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Autore: Vincenzo Corsa
Il Grande Pellegrinaggio
Storico Avventura
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Il Grande Pellegrinaggio
Il 27 novembre del 1095 l'ultimo giorno del Concilio di Clermont, Papa Urbano II pronunciò il seguente discorso per la chiusura dei lavori dei cardinali. Come ha tramandato Fulcherio di Chartres egli si espresse con queste parole.
- È impellente che vi affrettiate a marciare in soccorso dei vostri fratelli che abitano in Oriente. I Turchi e gli Arabi si sono scagliati contro di loro e hanno invaso le frontiere della Romania (Impero Bizantino) fino al luogo del Mar Mediterraneo detto Braccio di San Giorgio (Stretto dei Dardanelli). Hanno messo a soqquadro tutte le Chiese e devastato tutti i paesi sottoposti alla dominazione cristiana. A coloro che, partiti per questa guerra santa, perderanno la vita sia durante il percorso di terra, sia attraversando il mare, sia combattendo gli idolatri, saranno rimessi per questo stesso fatto tutti i peccati. Niente dunque ritardi la partenza di quanti parteciperanno a questa spedizione: diano in fitto terre, raccolgano tutto il denaro necessario al loro mantenimento e, non appena l'inverno sarà finito e cederà alla primavera, si mettano in cammino sotto la guida del Signore... -
Più pesante, incisivo e cruento, invece, è il resoconto che riporta Roberto il Monaco nella sua Historia Hierosolymitana, dello stesso discorso tenuto del Papa:
- I Turchi hanno distrutto completamente alcune chiese di Dio e ne hanno trasformate altre a uso del loro culto. Di altre insozzano gli altari con le loro porcherie; circoncidono i cristiani macchiando gli altari col sangue della circoncisione, oppure lo gettano nel fonte battesimale. Si compiacciono di uccidere il prossimo squarciandogli il ventre, estraendone gli intestini, che legano a un palo. Poi, frustandole, fanno ruotare le vittime intorno al palo finché, fuoruscendo tutte le viscere, non cadono morte a terra. Altre le legano al palo e le colpiscono scoccando frecce; ad altri ancora gli tirano il collo per vedere se riescono a decapitarli con un sol colpo di spada. E che dire degli orripilanti stupri ai danni delle donne cristiane? - .
Un anonimo storico, dei secoli successivi, è più cauto e dice che la sua è la versione fedele delle parole pronunciate da Urbano II e questo è ciò che ha tramandato. Forse, la sua versione, è un po' più consona alla figura di un Papa ma anch'essa è intrisa di subdola propaganda per ispirare odio e rancore negli animi di gente ingenua e facilmente influenzabile.
- Soprattutto vi sproni Il Santo Sepolcro del Signore Salvatore nostro, ch'è in mano d'una gente immonda e i luoghi santi, che ora sono da essa vergognosamente posseduti e irriverentemente insozzati dalla sua immondezza(...) La nobile razza dei Franchi deve andare in aiuto dei fratelli cristiani d'Oriente. I turchi infedeli stanno avanzando verso il cuore della cristianità orientale, i cristiani sono oppressi ed attaccati, le Chiese ed i luoghi sacri sono stati contaminati. Gerusalemme geme sotto il gioco dei Saraceni. Il Santo Sepolcro è in mani musulmane ed è stato trasformato in moschea. I pellegrini vengono perseguitati e viene persino impedito loro l'accesso alla Terra Santa. Prendete la via del Santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente scellerata e sottomettetela a voi: essa da Dio fu data in possesso ai figli di Israele: come dice la Scrittura, in essa scorrono latte e miele (...) Tutto l'Occidente deve marciare in difesa dell'Oriente. Tutti devono andare, ricchi e poveri. I Franchi devono interrompere le loro liti e guerre interne. Lasciateli andare invece contro gli infedeli e combattere una guerra giusta. Vi condurrà Dio stesso perché sa fare il suo lavoro. Ci sarà l'assoluzione e la remissione dei peccati per tutti coloro che muoiono al servizio di Cristo. Quelli che qui sono poveri e miserabili peccatori, lì saranno ricchi e felici. Che nessuno esiti e questo sia l'unanime grido di tutti i soldati di Dio. Dio lo vuole! Dio lo vuole! -
Vediamo adesso il clima politico che sussisteva in quel periodo. Il papa Urbano II aveva convocato, nella città di Piacenza, il suo primo concilio nel mese di marzo del 1095. Durante tale concilio, giunse un'ambasceria di Alessio I Comneno, imperatore di Costantinopoli, che aveva inviato al Papa Urbano forse per convincerlo a ottenere il suo aiuto nel reclutare mercenari franchi che potessero supplire alla mancanza di soldati nell'esercito bizantino e lo potessero aiutare contro gli attacchi che i Musulmani avevano intensificato contro i suoi possedimenti. In quel periodo i Turchi Selgiuchidi avevano ripreso l'attività bellica, dopo un periodo di stasi durato tutto il X e parte dell'XI secolo e minacciavano la stessa capitale dell'impero, Costantinopoli, spingendo le loro attività a meno di cento chilometri da essa. Forse fu questa richiesta che fece nascere nella mente del papa l'idea di un pellegrinaggio armato da inviare nel vicino Oriente. A questo va aggiunto che i rapporti tra Oriente e Occidente non erano dei migliori dopo lo scisma dell'anno1054 causato dalle scomuniche reciproche che si erano lanciate a vicenda Leone IX, attraverso il suon legato cardinale Umberto di Silva Candida e Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli. Forse il Papa pensò che, agevolando la richiesta di Alessio, avrebbe potuto migliorare i rapporti tra le due chiese, se non sanare del tutto la frattura esistente e contemporaneamente, cercare di recuperare una certa influenza, alquanto deteriorata nei decenni precedenti nel mondo orientale, della Santa Chiesa Romana.
Nel suo viaggio verso la Francia, durante il quale cercò di appianare diversi problemi legati ai rapporti con Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, il Papa incontrò, nella cittadina di Le Puy, il vescovo Ademaro de Monteuil, il quale era reduce della guerra santa contro i mori in Spagna e sicuramente, con lui, concretizzò la sua idea che si trasformò, infine, in un piano di spedizione di truppe cristiane nel vicino Oriente. Infatti, è da questa città che inviò lettere a tutto l'episcopato francese per indire un concilio a Clermont-Ferrand. Forse tale città fu scelta per il semplice motivo che si trova quasi al centro geografico della Francia e così, tutti i partecipanti, sarebbero stati favoriti, nella stessa maniera, per raggiungere il luogo del convegno.
Incontrò anche Raimondo IV di San-Gilles conte di Tolosa e marchese di Provenza, il più potente dei feudatari del re francese nel sud del Paese e riuscì a convincerlo dell'idea che aveva concepito col vescovo Ademaro. Questi fu l'unico laico ad avere contatti diretti col papa e fu consultato da questi proprio perché anch'egli era reduce della guerra contro i mori in Spagna e forse, uno dei pochi, insieme al vescovo Ademaro, che avesse una sommaria conoscenza del nemico da combattere.
Forte del parere e dell'appoggio di questi due autorevoli personaggi, il papa, alla fine del concilio a Clermont-Ferrand, pronunciò il famoso appello del quale abbiamo riportato diverse versioni.
L'invito del Papa suscitò enorme scalpore in tutte le classi sociali e un vento di autentico entusiasmo religioso e anche di cieco fanatismo, imperversò per tutta l'Europa. Uomini, donne e bambini, di tutti i ceti, risposero alla chiamata del Papa, compresi religiosi di ogni tipo e grado. Questo però, era contro le precise direttive che il Santo Padre aveva impartito per la partecipazione al Santo Pellegrinaggio. Tali regole erano ben precise e vietavano la partecipazione al suo invito, a religiosi e ai non combattenti in genere.
La risposta del popolo minuto fu immediata e generosa ma, dall'altro canto, anche l'adesione dei nobili, anche se, più lenta, a causa dell'organizzazione logistica che fu necessaria predisporre, fu altrettanto compatta, consistente e veloce.
Si costituirono in tutta Europa quattro corpi d'armata:
1) L'Armata Franco-Normanna.
2) L'Armata Franco-Tedesca.
3) L'Armata della Francia de Sud.
4) L'Armata Italo - Normanna.
Ugo di Le Maisné conte di Vermandois, fratello del re di Francia, organizzò una piccola schiera a parte, indipendente dalle altre quattro spedizioni, che partì con estrema sollecitudine ancor prima che queste terminassero i preparativi.
Della prima armata facevano parte:
1) Roberto Courteheuse, duca di Normandia e la maggior parte dei suoi vassalli.
2) Stefano, conte di Blois e Chartres.
3) Roberto II conte di Fiandra.
4) Baldovino di Alost.
5) Numerosi cavalieri e fanti d'Inghilterra, Scozia e Bretagna.
Della seconda armata facevano parte:
1) Goffredo di Buglione.
2) Eustachio III conte di Boulogne, fratello di Goffredo.
3) Baldovino di Boulogne, fratello di Goffredo che partì con la moglie.
4) Baldovino di Le Bourg, cugino di Goffredo.
5) Baldovino II conte di Hainault.
6) Rainaldo conte di Toul.
7) Baldovino di Stavelot.
8) Garnier di Grez.
9) Pietro di Stenay.
10) Dudo di Konz-Saarburg.
11) I fratelli Enrico e Goffredo di Esch.
Della terza armata facevano parte:
1) Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa e marchese di Provenza che aveva sessant'anni e fece voto di rimanere in Terrasanta.
2) Rambaldo, conte d'Orange.
3) Gastone di Béarn, Isoardo di Gap, Ruggeri di Foix, Gerardo di Roussillion, Guglielmo di Guglielmo di Montpellier, Guglielmo di Sabran, Guglielmo di Urgel. Raimondo di Le Forez.
4) Il vescovo Ademaro di Monteil vescovo di Le Puy e i suoi due fratelli: Francesco-Lamberto e Guglielmo-Ugo. Egli rappresentava il papa nella spedizione.
Della quarta armata facevano parte i Normanni che si erano insediati, da relativo poco tempo, nell'Italia insulare e meridionale. Tra di loro, i nomi di maggior spicco che si potevano riscontrare erano:
1) Boemondo I d'Altavilla, conte di Taranto e di Bari, primogenito di Roberto II il Guiscardo.
2) Tancredi, nipote di Boemondo.
3) I cugini Riccardo, conte del Principato e Rainolfo di Salerno col figlio Riccardo.
4) Goffredo, conte di Rossignolo e i suoi fratelli.
5) Roberto di Ansa, Ermanno di Canne, di Monte Scabioso, Alberedo di Cagnano, il vescovo Gerardo di Ariano.
6) Roberto di Sourdeval e Boel di Chartres arrivati dalla Normandia e aggregatisi alla schiera di Boemondo.
