Da due giorni la pioggia cade copiosa e incessante da un cielo plumbeo, ma la città sembra non accorgersene. La vita delle persone si intreccia a ogni angolo, sotto ogni terrazzo in cui si cerca un minimo riparo. Lucia, testa bassa e camminata incerta, avanza senza meta fra persone frettolose e distratte, non è altro che un punto rosso in una moltitudine di ombrelli. Gocce brillanti si rincorrono lungo i suoi boccoli chiari, bagnati dalla danza di tele attorno a lei. Nessuno nota gli occhiali scuri che indossa, nonostante la giornata uggiosa. Le lacrime che le rigano il viso, fino a perdersi nell'angolo della bocca marcata da un filo di rossetto, sono nascoste dalla pioggia: la stessa acqua che ha lavato via da quello stesso angolo di bocca un rivolo di sangue. L'ennesimo. A quarantacinque anni vive il terrore di finire come le donne negli articoli di cronaca nera, gli stessi che scrive per sbarcare il lunario. Oggi, ancora una volta ha sentito il calore avvilupparle il viso, quando la mano di suo marito si è abbattuta sulla guancia con un rumore sordo. Un'altra scena interrotta dal ciak, in cui lei è protagonista involontaria di un film senza sceneggiatura. Stavolta è bastato un caffè troppo leggero per far perdere il controllo a suo marito Giulio, un uomo che per amore non esiterebbe a ucciderla. Senza reagire ha lasciato la stanza, gli occhi di lui di nuovo al suo giornale. Come se non fosse accaduto nulla. Ha indossato l'impermeabile, buttato il cellulare e le chiavi di casa dentro la borsetta. Prima di uscire di casa, senza nemmeno sbattere la porta, ha preso l'ombrello da un'imitazione di un vaso Ming, stupido ricordo del loro primo incontro. Per ore ha attraversato le vie della città come una sonnambula, superato incroci e ignorato le persone incontrate. Inconsapevoli comparse nel suo copione. Mille volte si è detta che sarebbe stata l'ultima volta che lui avrebbe alzato le mani su di lei, e come ogni volta, mestamente tornava a casa, incantata dalle scuse e dalla promessa di non farlo più, per pensare che, in fondo, lui l'amava. Bastardo... Stronzo! Non può picchiarmi per...per un cazzo di caffè! Basta! Devo lasciarlo. Sì! Ma per cosa. Dove vado? Ho un lavoro di merda, pochi soldi... Di sicuro gli è già passata...Cercherò di stare più attenta magari... Sì. È colpa mia se è successo ancora... E anche questa volta sarà come tutte le altre, si diceva e si ripete ancora nel momento in cui realizza di trovarsi dall'altra parte della città, senza ricordare le strade percorse, senza aver guardato nulla o rivolto la parola ad anima viva. Smarrita in una zona talmente malfamata, infima, che probabilmente non avrebbe attraversato nemmeno in auto. Una Babele di etnie diverse che ha soppiantato i vecchi abitanti, fuggiti in quartieri più sicuri e moderni. La via in cui si trova è stretta. Le poche macchine che transitano passano a fatica tra quelle parcheggiate in divieto di sosta dinnanzi a palazzi dalle facciate imbrattate da writer improvvisati. Non fa più caso agli schizzi che le arrivano sulle gambe, né ai suoi piedi che affondano nelle pozzanghere. Nonostante gli occhiali scuri, non più sufficienti a nascondere un'ellisse violacea, un lampo di colore arriva ai suoi occhi, e la strappa dal turbinio di pensieri nei quali era immersa. Dietro una macchina, parcheggiata a ridosso di un muro, si intravede una caviglia e una scarpa rossa. Istintivamente, osserva i suoi piedi: la stessa scarpa, per di più dello stesso colore rosso, il suo preferito. Sconcertata, torna a fissare quel corpo femminile in apparenza inanime, poi con calma si sposta di qualche passo per osservarlo meglio. Giace rannicchiato contro il muro di una vecchia palazzina, timidi movimenti indicano che è viva. A fianco, serrande arrugginite di negozi sfitti. Senza curarsi della pioggia che le scroscia addosso, si china sulla donna per prestarle soccorso. Timorosa, tocca delicatamente il braccio, avvolto nella morbida pelle di un giubbino in tinta con le scarpe. La donna emette un lamento quasi impercettibile, ma non si muove. Lucia non può far a meno di notare i capelli ricci biondi che cadono fradici sul viso e sulle spalle della malcapitata, in tutto simili ai suoi. Ancora una volta prova a toccarla. Alla cieca, cerca il cellulare in fondo alla borsetta, quando a un tratto la mano della donna le sfiora il braccio e con un filo di voce sussurra: - Sono... sono stata aggredita... - - Non si muova, chiamo il 118 - le dita scorrono sulla tastiera del cellulare. - No, la prego, non chiami nessuno - con tutte le forze rimaste stringe il braccio di Lucia, la implora di non chiamare nessuno. Chiude la chiamata nell'istante in cui un operatore del 118 risponde. - Come posso aiutarla? - lo sguardo fisso al labiale della donna, mentre ripone il telefono nella borsa. - Ha