che era loro rimasto. Insomma, non era per nulla semplice trasformare miserie in fortune, ma tutti lo credevano possibile e provavano a farlo. Il padre di Giacinta, cugino alla lontana di Umberto Fioravanti, faceva di professione il ciabattino, mestiere umile ma necessario, soprattutto perché la maggior parte degli abitanti di Pagazzano consumava in breve tempo le suole delle scarpe sui pedali delle biciclette o camminando nei campi per farli tornare a rendere come un tempo. Era un uomo piccolo, minuto persino nello sguardo, sempre incuneato tra il banco pieno di chiodi e di scarti di pellame e una parete sporca e impregnata dell'odore del lucido con il quale, a lavoro terminato, dava una passatina alle scarpe riparate. Lui, che viveva con la moglie Ilda e la piccola Giacinta, campava con poco e non vedeva l'ora che quell'unica figlia, alla quale non poteva trasmettere il proprio lavoro, si maritasse. Non che l'avrebbe data in sposa a uno qualunque, ma aveva cercato di convincere sua moglie che la ragazza non poteva certo fare la schizzinosa, vuoi perché di buoni partiti non ce n'erano, vuoi perché ormai aveva diciannove anni. Ciononostante, gli si sarebbe stretto il cuore se, per un malaugurato caso, Giacinta si fosse innamorata del figlio di Umberto. Quel ragazzo era troppo stolto e chissà quale generazione sarebbe mai discesa da lui. No, malgrado fosse l'unico erede dell'illustrissimo Sindaco, non gli avrebbe mai concesso la mano di sua figlia. - Sistemati quei capelli! Non vedi come sono disordinati? - Ilda, la mamma, rimproverava spesso, rassegnata, quella ragazzina tanto bella quanto incurante del proprio aspetto fisico. Giacinta non ascoltava mai le parole dei suoi genitori, non perché le difettasse l'udito, ma perché per natura era ribelle e rifiutava qualunque imposizione le provenisse da un adulto. E non si lasciava certo sottomettere neanche dai suoi parenti coetanei, malgrado fosse una femmina magra, quasi striminzita. Le uniche curve che stonavano nella sua figura erano quelle abbondanti del seno, per il cui peso aveva assunto un'andatura non proprio eretta, forse anche per vergogna o perché odiava sentire addosso gli sguardi dei pochi maschi del paese quando andava in bicicletta e il movimento faceva apparire i suoi seni ancora più voluminosi. Aveva avuto il ciclo tardi rispetto alle altre ragazzine e, a causa di questo sviluppo rallentato, faticava a sentirsi una donna. Tuttavia capiva che, a diciannove anni, non era più tempo di giocare. Suo padre, poi, le agitava sempre davanti lo spettro della miseria nella quale sarebbe sicuramente caduta se non si fosse decisa a maritarsi, ma solo dopo essersi trovata un impiego. Giacinta sbuffò mentre aiutava sua madre a rammendare i calzini o a svuotare il secchio dopo essersi lavata. La sera, prima di addormentarsi, coricata nel suo letto di ferro, aveva sognato di lasciare quel paese grigio per una città. Non le importava quale fosse, una qualsiasi sarebbe andata benissimo pur di non gettare la propria vita tra quella gente e i pettegolezzi di cui si nutriva. - Speriamo che la prendano a lavorare, sarebbe la sua fortuna! - disse sua madre mentre il padre, curvo sul banco, non allentava l'attenzione su aghi e chiodi. - La prenderanno, vedrai, ho messo una buona parola con l'Umberto! - - In cambio di cosa? - rispose Ilda, la moglie di Ettore il ciabattino. - Prova a immaginarlo... - - Non gli risuolerai le scarpe senza prendere una lira, spero? - - È un investimento, cara moglie, è un investimento! Ma ho promesso che lo farò solo nel caso in cui Giacinta non sia ben accetta da loro, anzi da lui, il signor Annibale Ferrari! - - Quando la vedrà, magari Giacinta lo conquisterà, ma se soltanto lui dovesse chiederle qualcosa che non le aggrada, vedi tua figlia come risponderà invece di mordersi la lingua e pensare a noi. - - Lascia fare al buon Dio, cara, Lui sa sempre cosa sia meglio per noi. - - Speriamo. - Giacinta, dal piano di sopra, aveva ascoltato quella conversazione tra disperati. Anche se amava i genitori, com'è naturale che fosse, non si sarebbe mai piegata per apparire diversa da quella che era. Se ne sarebbe infischiata, insomma, di fare moine ad Annibale Ferrari o di rispondergli nel modo in cui lui si sarebbe aspettato da una futura dipendente. La posta in gioco era un impiego come operaia, con gli abiti che, quanto prima, si sarebbero intrisi dell'odore del latte. E Giacinta odiava il latte, la nauseava, avrebbe preferito notevolmente svolgere altri mestieri insomma. Il bussare perentorio alla porta della bottega del padre, malgrado fosse chiusa per l'ora di pranzo, interruppe le sue elucubrazioni ribelli. Era Francesco, il figlio dell'illustrissimo Umberto, e ripassava goffamente tra le mani un berretto di velluto che non aveva più alcun colore, tanto lo aveva usato per mascherare la propria timidezza. - Oh Francesco, vieni e accomodati su questo treppiedi! - gli disse Ettore, per nulla stupito nel vederlo. - Ehm... mio padre mi ha detto di venire qui perché dovrei accompagnare Giacinta alla fabbrica... - - So andarci benissimo da sola - intervenne dalla scala Giacinta, che si precipitò giù come una furia sentendosi trattata da sciocca. - Ma no, Giacinta, è meglio, credimi, se ti accompagna Francesco, lui sa a chi rivolgersi là dentro! - - Niente da fare, signore, se vuoi che mi presenti in quel caseificio, lo farò da sola, non voglio accompagnatori né buone parole, è chiaro? - - Cara, ascolta, non ti inalberare così, Francesco resterà fuori, ti mostrerà solo il corridoio che conduce all'ufficio del signor Ferrari. - Giacinta, che non era disposta ad ascoltare altri tentativi bonari del padre di farle digerire quell'Annibale, girò la serratura della bottega e lasciò madre, padre e quell'imbecille di Francesco a guardarsi attoniti. Salì sulla bicicletta e quando iniziò a pedalare si accorse, sentendoli svolazzare, di aver dimenticato di pettinarsi i capelli. Girò per un‘ora buona senza pensare, lasciando soltanto che l'aria le portasse via il malumore e quel senso di soffocamento che provava quando i suoi genitori volevano imporle qualcosa. Poi, quando i polpacci cominciarono a ricordarle che era una ragazza e non un corridore, rallentò fino a fermarsi. Lì, un poco più a sud rispetto al centro abitato, era il punto migliore dal quale amava osservare il suo paese: da lontano, in modo che le apparisse meno grigio e privo di prospettive. Sembrava, infatti, che i contorni delle case, del campanile romanico un po' sgangherato e delle mura sberciate non fossero poi così malconci rispetto a come si presentavano da vicino. E poi la fabbrica era un po' meno tetra vista da laggiù, mentre Giacinta, sdraiata nell'erba alta del campo, la spiava stagliarsi sullo sfondo del solo orizzonte che conoscesse..
Daniela Vasarri
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