Alle suddette armate bisogna aggiungere diversi comuni italiani e repubbliche marinare che parteciparono, con proprie truppe e navi, al Pellegrinaggio. Tra questi c'è da ricordare per il loro impegno:
1) Pisa.
2) Bologna.
3) Forlì.
4) Genova.
5) Venezia.
6) Noli.
7) Ancona,
8) Amalfi,
Questi furono i più eminenti protagonisti della guerra portata nel vicino Oriente, in aiuto di Alessio I Comneno, contro i Musulmani, divenuta poi guerra per la liberazione dei luoghi santi e infine denominata Crociata prima dai nemici e poi dallo stesso Papa che l'aveva bandita e dai suoi successori. In senso lato, coloro che si recavano nei luoghi santi, prendevano la croce e facevano voto di raggiungere Gerusalemme dove, solo nella chiesa del Santo Sepolcro, tale voto, sarebbe stato sciolto. La croce di colore rosso indicava la volontà, in tutti quelli che partecipavano al Pellegrinaggio, di versare finanche il proprio sangue per adempiere tale voto fatto. Chi non adempiva questi obblighi, insiti nell'atto di prendendo la croce, sarebbe stato scomunicato per sempre dalla Chiesa.
La stessa allocuzione - prendere la croce - non era stata presa a caso. Essa si rifaceva ai Vangeli (Mt 11,38; Mc 8,34; Lc 9,23) che, imitando le parole di Cristo, coinvolgeva tutti coloro che partecipavano a tale impresa, a essere consapevoli e responsabili di quale e di che portata di impegno si facevano carico.
Dopo tutta questa premessa, una domanda viene spontanea alla mente ed è questa. Se tutta questa gente partì senza piani precisi di conquista, ma solo con compiti di aiuto ai fratelli della Chiesa d'Oriente per contenere l'avanzata Musulmana, come mai il Papa imponeva lo scioglimento del voto nella chiesa del Santo Sepolcro che non era assolutamente nei piani di costoro raggiungere? Come vedremo, è nel corso delle operazioni, che la spedizione conduce quotidianamente, che essa, procedendo senza alcuna meta preventivamente programmata, raggiunge Gerusalemme, senza che nessuno abbia mai avuto propositi di inserire tale città nei loro piani di conquista.

CAPITOLO I
- Deus le volt" Questo è il grido che risuonava per tutta l'Europa in risposta all'appello fatto dal Papa da Clermont Ferrand il 27 novembre del 1095 e gli abitanti della maggior parte dei Paesi d'Europa, dal più piccolo borgo alle più grandi città, erano pervasi di sacro furore verso chi profanava le chiese, gli altari, che stupravano le donne e massacravano i Cristiani del vicino Oriente.
Questo furore era mantenuto vivo e pulsante nei fedeli, dalla predicazione dei vescovi per diretto imperativo suggerimento del Papa. Per quanto zelo potessero mettere questi prelati nell'obbedire al Sommo Pontefice, c'era chi li superasse di gran lunga in questo loro compito. Tali campioni della predicazione erano pervasi da sacro fervore che sfociava nel puro fanatismo che li esaltava a tal punto da proferire allocuzioni che, facendo leva sugli animi e sui sentimenti di coloro che li ascoltavano, povera gente senza una pur minima parvenza culturale, provocavano odio, rancore e voglia di uccidere genti che neanche conoscevano. Eseguivano sì i dettami del Papa, ma in maniera molto personale, colorita, fantasiosa e galvanizzante, suscitando, come abbiamo detto, in tutti quelli che li ascoltavano, la brama di recarsi nei luoghi Santi per vendicare i fratelli in Cristo e trucidare gli infedeli che osavano fare le nefandezze che venivano loro così coloritamente descritte.
Tra tutti questi predicatori spiccava, per tali specialissime carismatiche caratteristiche, un piccolo frate, Pietro d'Amiens, meglio conosciuto, come Pietro l'Eremita che, con la sua predicazione, infervorò gli animi di tutti quelli che lo ascoltava e riuscì a trascinare con se, circa quindicimila persone, compresi donne e bambini, lungo il suo cammino di predicazione da Bourges in Francia a Colonia in Germania. La sua voce altisonante e accattivante, arringava tutti quelli che lo ascoltavano con tale maestria, da soggiogarne completamente la loro volontà tanto da farli sembrare quasi dei plagiati. Nessuno degli ascoltatori poteva sottrarsi alla sua retorica che era di tipo coinvolgente e trascinante ed essa scaturiva da doti naturali e non da studi e titoli di studio che, certamente, non aveva mai conseguito.
- Unitevi a me, uomini di poca fede, offrite in sacrificio le vostre vite, per la grandezza di Dio nostro Padre. Nel vicino Oriente gli infedeli stanno dissacrando le case del Signore nostro Gesù Cristo e stuprano le sue figlie innocenti. Unitevi a me e guadagnerete la vita eterna. Il Papa ha promesso, a tutti coloro che partecipano a questa impresa, il perdono dei peccati. Anche se non raggiungerete la meta e doveste morire nell'intento di farlo, sarete accolti, lo stesso, nelle braccia misericordiose di Dio. Uomini di poca fede, il Signore vi guarda e vede nelle vostre anime e chi non accoglie la Sua chiamata, sarà dannato per sempre. Animo dunque, seguite i vostri cuori e venite con me a punire i blasfemi, gli empi, i sacrileghi, che disonorano le case del Signore e stuprano le donne cristiane. Venite e non preoccupatevi di niente che, in questa impresa, Ci saranno pane e gloria per tutti. Il Signore vostro Dio provvederà ai vostri bisogni e al vostro sostentamento. Non temete e abbiate fede nella Provvidenza Divina! Se ora siete poveri e peccatori, in Terra Santa sarete ricchi e perdonati. Animo figlioli! - Dio lo vuole - ! –
Il suo seguito s'ingrossava sempre più perché la promessa di potersi riempire lo stomaco, era un'attrattiva irresistibile, specialmente per tutti quelli che non riuscivano a permettersi un tozzo di pane al giorno, per lenire la fame atavica che li tormentava continuamente e che permettesse loro di raggiungere vivi, il giorno dopo. Per tale ragione, quest'orda, ovunque passasse, faceva terra bruciata. Il loro comportamento era simile al flagello delle cavallette descritto nella Bibbia, che, ovunque si posassero, distruggevano tutto. Al grido - Deus le Volt - questi disgraziati razziavano e s'impadronivano di tutto quello che necessitavano per il proseguimento della missione che si erano preposti e, spesso e volentieri, anche di ciò che era superfluo o non era direttamente collegato agli intenti che perseguivano.
L'eloquenza di questo piccolo frate, come abbiamo accennato, non era né forbita né dotta ma, altisonante, incisiva e accattivante e colpiva le menti ingenue di quei poveretti. Era uno del popolo e capiva cosa desideravano i suoi simili e lui, se non gliela forniva subito, gliela prometteva con sicurezza assoluta. Era così carismatico che, quei derelitti, pendevano letteralmente dalle sue labbra. Era anche instancabile e sempre in movimento, sembrava che non dormisse mai ed era sempre a disposizione di tutti quelli che lo cercava. Era prodigo di consigli e d'incitamenti per tutti quelli che li richiedevano o dimostravano di averne bisogno e era sempre vigile per prevenire ogni parvenza di cedimento o di sconforto che potesse insinuarsi nelle loro menti. Il suo compito primario era quello di mantenere sempre vivo il loro interesse, per il raggiungimento dello scopo che egli si era prefisso e sempre alto il loro morale.
- Fratelli, andiamo a Colonia, quella è la nostra meta per ora. Là incontreremo altri fratelli che ingrosseranno le nostre file e saremo tanto forti, da poter vincere la battaglia che intraprenderemo per Nostro Signore. Ricordate che il nostro compito è di sterminare tutti gli infedeli che profanano le chiese cristiane e punire gli stupratori delle donne cristiane innocenti -.
Chi era questo Pietro detto l'Eremita? Vale la pena di saperne un po' di più su questo personaggio che ha lasciato un'impronta così profonda e indelebile, in un periodo storico molto travagliato e discusso. Nacque nella Piccardia, regione a nord della Francia, con un piccolo sbocco sulla Manica, dove aveva vissuto disordinatamente la sua giovinezza tra sregolatezze e nefandezze di ogni genere. A un certo punto, stanco di tutto ciò che aveva combinato e resosi conto di essere insoddisfatto della vita che conduceva, si ritirò in un convento, dove trascorse il suo tempo tra digiuni, astinenze, preghiere e vita contemplativa con la stessa caparbietà, sregolatezza e disordine che aveva condotto in precedenza. Dopo l'appello del Papa, si convinse di essere investito da Dio per guidare quelli che partivano per il Santo Pellegrinaggio e per tale motivo, pose fine alla sua volontaria clausura e si mise a predicare a tutti i diseredati che gli capitavano sotto tiro. Fisicamente era di bassa statura e di carnagione scura, faccia lunga e magra, andava sempre a piedi scalzi e indossava un mantello da monaco che non toglieva mai e per questo, fu anche soprannominato - Cocolla - . Tale saio era lacero e sporco poiché riteneva superfluo, come la maggior parte della gente del suo tempo, ogni tipo di pulizia e d'igiene personale e si muoveva, per i suoi spostamenti, sempre a dorso di un asino. La sua predicazione spaziò da Amiens e in tutta la Francia del nord-ovest, fino a Colonia, dove condusse la massa di derelitti che aveva raccolto lungo la sua predicazione itinerante.
Le cause che permettevano a questi sedicenti predicatori, di raccogliere un così vasto seguito, erano molteplici e tutte assolutamente valide. Tra queste indubbiamente, c'erano: la fame, il malcontento, le malattie, la vita grama, l'insicurezza di giungere vivi al mattino seguente e, soprattutto, le promesse che essi facevano così facilmente, liberamente e con estrema sicurezza, a quei poveri disgraziati che pendevano, quasi letteralmente, dalle loro labbra.
La promessa di cibo, del perdono dei peccati e la possibilità di guadagnare oro nelle terre del vicino Oriente, erano uno stimolo e una leva veramente formidabili per spingere tutta quella gente a intraprendere un'avventura del genere. Nessuno di loro, salvo poche eccezioni, sapeva leggere né aveva cognizione di dove stessero andando né dove si trovasse la meta del loro pellegrinaggio, ma le allettanti parole dei predicatori, erano sufficienti a farli arrivare anche in capo al mondo. C'è da aggiungere che la predicazione in genere, fatta da uomini di tale levatura culturale, aveva generato un equivoco tra la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena, tra le esigenze della carne e gli aneliti dello spirito. La maggior parte della gente credeva di muoversi per raggiungere il paese del latte e del miele, il paese dell'abbondanza, dove tutto sarebbe stato dato loro gratis e sarebbero diventati ricchi e perciò, erano oltremodo impazienti di arrivarci. La richiesta più impellente, che si levava dalla bocca di questa miriade di derelitti, era sempre la stessa.