la macchina? - - Si... no, non qua - solo in quel momento si ricorda di aver vagato tutta la mattina senza meta. - Chiami un taxi, la rimborserò, se mi farà il favore di accompagnarmi a casa - la mano ancora stretta al braccio di Lucia, cerca invano di mettersi in piedi. Ripreso lo smartphone, compone il numero del radiotaxi. - Sì, ho bisogno di un taxi! - - La via? Sì... via... Novara 40 - si sposta di qualche passo dalla sua posizione per leggere il nome della via, scritto a vernice sul muro del palazzo d'angolo. Ci vuole quasi un'ora per arrivare a destinazione. La pioggia persiste a venir giù fitta e il terrazzo sopra il portone del 98 di via IV Novembre consente loro un minimo di riparo, intanto che la donna cerca le chiavi nella pochette nera. Un visibile tremore delle mani a causa del freddo, o forse silenzioso testimone dell'aggressione subita. Lucia deve tenerle il braccio e sostenerla, finché, con visibile sollievo si stende sul sofà nel suo appartamento al decimo piano. Nell'ambiente aleggia un gradevole profumo femminile. - Posso fare qualcosa per lei? Vuole che l'aiuti a spogliarsi? - domanda dopo qualche minuto, incerta su come comportarsi. - Mi aiuti ad alzarmi, poi potrà andare via. In quel cofanetto ci sono dei soldi, li prenda per il taxi - indica una credenza addossata alla parete. Sopra, una scatola di legno scuro di preziosa fattura, con alcune pietre incassate nel coperchio. Nuovamente in piedi al suo fianco, la osserva meglio. È alta, almeno un metro e settanta, e minuta. Per questo non ha fatto un grosso sforzo nell'aiutarla a sollevarsi in mezzo alla strada, né quando ha dovuto sorreggerla per camminare. Riflessioni silenziose accompagnano i suoi occhi umidi, testimoni anch'essi di violenza. Muove alcuni passi incerti verso la camera da letto, subito costretta ad appoggiarsi a un mobile basso posto dietro la spalliera del divano. - Aspetti, l'aiuto io - getta sul divano borsetta e impermeabile, sfilato in un battito d'ali. - Non può fare nulla conciata così e dovrebbe andare all'ospedale per farsi controllare. Potrebbe avere qualcosa di rotto o qualche lesione interna - troppe volte ha riportato parole simili nei suoi articoli. - Non posso andare all'ospedale, non così almeno - ancora un sussurro perso nella fatica di sfilare il giubbino fradicio. Indossa un tubino nero, appena sopra il ginocchio, abbinato a calze autoreggenti, ugualmente nere con delicati motivi floreali. Girata verso Lucia, indica con la mano la chiusura lampo sulla schiena, sottintendendo la richiesta di aiuto per abbassarla. Con il vestito libero, abbassa le spalline e lo fa scivolare lungo i fianchi fino a farlo cadere sui piedi. Puntellata al comò di fronte al letto alza un piede, poi l'altro per liberarsene. Lucia non può fare a meno di notare il corpo snello e le lunghe gambe affusolate. Indossa un paio di culottes nere di pizzo abbinate al reggiseno raffinato, sicuramente di marca. Sulla schiena due vistosi lividi e altrettanti sulle braccia, oltre a qualche escoriazione macchiata di sangue rappreso. Imbarazzata dalla presenza dell'estranea, sparisce alla sua vista. Dallo scrosciare dell'acqua della doccia Lucia intuisce sia entrata in un bagno attiguo. I pensieri della mattina e l'ennesima ferita al cuore delle otto sono ormai passati in secondo piano. La voglia di sapere cosa sia successo a quella donna le ha fatto riprendere il controllo di sé. Tornata nel salotto solleva le tapparelle, e con un sospiro, si accorge che la pioggia ha iniziato a scemare. Si guarda attorno. Nonostante il cielo plumbeo, la luce crea delicati contrasti che le permettono di apprezzare la casa in cui l'ha portata il destino. L'ordine e la cura riposta nella scelta degli arredi e nei colori delle pareti, il buon gusto nella scelta di soprammobili e quadri hanno un che di familiare. Non cambierebbe nulla di ciò che vede. Contrapposta alla camera da letto scorge la porta della cucina. Senza pensarci due volte, decide di preparare un tè per la donna, certa che potrà riscaldarla e confortare entrambe. Anche la cucina rivela la stessa cura utilizzata nel soggiorno. Niente fuori posto, se non una tazzina da caffè presumibilmente sporca nel lavello. I canovacci appesi vicino riprendono i motivi del placcaggio sul muro e il colore della cucina componibile. Molto gradevole. Intenta a far funzionare la teiera elettrica a fianco al microonde, sobbalza, sorpresa da una voce dietro di lei. - L'interruttore è di fianco, sulla destra. - È più intensa di quella dolorante che ha sentito qualche istante prima, ma ancora incerta e, soprattutto, non femminile. Intimidita si volta nella direzione da cui è giunta. Senza dubbio un uomo, avvolto nell'accappatoio e appoggiato allo stipite della porta.
Sabrina Mills
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