- Pietro, abbiamo fame! –
Con molta facilità, questo sedicente predicatore, questo fasullo esponente del clero, incitava la gente a prendere quello di cui aveva bisogno senza nessun rispetto sia delle convenzioni sociali, cioè delle leggi terrene, sia di quelle divine, cioè dei Comandamenti di Dio.
- Fratelli andate e prendete gratuitamente, come ha detto Cristo, tutto quello che vi necessita e mangiate a volontà senza spendere niente, com'è scritto nella Bibbia, perché tutti dobbiamo avere le stesse cose. Se i contadini hanno il beneficio di mangiare, anche noi possiamo e dobbiamo avere lo stesso privilegio, perché siamo tutti uguali agli occhi del nostro Creatore -.
Con tali premesse, corroborate sempre da personali e molto libere interpretazioni delle sacre Scritture da codesti predicatori, per tale gente tutto era lecito e, ovunque passassero, prendevano e divoravano tutto quello che era possibile toccare e portare alla bocca, dimenticandosi di uno dei comandamenti che Dio ci ha dato, quello di rispettare la proprietà degli altri.
Intanto in Germania, dove la predicazione sollecitata dal Papa non aveva avuto la diffusione da lui tanto desiderata e auspicata, il fermento del popolo era molto più contenuto e non si assisteva a dimostrazioni d'isterismo e fanatismo religioso che, in Francia, imperversavano in ogni contrada. L'arrivo di Pietro, con la sua predicazione e col suo seguito, almeno nei luoghi che toccò, colmò questa lacuna e oltre al popolino, attrasse a se anche qualche nobile squattrinato e senza terre che intravedevano, nella spedizione, la possibilità di rimpinguare le loro misere finanze, con i bottini che avrebbero potuto procurarsi, razziando i ricchi territori dei nemici. Tra questi nobili, spiccano: Gualtiero di Teck con tre figli del conte di Zimmern, Gualtiero Senza Averi, Ugo di Tubinga, il conte Enrico di Schwarzenberg e altri piccoli nobili che si presentarono a Pietro per dichiarargli la loro disponibilità e la propria adesione alla causa.
Alla sua presenza si misero in ginocchio e con le spade sguainate nelle loro mani, gli sottoposero ufficialmente la loro richiesta.
- La nostra spada e la nostra vita li mettiamo al servizio della causa. Ci impegniamo, con solenne giuramento, a raggiungere, al tuo servizio, il vicino Oriente e di combattere gli infedeli, nemici dei nostri fratelli nella fede, come decretato da Sua Santità. In questo modo dichiariamo di essere disposti a prendere la croce, con tutto quello che ne consegue, come decretato dal Papa -.
Pietro, dal canto suo, che gongolava d'orgoglio dentro di se per aver conquistato alla sua schiera anche dei nobili, si dimostrò magnanimo, comprensivo e paterno, nei loro confronti.
- Accetto il vostro giuramento figlioli, v'informo però che il Papa ha sentenziato che, chiunque indossa la croce, non può più tornare sui suoi passi pena la scomunica perenne. Il voto che pronunciate alla mia presenza, può essere sciolto, secondo le disposizioni emanate da Sua Santità, solo nella chiesa del Santo Sepolcro, a Gerusalemme. Siete consapevoli di quello che ho appena detto, miei signori? –
- Si Pietro, siamo coscienti di quello che ci hai detto e siamo decisi a portare a termine il proposito che vogliamo intraprendere o morire nel tentativo di portarlo a buon fine e tutto questo, lo giuriamo alla tua presenza –.
- Alzatevi figlioli, e siate i benvenuti nelle schiere del Signore. Possa Dio darvi la forza di portare a termine questo vostro giuramento che liberamente avete fatto a Lui, davanti alla mia umile persona. -
L'intento recondito di questi nobili, ovviamente, era di arrivare nel vicino Oriente con una certa
parvenza di legalità e anche se a malincuore, si assoggettarono all'autorità di Pietro, sicuri di avere, in seguito, la possibilità di liberarsene e di prendere in mano le redini del comando ritenendosi più consoni e più preparati, per tale compito, di un frate venuto dal popolo privo di ogni qualità e conoscenza bellica.
Prima della fine di aprile, Pietro si mosse con le sue cosiddette - truppe - alla volta verso il vicino Oriente per raggiungere Costantinopoli sulla via che il Papa aveva chiamato - Via per Gerusalemme - , cioè l'attraversamento di tutta l'Europa centrale, da ovest a est. Impresa questa che ha dell'incredibile, visti i mezzi e le disponibilità di questi nullatenenti. Lo spostamento così massiccio di gente senza nessuna organizzazione né logistica, causò enormi problemi e ingenti disagi ai popoli dei Paesi che attraversarono.
Quegli elementi della piccola nobiltà che si erano accodati alla sua spedizione, mal sopportando il lento e monotono trasferimento che Pietro imponeva al suo seguito, decisero, con alcune migliaia di uomini, sotto il comando di Gualtiero Senza Averi e di altri nobili, anche perché forniti di cavalcature, di raggiungere autonomamente Costantinopoli e perciò, abbandonarono, non senza disappunto di Pietro, la colonna. Alla fine di maggio, questa gente, raggiunse la meta, senza tanti problemi e difficoltà, come invece successe allo stesso Pietro e ad altre compagini che si avviarono sulla sua scia.
Quando Pietro iniziò il suo cammino verso Costantinopoli, alle sue spalle lasciò, chi per una ragione chi per un'altra, diversa gente e per non lasciarli senza compiti, li incaricò di mantenere vivo, con la predicazione, l'interesse per il Pellegrinaggio in modo da fornire sempre nuove forze all'impresa, se fossero state richieste. Infatti, prima di partire così parlò ai suoi sedicenti discepoli, incitandoli e motivandoli.
– Fratelli, vi lascio qui perché, con l'aiuto del Signore, continuiate a predicare il Pellegrinaggio e perché manteniate sempre alto l'interesse in chi è rimasto indietro, come vuole Sua Santità. Siate fecondi e convincenti nella vostra predicazione e inviate sempre rinforzi sulla - Via per Gerusalemme - , perché non sono mai troppe le forze per vincere il male. E tutto questo per la gloria di nostro Signore Gesù Cristo -.
Infatti, altre tre spedizioni partirono dalla Germania al comando di altrettanti personaggi di natura, non troppo caritatevole né animati da fervore religioso. Questi sono: i preti Volkmar e Gottschalk e il conte Emich di Leiningen. Quest'ultimo personaggio, a tutti gli effetti, era un brigante uso alla violenza, al sopruso e all'estorsione, un uomo senza pietà che, ai suoi più stretti accoliti, quando vide la buona occasione che si presentava e ne valutò il potenziale economico che poteva trarne, così parlò.
- Amici miei, questa è la volta buona che potremo rimpinguare le nostre casse tanto da far dimenticare il nostro passato. Bisogna che sfruttiamo questo momento di fervore religioso e lo usiamo per il nostro vantaggio personale. Animo c'è da ricavare molto oro e saremo pure protetti dalla croce nelle nostre personali operazioni di prelievo. So io dove troveremo un ingente bottino e saremo anche ringraziati per ciò che faremo. Inizieremo il nostro pellegrinaggio da qui, senza percorrere molta strada. A Spira ci sono tanti Ebrei da spennare e tanto oro da raccogliere che diventeremo presto ricchi e saremo ringraziati da tutti quelli che sono loro debitori -.
Questa banda di malfattori, non c'è altro modo di definirla, si mosse alla volta di Spira il 3 maggio del 1096, ma l'intervento del vescovo della città salvò la comunità ebraica e solo una dozzina di questi malcapitati furono uccisi e il bottino fu molto magro, secondo le aspettative di tali scellerati. Questi sedicenti difensori della fede, dopo quella prima azione, si erano così esaltati e infervorati, che pensarono subito alla successiva scorreria, cercando di fare tesoro dell'esperienza fatta nella prima impresa per non ripetere gli stessi errori e migliorare le loro entrate.
- Questa volta non ci sarà nessun vescovo che si frapporrà tra noi e il nostro bottino, Worms è il nostro prossimo obiettivo e guai a chi s'intrometterà per impedirci di esercitare il nostro diritto di prelievo. Se qualche morto cristiano sarà trovato tra gli Ebrei, non sarà una gran perdita per nessuno -.
– Signore, penso che questa volta dovremmo cercare di essere più silenziosi e discreti, senza sbandierare a chicchessia le nostre intenzioni e così piomberemo di sorpresa sul nostro obiettivo e non daremo tempo a nessuno di organizzare qualche tipo di difesa e potremo agire indisturbati -.
L'azione che intrapresero contro Worms, iniziò il 20 maggio e costò la vita a più di 500 ebrei e le cose, dal loro punto di vista, andarono sicuramente meglio. Quei poveri disgraziati Ebrei furono trucidati e spogliati dei loro averi e le loro case furono saccheggiate e qualcuna, anche incendiata. Tanti di questi meschini furono uccisi nel palazzo vescovile dove, il vescovo locale, aveva dato loro rifugio e non fecero, come si erano prefissi, molta attenzione se tutti i morti fossero circoncisi. Con quest'azione, sfidando direttamente la Chiesa, si misero contro di essa, ma questo non era molto importante per loro e per i fini che si erano preposti e certamente, non turbava le loro coscienze.
- Se continuiamo in questo modo, non ci sarà bisogno di allontanarci molto da casa per diventare ricchi. Gli Ebrei sono grassi polli da spennare e nessuno se ne dorrà molto –.
Così spronava il conte Emich i suoi accoliti.
- La Germania è piena di ricchi Ebrei da punire, Signore, perché, alla fine, sono loro che hanno ammazzato Cristo e noi li ricambieremo con la stessa moneta e, per il disturbo, ci prendiamo il loro oro. La maggior parte della gente odia gli Ebrei e per questo, saremo anche ringraziati per quello che facciamo -.
- Ben detto mio fido Goffredo, nessuno ci ostacolerà in questa nostra impresa che ci farà ricchi e ci regalerà una nuova rispettabilità. Amico mio, i debitori degli Ebrei sono tanti e noi avremo sempre l'appoggio e il consenso di costoro in quest'atto di giustizia -.
La tappa successiva fu Magonza dove il vescovo Rothard fece trovare, le porte della città chiuse ma, a nulla valse questa sua mossa preventiva, perché c'erano nella città, molte persone che, come il conte pensava, avevano interesse a che il massacro fosse perpetrato e, le porte, furono anonimamente aperte durante la notte. Emich e i suoi, entrarono in città il 25 di maggio e il massacro e il saccheggio si protrassero per ben quattro giorni e i morti furono più di un migliaio. Lo stesso arcivescovo fu costretto a fuggire per salvare la sua vita da quella marmaglia senza Dio. Il Bottino fu ingente e le loro file, dopo questa impresa così redditizia e con le prospettive che si auguravano, s'ingrossarono tanto da diventare un vero esercito. Il loro arrivo a Colonia fu preceduto da rivolte anti semite e, diversi Ebrei, cercarono rifugio nelle campagne invece di attendere la morte in città. La sinagoga fu incendiata e solo un uomo e una donna furono uccisi perché rifiutarono di abiurare, poiché il vescovo riuscì a evitare altri eccessi. Dopo Colonia Emich, intuì il pericolo che le sue azioni stavano sollevando e si diresse con la maggior parte delle truppe, fuori dalla Germania, andando verso l'Ungheria. Una parte dei suoi uomini, allettati dal facile bottino cui si erano abituati, preferì continuare quelle comode scorrerie in patria. Prima di partire, Emich parlò col suo braccio destro e gli disse.
- Mio caro Goffredo, è tempo di migrare, alcuni amici mi hanno avvertito che l'imperatore sta sul punto di perdere la pazienza e sono convinti che non passerà molto tempo che gli Ebrei riusciranno a smuoverlo dalla sua inattività e allora per noi ci saranno momenti brutti ed io penso sia opportuno toglierci di mezzo. Io ho intenzione di dirigermi a Est. Farò credere a tutti di intraprendere la Via di Gerusalemme come tutti quelli che hanno risposto all'invito del Papa. Lungo la strada ci saranno certamente altre comunità ebraiche da depredare ed eliminare e non è detto che dovremo raggiungere assolutamente Gerusalemme –.
- Conte, io non credo che l'imperatore si muoverà tanto presto per aiutare gli usurai. Non dimentichiamo che anche lui deve ingenti somme agli Ebrei e sono convinto che, dentro di se, egli sia contento del servizio che stiamo compiendo. Io rimango qui con gli uomini che non intendono muoversi dalla Germania. Sono convinto che ancora per qualche tempo, nessuno ci ostacolerà in questa nostra attività di risanamento -.
Alla fine, Goffredo fece male a non ascoltare il consiglio del suo amico. Infatti, poiché stavano diventando un concreto pericolo anche per il resto della popolazione e non solo per gli Ebrei, essi furono affrontati e sterminati dalle truppe dell'imperatore Enrico IV. L'intervento imperiale fu sollecitato se non da principi di carità e di giustizia, dall'insistenza delle petizioni dei suoi creditori Ebrei che gli prospettarono, in cambio di una sua azione in loro favore, un ottimo trattamento delle condizioni per la restituzione dei suoi debiti e diversi depennamenti di crediti da esigere nei suoi confronti.
Emich, allontanatosi dalla Germania, come sua indole, continuò le sue scorrerie sulla strada per l'Ungheria. Nel frattempo si erano aggregati alla sua schiera alcuni Svevi, alcuni pellegrini della Renania, della Francia orientale, della Lorena, delle Fiandre e anche dell'Inghilterra e, tutti insiemi, erano ormai più di trentamila, si avviarono verso l'Ungheria, sulla - Via di Gerusalemme - , sulla quale Pietro li stava precedendo, non senza qualche difficoltà.
Un altro personaggio di cui ci dobbiamo occupare è Gottschalk, un cittadino della Renania. Anche lui era un prete contrario alla riforma sollecitata dalla predicazione dei patarini, i quali esortavano la Chiesa a un ritorno verso gli umili costumi dei primi secoli. Questo prete, sentendo i sermoni di Pietro, si era messo a predicare egli stesso, raccogliendo intorno a se un folto gruppo di diseredati, di cavalieri senza risorse e altro, sia dalla Lorena, dalla Francia orientale e sia dalla Baviera. Erano circa quindicimila persone e a differenza di altre compagini, erano provvisti di una gran quantità di denaro e di un notevole supporto logistico, necessario per la sopravvivenza di tanta gente e poco dopo la partenza di Pietro l'Eremita, anche lui si mise in viaggio sulle sue tracce. Come altri, non disdegnò di occuparsi attivamente della questione ebraica durante il viaggio di trasferimento verso il vicino Oriente. Per mantenere alto questo interesse dei suoi accoliti, continuamente li arringava con esortazioni di questo tipo.
- Non dobbiamo dimenticare che i nostri veri nemici sono gli Ebrei. Sono stati loro, razza maledetta, che hanno ucciso nostro Signore e, per questo, vanno puniti ed eliminati senza pietà. Gli Arabi e i Turchi, invece, sono degli infedeli che devono essere puniti per il loro comportamento contro i nostri fratelli cristiani –.
Per la cronaca bisogna dire che i Turchi non avevano mai osteggiato l'afflusso di pellegrini nei luoghi Santi. Essi ne avevano fatto un commercio lucroso cui non rinunciavano facilmente. Infatti, da ogni pellegrino, pretendevano un obolo per concedere il salvacondotto di transito per raggiungere Gerusalemme e non essere infastiditi durante la loro permanenza nei luoghi sacri.
Quando Gottschalk arrivò in Ungheria, fu abbastanza furbo da negoziare con Re Coloman ed ebbe da questi, il permesso di passare nelle sue terre e di acquistare viveri dalla popolazione locale. Poiché la sosta si prolungava, alcuni uomini con la testa calda, come al solito, incominciarono a girare spadroneggiando, compiendo soprusi, infastidendo le donne e seminando, qua e là, qualche morto. Le lamentele del popolo arrivarono al Re che, per porre fine a tali soprusi, decretò che tutti i pellegrini deponessero le armi e uscissero dalla città e, quando fossero stati lontani, sarebbero state loro restituite e avrebbero potuto proseguire il cammino per raggiungere la loro meta. Gottschalk fu d'accordo con questa risoluzione per evitare lo scontro diretto con l'esercito ungherese e si prodigò presso i suoi perché ubbidissero a tale ingiunzione regale.
- Figlioli è d'uopo ubbidire a re Coloman per evitare lo scontro diretto con le sue truppe. Se oggi abbasseremo la testa, non è detto che domani non potremo avere la nostra rivincita. Animo, per ora, ubbidiamo e domani si vedrà. Chissà, forse in futuro potremo far ingoiare al re l'arroganza che sta usando nei nostri riguardi –.
Quando però, i pellegrini furono disarmati, il re, intuendo che per questo suo atto di forza avrebbe potuto avere dei problemi sgraditi se li avesse riarmati, li fece trucidare tutti, presso il villaggio Stuhlweissenburg, senza nessuna pietà e così finì la spedizione di Gottschalk. Il comportamento di Re Coloman avrà avuto pure le sue buone ragioni ma credo che sia stato molto eccessivo e privo di carità cristiana verso dei fratelli nella fede. Gli uomini trucidati non erano certamente degli stinchi di santi, ma neanche meritevoli di un simile trattamento barbaro e crudele in previsioni di possibili ripercussioni.
Stessa fine capitò agli uomini guidati dell'altro sacerdote, Volkmar. Nella loro avanzata verso l'Ungheria, lui e i suoi uomini si dilettarono, anche loro, a infastidire le varie comunità Ebraiche che incontrarono sul loro cammino. Questo comportamento verso gli Ebrei, lo giudicavano un esercizio propedeutico alle battaglie che avrebbero sostenuto. Appena giunsero alla prima grande città Nitra, in Ungheria, cercarono di dare mano libera ai loro istinti ma furono immediatamente affrontati e sbaragliati da Re Coloman che, memore degli eccessi e dei soprusi compiuti dai pellegrini che li avevano preceduti, non concesse loro la possibilità di combinare guai ed eliminò il problema alla radice, ancor prima che nascesse. Certamente non considerarono tali truppe come fratelli che andavano a combattere un nemico comune, ma come truppe d'invasione straniere. Non avevano tutti i torti.
Il terzo esercito, quello di Emich, molto più numeroso dei due precedenti e meglio organizzato, si apprestava a raggiungere Wiesselberg e in quell'occasione, Re Coloman fu seriamente preoccupato visto il numero così imponente degli uomini che lo componeva e anche per la parvenza di esercito regolare che offrivano.
– Ho ordinato alla guarnigione di Wiesselberg, di resistere e non far entrare, in città, questi sedicenti pellegrini. Ho promesso loro che invierò un contingente in loro aiuto il più presto possibile. Questi sono peggiori dei precedenti e i danni che potrebbero causare sarebbero incalcolabili. Siamo nelle mani di Dio, solo Lui ci può aiutare poiché, da questi cosiddetti fratelli nella fede, riceveremo solo guai e morte -.
I due eserciti si scontrarono per varie settimane, in continue scaramucce tese a ostacolare l'accesso in città di questa armata, dove il conte intendeva perpetrare il suo sport preferito. Quando, durante un ennesimo attacco, sembrò che la vittoria arridesse ai pellegrini e la conquista della città fosse a portata delle loro mani, inspiegabilmente tra gli aggressori si diffuse la notizia che un forte contingente di soldati, al comando dello stesso re Coloman, fosse diretto a Wiesselberg per aiutare i cittadini assediati.
Quando questa notizia circolò tra i tanghi, questi falsi difensori della fede, privi di ogni disciplina e coordinamento, furono presi da una tale pericolosa e contagiosa paura che in poco tempo portò questi coraggiosi soldati di Cristo a una fuga disordinata e ignominiosa. I difensori della città, accortisi dello sbandamento che regnava tra le file del nemico, decisero di approfittare di questo inaspettato vantaggio e uscirono coraggiosamente dalle mura e senza altro aiuto, ne trucidarono la maggior parte, nel caos di quella loro dissennata e disordinata fuga creata dal panico.
Una parte di sopravvissuti, con lo stesso Emich in testa, tornò a casa, scornati e abbattuti, ma anche soddisfatti sia del bottino arraffato e sia perché erano riusciti a salvare la vita. Altri invece, in seguito, incapaci di ritornare a una vita normale, si aggregarono alle schiere dei nobili e diedero poi vita, insieme ai superstiti dell'esercito di Pietro, ai famosi e tanto odiati e vituperati Tafur.
Intanto Pietro, proseguendo la sua marcia di avvicinamento a Costantinopoli, nel mese di luglio, arrivò a Nis e per le solite intemperanze di alcuni dei suoi, scatenò la reazione del governatore bizantino e un quarto della sua forza, circa cinquemila pellegrini, furono massacrati senza pietà in risposta alle loro vessazioni, ai loro soprusi e alle loro angherie. Pietro, per evitare nuovi spargimenti di sangue, pensò bene di fare atto di sottomissione per chiedere perdono all'imperatore e questi, attraverso il suo governatore, gli permise di continuare il suo viaggio. Così le sue truppe poterono proseguire il loro cammino e arrivarono a Costantinopoli, agli inizi di agosto, dove si ricongiunsero alla schiera di Gualtiero Senza Averi e degli altri impazienti che li avevano preceduti che, a quanto Pietro poteva costatare, erano stati i più fortunati di tutti quelli che erano partiti dalla Germania, perché non avevano avuto nessuno scontro e per tale motivo, avevano percorso tutta la traversata senza subito alcuna perdita.
– Ben arrivato Pietro, com'è andato il viaggio, noi con l'aiuto di Dio, siamo stati fortunati e non abbiamo corso nessun reale pericolo. Il nostro è stato un normale trasferimento senza quasi problemi di sorta –.
Pietro non poté negare le difficoltà e le disavventure che avevano funestato il suo trasferimento.
- Noi non possiamo dire la stessa cosa. Abbiamo avuto diverse difficoltà, dovute all'insofferenza e all'intemperanza di alcuni e alla cupidigia di altri. Parecchie migliaia di nostri sono stati uccisi ma, per volontà di Dio, noi siamo qui con voi, per continuare la nostra missione -.
- Non sono ancora finite le difficoltà, Pietro, l'imperatore Alessio non ci permette di attraversare lo stretto e ci consiglia di aspettare i baroni che non si sa quando arriveranno. Il Papa non ha ancora ufficialmente dato inizio al Pellegrinaggio e corriamo il rischio di rimanere bloccati qui ancora per molto tempo –.
A queste parole Pietro rimase un po' contrariato ma, subito dopo, disse al suo interlocutore.
– Non credo, vedrai che Alessio presto cambierà idea e sarà ben felice di farci traghettare, al più presto possibile, sull'altra sponda –.
Egli, conoscendo l'irrequietezza e l'insofferenza dei suoi uomini, pensò che presto l'imperatore sarebbe stato felice di poterseli togliere dalla sua vista. Infatti, i pellegrini crearono così tante difficoltà, liti e disordini, alle porte della città, che Alessio, alla fine, decretò che fossero traghettati immediatamente sulla sponda asiatica dello stretto per liberare Costantinopoli della loro nefasta presenza. L'imperatore assegnò loro una piazzaforte, Civitot, dove trovarono riparo e la elessero loro base. Pietro mentre si sistemavano nel nuovo acquartieramento, ebbe occasione di dire a Gualtiero Senza Averi.
– Come vedi in breve tempo abbiamo risolto il problema di superare lo stretto. Ora pensiamo alle prossime azioni -.
Nel frattempo, in seno a quest'accozzaglia di sedicenti difensori della fede, c'era stato un forte attrito che portò alla frattura del corpo di spedizione con i Francesi da una parte che rimasero fedeli a Pietro e gli Italiani e i Tedeschi dall'altra che, mal sopportando per varie ragioni la leadership di Pietro, elessero un proprio capo, l'italiano Rainaldo.
A Pietro non piaceva quella situazione poiché intuiva che le lotte intestine, non giovavano alla loro missione e indebolivano la loro possibilità di danneggiare il nemico e non perdeva occasione per ripeterlo a tutti quelli che lo ascoltavano. Ormai la spaccatura era compiuta e non c'era niente da fare per ricucirla, anzi le due fazioni che si erano formate, si guardavano in cagnesco, quasi dimenticando contro chi invece doveva essere rivolto il loro rancore.
- Figlioli, siamo qui per combattere i nemici di Cristo non per combatterci tra di noi. Rimaniamo uniti fratelli, poiché l'unione è la nostra forza. Divisi saremo una facile preda di questi infedeli che non aspettano altro che litighiamo tra noi per sopraffarci. Uniti siamo una forza che difficile da battere, divisi, al contrario, daremo un vantaggio supplementare ai nostri avversari –.
Parole vane che non sortirono il risultato desiderato e così i due contingenti, rimasero divisi con due capi diversi e principalmente, in un continuo antagonismo, dettato da invidie e gelosie, pronto a scoppiare in scaramucce sanguinose. Questo stato di cose portò, infine, a conseguenze disastrose, inimmaginabili.

CAPITOLO II
Nell'A.D.1096, tutta l'Europa era pervasa dai preparativi che le maggiori casate europee facevano per rispondere all'appello del Papa Urbano II e andare nel vicino Oriente a difendere la Cristianità dagli attacchi degli infedeli.
Dopo il via ufficiale all'inizio delle operazioni, dato dal Papa il 15 agosto, nel giorno della festa dell'Assunta, il primo a partire dalla Francia, fu Ugo Le Maisné, conte di Vermandois fratello del re di Francia. Anche se il suo esercito era piccolo, era molto efficiente, ben armato e con la logistica necessaria. Certamente fu spinto a partecipare al Pellegrinaggio, dal fratello Filippo I che voleva ingraziarsi il papa che lo aveva scomunicato per adulterio e al quale, di recente, si era sottomesso per implorare il suo perdono. Ugo scelse la via dell'Italia per poi attraversare il canale d'Otranto e seguire la via Egnazia che da Durazzo porta a Costantinopoli. Lungo la strada gli si affiancano alcuni cavalieri francesi che avevano avuto la ventura di partecipare alla disastrosa spedizione del conte Emich. Alcuni nomi attirarono la sua attenzione e volle interrogarli. Tra questi, Drogo di Neste, Cìarambaldo di Verduìl e Guglielmo il Carpentiere spiccavano per la maggiore importanza del loro casato. Quando questi personaggi furono alla sua presenza, così li interrogò.
- Ditemi miei signori, da dove venite e quali sono le ragioni della vostra presenza qui -.
Il più lesto a parlare fu Dogo di Neste, che cercò di accattivarsi la benevolenza dell'illustre personaggio parlando in maniera sottomessa e servile.
- Mio signore, la nostra è una ben triste storia, eravamo al seguito del conte Emich, signore di Leiningen, una schiera molto numerosa e agguerrita ed eravamo diretti nel vicino Oriente seguendo la - Via per Gerusalemme - come comandato dal Papa, ma la nostra marcia si è interrotta a Wiesselberg, dove gli Ungheresi hanno dimostrato di essere contrari alla volontà di Dio osteggiando la marcia verso Oriente dei Pellegrini inviati dal Papa. Ci hanno avversato strenuamente e c'è stata una strage cui pochi di noi, i più fortunati e valorosi, si sono potuti sottrarre. Siamo stati costretti, nostro malgrado, a tornare indietro avendo perso ogni possibilità di continuare il viaggio. Vagavamo senza meta non sapendo come continuare la nostra missione e mantenere fede alla promessa espressa col nostro voto. Il Signore nostro Dio, però, poiché desidera che noi continuiamo il nostro cammino e adempiamo il voto che abbiamo espresso, ci ha fatto incontrare Vostra Altezza e desideriamo accodarci a voi per tener fede al nostro giuramento. Poniamo le nostre spade al vostro servizio, mio signore, comanda e noi ubbidiremo -.
- Molto bene miei signori, il vostro aiuto ci è gradito, dimostrate il vostro coraggio e sarà anche apprezzato. Vi do il benvenuto nelle mie schiere e mi aspetto la vostra più completa disponibilità e obbedienza ai miei ordini. Potete andare -.
Come ben sappiamo, quello che dissero non era l'intera verità ma una versione asservita alle loro necessità e il signore che li aveva ascoltati, lo sapeva o lo immaginava, ma, qualche spada in più, non si rifiuta per vane sottigliezze etiche. Il suo più fidato collaboratore, il conte di Metz quando furono congedati i cavalieri si rivolse a lui in questi termini.
– Mio signore, questi sedicenti cavalieri mi puzzano di avventurieri disposti a tagliare qualsiasi gola per poche monete. State attento e teneteli sotto sorveglianza –.
- Mio fedele amico, ti ringrazio per la tua premura, ma so anch'io riconoscere dallo sguardo un cavaliere degno di questo nome. Questi signori sono sicuramente dei banditi, ma fin tanto che ubbidiranno agli ordini che io gli impartirò, saranno con noi, ma al primo sintomo d'insofferenza o al minimo gesto d'insubordinazione, li farò pentire di essere venuti al mondo -.
Il conte Ugo di Vermandois preferì, come già accennato, attraversare l'Italia e giunse in Puglia, precisamente a Bari, all'inizio del mese di ottobre. Alla sua schiera si aggregò il fratello di Tancredi, Guglielmo, che era impaziente di partire e non volle aspettare lo zio Boemondo, come fece suo fratello. Questa spedizione fu oltremodo sfortunata perché, nell'attraversamento del braccio di mare del basso Adriatico, incappò in una tempesta, in anticipo sulla brutta stagione, che fece naufragare molti uomini tra i quali lo stesso Ugo che fu ritrovato sulla costa vicino a Durazzo, infangato, sperduto e inconsapevole di come si fosse salvato e di come fosse giunto su quei lidi. Lui e gli altri, gridarono al miracolo e attribuirono la loro salvezza alla volontà di Dio, sicuri che Egli volesse che ciascuno di loro proseguisse la missione che si era prefissa. Il conte di Vermandois non smetteva di dichiarare a chiunque incontrava la sua gioia e il suo personale ringraziamento al Signore.
– Sono un protetto del Signore! Egli vuole che io continui questa mia missione. Dopo questa disavventura niente potrà fermarmi poiché sono certo che Dio è con me e mi proteggerà in ogni avversità -.
Quando la spedizione si riorganizzò, dopo un periodo di necessario riposo, furono scortati a Costantinopoli dal generale bizantino Manuele Butumites. Il loro viaggio di trasferimento fu tranquillo senza altre difficoltà e percorsa la via Egnazia, giunsero a destinazione e superati i controlli imposti dall'imperatore, furono accolti con estrema cortesia e sovrabbondanza di doni. Alessio, per adeguarsi ai costumi occidentali, pretese da lui e dai suoi comandanti, il giuramento di vassallaggio che imponeva loro svariati obblighi. Dopo tale cerimonia, furono traghettati dalla flotta bizantina sulla costa asiatica e si accamparono sulla sponda orientale dello stretto dei Dardanelli, terra che era ormai dei Turchi, nel mese di novembre del 1096.
Il ramo franco-tedesco che componeva l'armata diretta in Oriente, si concentrò a Magonza raccogliendo le truppe provenienti da Boulogne, Colonia, Ultrecht e Buglione e sul cammino si aggregarono anche truppe provenienti da Strasburgo. Questi uomini erano sotto il comando di Goffredo di Buglione, uomo pio e timorato di Dio che era stato preso da rimorso religioso quando, al seguito dell'esercito di Enrico IV, aveva partecipato all'assedio di Roma, nel 1080. Per espiare questo peccato, si era recato in pellegrinaggio in Terrasanta e perciò conosceva di persona i problemi, i luoghi e la situazione del vicino Oriente. Per questa sua esperienza era uno dei pochi uomini, dell'intera spedizione, che avesse un'idea ben precisa di quello che avrebbero affrontato. Fu certamente, uno dei primi a rispondere all'invito del Papa e, vendute molte delle sue proprietà ai vescovi di Liegi e di Verdun, raccolse abbastanza denaro da poter armare il più grosso contingente che arrivò a Costantinopoli. Convinse a partire con lui i suoi fratelli Eustachio e Baldovino di Boulogne, e i cugini, Baldovino di Le Bourg, Baldovino II conte di Hainault, Rainaldo conte di Toul e vari altri cavalieri con il loro seguito. Essi, come altri, s'incamminarono sulla strada di Carlo Magno che Urbano II aveva ribattezzato, come abbiamo visto, - Via per Gerusalemme - .
A causa del passaggio dei precedenti Pellegrini e dell'esperienza negativa che aveva avuto, Re Coloman, quando Goffredo arrivò in Ungheria, non gli accordò il permesso di attraversare le sue terre. Goffredo fu enormemente contrariato e dimostrò il suo disappunto in maniera molto vivace ai rappresentanti del re ai quali disse.
– Sono personalmente offeso dal comportamento del vostro re e chiedo soddisfazione. Noi siamo direttamente inviati dal Papa e abbiamo una missione da compiere che coinvolge tutta la Cristianità. Il comportamento del vostro re è, decisamente, anti cristiano e contro i voleri del Sommo Pontefice. Chi pretende di chiamarsi Cristiano, non può ostacolare i fratelli che si recano a combattere coloro che avversano Cristo. Le nostre dispute interne favoriscono i nemici dell'intera Cristianità –.
- Perdonate, signore, il nostro agire, ma esso è dettato da ben tristi esperienze che sono capitate di recente nei nostri territori e hanno colpito profondamente i sentimenti di sua maestà. Il mio signore riconosce di aver a che fare con dei gentiluomini questa volta, ma non di meno, ha l'obbligo di proteggere i propri sudditi. Le tristi e nefaste esperienze dei mesi scorsi hanno fatto perdere la fiducia al mio signore in buona parte dei suoi fratelli nella fede, perciò, se a voi non disturba, vi chiede di dimostrare le vostre buone intenzioni lasciando degli ospiti tra noi, che garantiscano l'onestà dei vostri intenti. Essi saranno rilasciati non appena avrete attraversato il nostro Paese e sarete fuori dei nostri confini. Ritengo, personalmente, ben misera cosa questo provvedimento se le vostre intenzioni, come dichiarate, siano animate dal desiderio di servire Il Signore nostro Gesù Cristo –.
- La mancanza di fiducia del vostro re mi rattrista, ma poiché non abbiamo secondi fini e il nostro intento è solo quello di mettere in pratica la chiamata del Papa, non ho alcuna remora a lasciare qualche ostaggio come ci chiedete e tra questi, io lascerò il mio stesso fratello per dimostrare quanto sono sincere le nostre intenzioni. Spero che saranno trattati col rispetto dovuto al loro rango, in caso contrario, sentirò il dovere di chiedere soddisfazione personalmente al vostro signore –.
- Non abbiate dubbi mio signore, essi saranno graditi ospiti di sua maestà e quando saranno rilasciati, saranno debitamente ringraziati per la loro collaborazione –.
Così il fratello di Goffredo, Baldovino, con alcuni altri cavalieri, si consegnò nelle mani degli emissari di re Coloman e con loro, restò fino a che l'ultimo uomo dell'armata di Buglione oltrepassò i confini di tale regno senza arrecare danno ad alcuno dei sudditi. Re Coloman in persona, prima di congedarli, li ringraziò con ricchi doni indi, li fece accompagnare ai confini da suoi rappresentanti, dove si ricongiunsero ai loro amici. Quando questo contingente arrivò a destinazione, la vigilia di Natale del 1096, contava circa milleduecento cavalieri e circa ottomila fanti.
Alessio I Comneno prima di permettere loro il passaggio del Braccio di mare detto di San Giorgio, pretese da lui e da tutti i membri al suo seguito, il giuramento di vassallaggio che Goffredo fu restio a concedere perché, dentro di se, pensava che tale atto contrastasse con l'obbedienza che aveva giurato al suo imperatore Enrico IV. Alla fine, mal volentieri, lo concesse per passare dall'altra sponda dello stretto. L'atto che Alessio pretendeva, prevedeva la restituzione, alla corona, di tutti i territori che sarebbero stati sottratti ai Turchi durante le operazioni belliche. Tale atto di sottomissione era in auge nel mondo Occidentale, ma non era praticato in Oriente e Alessio, conoscendo il significato intrinseco di quest'usanza, cercò in tal modo di legare i suoi soccorritori anche con vincoli d'onore alla sua causa.
Nei discorsi con i suoi fratelli e i suoi più intimi collaboratori, Goffredo ebbe a lamentarsi più volte di questo giuramento che gli era stato estorto, quasi con ricatto, da chi invece avrebbe dovuto ringraziarli per essere lì a combattere per lui e per la Cristianità.
- Il mio giuramento di vassallaggio rimane sempre verso il mio imperatore e non riconosco nessun altro re sopra di me. Quello che ha fatto Alessio è un abuso bello e buono, approfittando della situazione in cui ci troviamo per volontà del Santo Padre. Il nostro compito è di combattere l'espansione Islamica nel mondo cristiano, non quello di discutere l'appartenenza dei territori che in futuro saranno riconquistati. Siamo qui, per volontà di Dio e per diretto volere del Papa e tali volontà sono rivolte, principalmente, per arginare l'espansione musulmana verso l'Occidente, poiché la loro minaccia sta diventando troppo pericolosa per la Cristianità –.
Sulla sponda opposta, piantarono le loro tende vicino all'accampamento di Ugo di Le Maisné conte di Vermandois, fratello del re di Francia, che era già arrivato da circa un mese e stava valutando la situazione con i suoi e non avendo nessuna direttiva, si barcamenavano in attesa di qualcuno che potesse illuminarli su cosa fare. Quando si trovarono l'armata di Buglione al loro fianco, il conte e ai suoi collaboratori, furono molto sollevati alla vista dei nuovi venuti, specialmente quando costatarono che, tra loro, c'erano persone che già conoscevano i nemici che dovevano affrontare e il territorio in cui dovevano operare. Infatti, come abbiamo detto, durante quel mese in cui era sul territorio, ancora non era riuscito ad ambientarsi o a pensare di iniziare un qualche tipo di azione, poiché erano privi di ogni direttiva e di ogni notizia riguardanti il nemico, il territorio e gli obiettivi da raggiungere. Lo stesso Alessio non aveva dato loro nessuna direttiva, forse pensando di aspettare nuovi arrivi prima di concordare tutti insieme le azioni da intraprendere.
La seconda spedizione a partire, fu quella dei Normanni dell'Italia del Sud che, come abbiamo già visto, era guidata da Boemondo I d'Altavilla principe di Taranto e portava con sé il nipote Tancredi d'Altavilla, i cugini Riccardo e Rainolfo di Salerno e il figlio di quest'ultimo Riccardo e anche Goffredo conte di Rossignol e i suoi fratelli e vari altri cavalieri. Dalla Sicilia si erano accodati alla sua schiera vari cavalieri tra i quali Honfroi di Monte Scabioso, Ermanno di Canne Roberto di Ansa, Albereto di Cagnano e il vescovo Gerardo di Ariano. In definitiva Boemondo portò con sé il fior fiore della cavalleria Normanna del Sud dell'Italia che poi, visti i risultati ottenuti da tale compagine, ha permesso ai posteri di considerarli il fulcro centrale di tutto ciò che scaturì da tale prima spedizione, la prima e l'ultima che ottenne i risultati più concreti e decisivi. Ancora oggi sono tramandate le loro gesta e i loro nomi, quando molti altri sono stati negletti, dimenticati o completamente ignorati.
Le ragioni più importanti che spinsero Boemondo a partecipare all'avventura in Medio Oriente, furono il contrasto e i dissapori col fratellastro Ruggero Borsa al quale il padre, Roberto il Guiscardo, aveva lasciato il ducato della Puglia. Nelle sue rivendicazioni armate, era riuscito a impossessarsi di Taranto e della Terra d'Otranto ma poi era stato fermato dallo zio, Ruggero, duca di Sicilia, che non vedeva di buon occhio che lui s'impadronisse di tutta la Puglia e diventasse così troppo potente tanto da poter diventare, nell'immediato futuro, un possibile avversario difficile da poter controllare. Per tali ragioni, troppo restrittive e coercitive per il suo temperamento, Boemondo aderì al Pellegrinaggio vedendo, in esso, la possibilità di realizzare le sue mire di crearsi un reame a misura del suo ego e a scapito di chiunque lo avesse avversato, sia se questi fossero i Musulmani e se si fosse presentata l'occasione, anche a scapito dei Bizantini, dei quali era un personale nemico di vecchia data.
S'imbarcarono a Bari ma, invece di sbarcare a Durazzo e prendere la via Egnazia, approdarono nei pressi di Valona, precisamente nel villaggio di Dropoli, col preciso intento di potersi sottrarre al controllo delle truppe mercenarie di Alessio. S'impelagarono così in strade malandate e ostacoli imprevisti difficili da superare e persero molto tempo per arrivare a destinazione, a Costantinopoli, dove giunsero il nove aprile 1097. Questa deviazione era stata preferita da Boemondo perché era ancora memore della sua inimicizia con Alessio, contro il quale aveva già combattuto insieme al padre, per strappare al suo controllo l'Italia meridionale e parte dei Balcani. Questi sentimenti, mai dimenticati, saranno sempre presenti nell'animo di Boemondo e saranno la causa della sua sconfitta fisica e, principalmente, del suo declino psichico, come vedremo in seguito.
Boemondo, alla partenza per il Pellegrinaggio, aveva meno di quarant'anni. Egli era un uomo imponente, alto, spalle larghe, braccia possenti e con bei lineamenti. Lo stesso era suo nipote Tancredi e, in più, questi aveva ventitré anni, nel pieno fulgore della giovinezza. Quando arrivarono a Costantinopoli, furono ricevuti da Alessio con l'armata di Raimondo di Tolosa arrivata subito dopo di loro. Ci fu un ricevimento ufficiale a corte alla presenza delle più belle dame di Costantinopoli, in onore dei comandanti venuti dall'Occidente per salvare la Cristianità orientale. In quel ricevimento Anna, figlia primogenita dell'imperatore, fu colpita molto favorevolmente dalla possanza e dalla bellezza di Boe*mondo, al contrario di altre dame di corte che furono incantate e affascinate dal nipote, che preferivano la sua irruenta giovinezza, alla piena maturità dello zio. Anna fu così insistente col padre, che questi fu costretto a presentarglielo, anche contro la sua volontà, perché era alimentata dagli antichi dissapori che ancora persistevano nella sua mente causati dagli eventi che erano successi tra loro circa vent'anni prima.
– Ti prego padre, presentami a quel bel Normanno che mi fa battere così forte il cuore –.
- Figlia, tu mi chiedi troppo, quell'uomo che per circostanze speciali ora sono costretto a ricevere alla mia corte, è stato mio nemico personale insieme a suo padre. Mi hanno aspramente combattuto e mi hanno costretto ad abbandonare i miei possedimenti dell'Italia Meridionale e insulare, che ora detengono e governano. E non voglio parlare dei fastidi che mi hanno procurato sulle coste albanesi a Durazzo. Non puoi chiedermi questo! Dimenticalo e ubbidisci ai voleri di tuo padre se, come asserisci, rispetti e gli vuoi bene –.
- Padre, il mio cuore batte forte nel mio petto appena il mio sguardo si posa sulla sua persona. Il mio animo anela conoscerlo e stargli vicino, se tieni alla mia felicità, ti farai un dovere di presentarmi quel cavaliere. Io ne sono già innamorata e se non mi accontenti, mi si spezzerà il cuore –.
- Anna, quell'uomo era mio nemico da prima che tu nascessi, come puoi dire di essere attratta da lui? Comportati come una principessa e anteponi le ragioni di stato ai tuoi desideri, non fare i capricci come una bambina del popolo –.
- Ti prego accontentami -, supplicava la fanciulla.
Alla fine, viste tutte le sue preghiere vanificate, s'impose dicendo.
- Sono una principessa, dopo tutto, e desidero conoscere quell'uomo! Vuoi forse che usi altri metodi per raggiungere il mio intento? –
Alessio messo così alle strette, onde evitare strappi al rigido protocollo di corte, cedette al capriccio della figlia e rivolgendosi ad un servitore alle sue spalle, fece convocare l''interessato e quando questi fu alla sua presenza così lo apostrofò.
- Principe Boemondo -.
- Ai vostri comandi maestà –.
Rispose senza indugio l'interessato, ma quanto gli pesava rispondere e dover fare quell'ossequio, a un nemico personale di oltre tre lustri. Avrebbe preferito di gran lunga passare inosservato in quel ricevimento che rispondere al richiamo del suo nemico, ma la cortesia e l'educazione erano un dovere prioritario e inderogabile per un cavaliere. I due si conoscevano molto bene, se non di persona, almeno come avversari in campo di battaglia.
- Avvicinatevi, vi prego, e permettetemi di presentarvi mia figlia, la principessa Anna –.
– È un onore e un privilegio per me conoscere una principessa di così rara bellezza –.
Il suo inchino e il suo complimento galante, furono molto apprezzati dalla giovane Anna che, lusingata dalle sue parole e piena d'amore e romanticismo, da quel momento, non valutò nessun altro cavaliere degno della sua considerazione e della sua stima e il suo cuore, fu immediatamente irretito e batté solo per il bel cavaliere Normanno.
- Sono veramente lieta di conoscere un cavaliere della vostra fama. Sono convinta che i nostri nemici dovranno impegnarsi molto per cercare di contrastarvi. D'ora in avanti potrò dormire in totale tranquillità, sapendo chi sta vegliando per la mia sicurezza –.
- Vostra altezza oltre ad essere molto bella, è anche molto gentile. Non mi esprimo sulla vostra intelligenza perché essa traspare da ogni vostra parola. Siate più che sicura che, se si trattasse di difendere la vostra persona, sarei disposto a sacrificare volentieri la mia vita. Siete come una rosa appena sbocciata che attira gli sguardi e l'ammirazione di chiunque l'avvicini ed io non posso assolutamente esimermi da considerarmi vostro devoto ammiratore e servitore -.
Anna Comneno, a quel tempo, aveva circa quindici anni e, romantica e sognatrice come tutte le ragazze della sua età, fu attratta dalla forza, dalla bellezza e dalla galanteria del cavaliere Normanno. La ragazza s'innamorò del maturo cavaliere e lo frequentò più di una volta trasgredendo ai desideri e agli ordini del padre. Nella sua opera, - Alessiade - , un trattato sulla vita e le azioni del padre, ne fece una così lusinghiera e appassionata descrizione, da non lasciare alcun dubbio sui suoi sentimenti nei confronti del bel Boemondo. Qui di seguito è riportato un estratto di ciò che lei scrisse nella sua opera del cavaliere in oggetto.
- ...non si era mai visto prima nel territorio dell'Impero, un uomo simile, né barbaro, né greco: la sua vista ispirava ammirazione. La sua fama lasciava attoniti... La sua statura superava di quasi un braccio quella degli uomini più alti: vita snella, fianchi sottili, largo di petto e di spalle, con braccia robuste... un'incarnazione del Canone di Policleteo... Aveva mani forti, era ben piantato sulle gambe, robusto di collo e solido di spalle... Da tutti i pori emanava come una sensazione di selvaggia durezza: la sua statura, il suo sguardo, persino la su la risata, davano il brivido ai presenti. Aveva un'intelligenza versatile, astuta, capace di trovare la via di uscita in ogni circostanza. Con tutte queste caratteristiche, era inferiore soltanto ad Alessio... . -
Per inciso, Policleteo era lo scultore che, nel V secolo A.C., aveva codificato, in un suo trattato detto Canone, le dimensioni ideali del corpo umano, decretandone le misure, secondo, ovviamente, la sua concezione estetica. Tali misure erano le seguenti: Della totale altezza del corpo, il capo doveva essere 1/8, il busto 3/8 e le gambe 4/8. Nel suo Canone, egli precisa che l'altezza, dalla sommità del capo fino al mento, riportata altre sette volte su un asse verticale, sanciva l'altezza, esteticamente migliore e più armoniosa, per il corpo preso in considerazione.
Di nessun altro cavaliere, da lei conosciuto, annotò una tale dovizia di particolari ed enumerò una tale profusione di elogi, anzi c'è da dire che, di alcuni, non ne fa accenno alcuno nel suo scritto. Questa testimonianza, scritta, è certamente una prova inconfutabile della sua infatuazione per il bel Normanno, che certamente, lusingava l'amor proprio del cavaliere in questione che, non dobbiamo dimenticare, superava, di gran lunga, il doppio della sua età.
Da un punto di vista psicologico, è quasi doveroso pensare che, la pulzella in oggetto, all'età in cui s'innamora del bel Normanno, non avesse superato del tutto la fase adolescenziale in cui si manifesta il cosiddetto complesso di Elettra, come Freud ha ampiamente illustrato. Anche se dimostra un'innata intelligenza e una profonda cultura, molto rara per le donne ai suoi tempi poiché, per la loro peculiare natura, erano escluse dai normali canali di apprendimento. Infatti, diverse considerazioni, dedotte dal suo comportamento, inducono a ritenerla succube di tale problema psicologico. Esse sono:
1) L'oggetto del suo amore è messo, da lei stessa, a confronto del padre e da questo paragone, il Normanno ne esce nettamente sconfitto, sia sul piano intellettivo, sia su quello estetico, anche se la principessa lo elogia con una profusione di parole.
2) L'età di colui di cui s'innamora è più del doppio della sua, tanto che questi potrebbe essere suo padre.
3) La madre non è quasi mai menzionata nei suoi scritti e quando lo fa, non è col dovuto rispetto che una figlia dovrebbe dimostrare alla propria genitrice.
4) La sua opera più importante, l'Alessiade, è un panegirico scritto solamente per glorificare suo padre.
5) Anche in tarda età, non dimostra quella maturità che avrebbe dovuto aiutarla a superare il complesso di cui era affetta
6) L'odio verso il fratello è sintomatico dell'avversione verso chi vuole privarla o, quanto meno, intromettersi per condividere con lei, l'oggetto della sua venerazione.
Ritorniamo all'argomento principale, dopo questo inciso esplicativo, un po' fuori dal nostro tema.
Quando Alessio richiese loro il giuramento di vassallaggio, buona parte dei Normanni cedette e anche Boemondo si sottomise a tale necessità e certamente non ultima, fu la voglia di compiacere i desideri della bella Anna. L'indomito Tancredi, però, non si sottopose assolutamente a tale richiesta di Alessio sia per il suo carattere indocile, sia per la sua natura libera e scevra da freni e coercizioni di ogni tipo. Solo in privato, alla presenza dello zio Boemondo, disse ciò che era il suo vero intendimento, cioè qual era la ragione ultima per la quale aveva intrapreso quell'avventura e non aveva fatto giuramento di vassallaggio. Ammissione superflua poiché Boemondo era animato dagli stessi desideri e forse, anche più forti, di quelli del nipote.
- Zio, mi sono fatto coinvolgere in questa impresa per la mia gloria e per il mio interesse personale. Intendo usufruire e godere di tutti i benefici che sarò capace di conquistarmi. Sono un cadetto e non ho nessuna speranza di crearmi un nome e un casato in patria. Questa è l'occasione buona che aspettavo e non intendo sprecarla per i diritti di un sovrano che non è il mio ed è, oltretutto, nemico del casato, cui mi fregio di appartenere –.
- Non ti biasimo per la posizione che hai preso, anzi l'ammiro e la condivido, anche se ho dovuto cedere, con mio sommo dispiacere, per ragioni contingenti, che esulano dalla mia volontà. Io rimango, dentro di me, con le mie opinioni che tu ben conosci poiché ho sempre dichiarato quali sono i miei veri sentimenti e cosa realmente penso dell'imperatore Alessio -.
La posizione di Tancredi era molto chiara e non lasciava ombra di dubbio sulle intenzioni del dichiarante e anche, se vogliamo, sul suo carattere e sulla sua onestà d'intenti ma altresì sul suo egoismo e sulla sua determinazione a perseguire i propri fini.
Questa posizione, come ben sappiamo, era comune alla quasi totalità dei cavalieri che partecipavano all'impresa, ma solo lui era così leale e sicuro di se, da esternarla apertamente con tutti, senza usare ipocriti sotterfugi.
L'armata della Francia del sud, agli ordini di Raimondo IV di San Gilles, conte di Tolosa e marchese di Provenza, dopo lunghi preparativi fu pronta alla partenza. Questi, come abbiamo già accennato, era stato il solo ad avere avuto contatti col Papa e ad ascoltare le sue personali istruzioni. Vista la sua influenza, pensava che sua Santità lo avrebbe posto a capo della spedizione, ma da quell'orecchio, Urbano faceva finta di non sentire per non creare malcontento tra gli altri condottieri e rompere così quel precario equilibrio che li manteneva uniti che, sarebbe certamente svanito, se si fossero sentiti secondi a qualcuno. Come abbiamo visto, designò solo il capo spirituale nella persona del vescovo Ademaro di Monteuil che era aggregato, al seguito del conte, insieme ai suoi fratelli. Questa designazione fu anche dovuta a una scelta politica perché, il contingente che partiva per l'Oriente, non era propriamente una spedizione militare, ma un pellegrinaggio armato inviato in aiuto ai fratelli del vicino Oriente e per tale motivo, il Papa decise per la soluzione del capo spirituale che, nello stesso tempo, avesse la funzione di rendere univoca e mantenesse unita, nel nome di Dio, l'intera spedizione, vista la molteplice varietà di lingue, usi e costumi dei suoi partecipanti.
Raimondo aveva superato da diverso tempo i cinquant'anni e quando aderì all'appello del Papa, fece voto, al momento di prendere la croce, di finire i suoi giorni in Terrasanta. Come abbiamo segnalato, era stato il solo ad aver avuto contatti diretti con sua Santità e aveva obbedito al suo desiderio di non portare gente non combattente, al seguito della sua armata. Egli, con tutti quelli che lo accompagnavano, giunse alle porte di Costantinopoli il 21 aprile del 1097 e come già detto, insieme ai Normanni dell'Italia meridionale, fu ricevuto, con tutti gli onori, alla corte imperiale.
Anche in Normandia, successe tutto quello che accadde nelle altre contrade, con lo stesso fermento e la medesima voglia di compiacere ai voleri del Papa. Il signore del posto, Roberto II, dopo una giovinezza spesa nei bagordi e poi in guerra perenne prima contro suo padre Guglielmo I Il Conquistatore e poi contro il fratello Guglielmo II per motivi di successione e d'interessi, che sarebbe lungo approfondire, cambiò il suo modo di vivere, in un certo qual modo, maturò. Questo cambiamento di comportamento, a quanto c'è dato di sapere, potrebbe essere stato causato sia all'appello del Papa e sia all'ascolto della martellante predicazione di chi propugnava la necessità di aiutare i fratelli del vicino Oriente. C'è da considerare che, un atteggiamento magnanimo e rispettoso dei voleri del Papa, avrebbe giovato, nel futuro, alla sua nomea non proprio impeccabile. Si può anche supporre che, stanco delle continue umiliazioni e sconfitte subite per opera del fratello, nel rivendicare il suo diritto a governare l'Inghilterra, abbia pensato di accaparrarsi un po' della benevolenza divina indossando la croce.
Con tutte queste congetture, non si ha la certezza di quale fu la causa sicura del cambiamento di Roberto, quello che è certo è che si convinse che il suo destino fosse di andare in Terra Santa.
Considerando il clima politico che serpeggiava in tutta l'Europa, questa chiamata del Papa era arrivata al momento giusto per alleggerire i vari regni di tante contese dinastiche che li sconvolgevano. Tanti figli cadetti poterono così trovare uno scopo alla loro vita, senza continuare a insanguinare tutta l'Europa in scontri fratricidi per le successioni. In una di queste situazioni, come abbiamo visto, si trovava Roberto e la soluzione fu accolta benevolmente anche dallo stesso fratello, Guglielmo II Re d'Inghilterra, che fu molto lesto a concedergli un prestito di diecimila marchi, necessario per l'equipaggiamento della sua nutrita schiera. Tale prestito, lo avrebbe liberato, nell'immediato, dalla presenza del fratello e con un po' di fortuna, vista la difficoltà e la pericolosità dell'impresa, anche in futuro, da tutti i problemi che questi gli causava. Quando s'incontrarono per definire gli accordi, fu molto cordiale e accondiscendente col fratello, dopo anni di contrasti e lotte tra di loro. Anche se ansioso che il fratello partisse, non tralasciò di mettere in primo piano i propri interessi personali. Infatti, le sue condizioni furono le seguenti.
- Sono disposto a sovvenzionarti per la somma che mi hai richiesto se essa sarà debitamente garantita e non vedo niente di più adatto se non il tuo ducato, quello che ti ha lasciato nostro padre, la Normandia. Ti concederò il diritto di riscattarlo, quando ritornerai, previa restituzione della somma che ti verserò. Nel frattempo io ne disporrò come meglio credo e ne riscuoterò le rendite che esso produce -.
Una generosità pelosa che, com'è dato d'intendere, mascherava un profondo egoismo. La prima considerazione è che la somma gli avrebbe procurato cospicui interessi attraverso le tasse che avrebbe riscosso e poi, come segretamente sperava, il mancato ritorno del fratello, da non sottovalutare, vista la pericolosità dell'impresa, gli avrebbe procurato l'annessione del ducato di Normandia senza colpo ferire e anche, come già accennato, la fine dei problemi che costui gli creava.
Roberto non oppose nessuna obiezione alle richieste del fratello e poiché era deciso a partire per tale impresa a qualsiasi costo, era interessato solo all'aiuto economico che il fratello gli elargiva e non ai problemi politici che ne scaturivano. Egli si dimostrò molto fiducioso nella protezione che il Signore gli avrebbe accordato durante tutta la durata dell'impresa poiché la risposta al fratello fu di questo tono.
- Sono d'accordo in tutto quello che mi proponi fratello, poiché sono sicuro che il Signore mi proteggerà giacché sacrifico tutto ciò che ho per impegnarmi in questa impresa a Lui gradita. Adesso beviamo per festeggiare la nostra riconciliazione e la mia prossima partenza –.
È inutile dire quanto fu felice Guglielmo di accondiscendere al brindisi proposto dal fratello non tanto per la riconciliazione quanto per la sua imminente partenza.
L'organizzazione aveva richiesto molto tempo e tutta l'attenzione di Roberto Cosciacorta, com'era soprannominato, lontano dalle sue orecchie, per la sua non certamente figura longilinea e indubbiamente, non corrispondente al Canone di Policleteo che abbiamo menzionato. Egli aveva chiamato alle armi, tutti i suoi vassalli e imposto a tutti di partecipare all'impresa o se impediti, passare l'impegno, al parente più prossimo. Aveva raccolto un contingente abbastanza numeroso e adesso, col denaro prestatogli dal fratello, poteva saldare i tutti i debiti che ne erano scaturiti. C'è da rilevare che del suo contingente faceva parte l'unico inglese che ufficialmente partecipò all'impresa tale Ralph Guader, conte di Norfolk.
La sua spedizione partì dalla Normandia a settembre del 1096 e attraversata tutta la Francia e l'intera Italia e lungo il cammino, raccolse milizie da Parigi, da Blois e altre località. A Pontarfier lo raggiunse il conte Roberto II di Fiandra e, insieme arrivarono in Puglia, passando prima per Roma. Nel mese di dicembre, giunsero le coste della Puglia, dove l'armata si divise in due, il conte Raimondo II con i suoi fiamminghi e Baldovino di Alost con i suoi brabantini, s'imbarcarono subito a Bari e attraversarono l'Adriatico mentre Roberto di Normandia con Stefano di Blois, suo cognato per matrimonio con sua sorella Adele, decisero di svernare in attesa di condizioni meteorologiche più favorevoli. Furono ospiti di un altro normanno, Ruggero Borsa, duca di Puglia nella cui casa fu trattato con ogni riguardo e in uno dei tanti ricevimenti indetti in loro onore, Roberto conobbe una ragazza, Sibilla di Conversano, figlia di Goffredo di Brindisi che suscitò il suo interesse se non per la sua bellezza, per la cospicua dote, che avrebbe portato al futuro marito, in caso di matrimonio. Egli espresse apertamente l'interesse che provava per tale progetto, ma non si arrivò a nessuna conclusione della trattativa, visto il giuramento fatto da Roberto di recarsi in Terrasanta. Il negoziato rimase in sospeso con l'impegno, da entrambe le parti, di riprendere la trattativa qualora l'interessato fosse ritornato dal vicino Oriente, dopo che questi avesse ottemperato agli impegni presi e avesse sciolto, nella chiesa del Santo Sepolcro, il voto fatto.
– Non nego di essere molto attratto dal pensiero di impalmare la giovane Sibilla che ha suscitato tutto il mio interesse, ma la causa che ho abbracciato e il voto che ho pronunciato, mi mettono in condizioni di non potermi esimere dall'andare avanti in questa mia impresa pena la scomunica perenne. Sarebbe spiacevole, per la nobildonna interessata, rimanere vedova così giovane se dovessimo chiudere adesso la trattativa ed io non dovessi fare ritorno. Se il Signore approva quest'unione, mi concederà certamente di ritornare incolume, da questa perigliosa impresa, in terra di Puglia ed io sarò molto felice di riprendere il discorso che adesso interrompiamo, se, nel frattempo, non avrete cambiato idea, mio signore –.
Il padre della promessa fu ben lieto di accondiscendere alla richiesta che riteneva più che giusta e assennata di Roberto e promise di riprendere le trattative, al suo ritorno, dal punto in cui esse sarebbero state interrotte.
- Se il Signore vi concederà la grazia di ritornare da questa spedizione, cui il vostro onore vi spinge a partecipare, potremo riprendere le trattative da dove le abbiamo interrotte, poiché io sono oltremodo contento che mia figlia sposi un normanno di una casata così illustre e importante –.
Non dimentichiamo che Roberto era figlio di Guglielmo il Conquistatore, colui che aveva conquistato il regno d'Inghilterra.
Ai primi di aprile dell'A.D.1097 s'imbarcarono da Brindisi, attraversarono l'Adriatico e approdarono a Durazzo poi, percorrendo la via Egnazia sotto lo sguardo vigile dei mercenari Peceneghi di Alessio, si presentarono alle porte di Costantinopoli alla fine di maggio del1097.
Alessio, imperatore di Costantinopoli, lo ricevette in pompa magna sia per il suo rango, sia per l'imponenza delle sue forze e chiese anche a lui il giuramento di vassallaggio e la promessa di restituire tutte le terre sottratte ai musulmani, durante le operazioni belliche, alla corona imperiale. Roberto giurò facilmente senza tirare in ballo alcun ostacolo poiché i suoi interessi erano indirizzati verso altri obiettivi e ottenne il passaggio dalla flotta bizantina, per essere traghettato sulla sponda asiatica dello stretto e poté cosi raggiungere gli altri Pellegrini che avevano già iniziato le operazioni belliche.
Il loro primo obiettivo delle forze cristiane, era stato quello di mettere sotto assedio la citta di Nicea, capitale dell'emirato di Qilij Arslan perciò Roberto, con i suoi, li raggiunse sotto quelle mura. Tale città fu la prima a essere presa di mira perché aveva causato la disfatta e l'annientamento, l'anno precedente, di quelle truppe raccogliticce e male assortite che li avevano preceduti.
Vediamo adesso gli eventi accaduti, in realtà nell'anno che era trascorso.

CAPITOLO III
Nell'A. D. 1096, alla fine di agosto, Pietro l'Eremita e i suoi accoliti, superato lo stretto, furono fatti convergere in una vecchia piazzaforte bizantina, il cui nome era Civitot, da dove i due tronconi del contingente originario, ora comandati uno da Pietro e l'altro da Rainaldo, si misero a razziare i dintorni, fino a spingersi sino ai sobborghi di Nicea. In una di queste scorrerie, gli accoliti di Pietro, fecero un ingente bottino nei paraggi di tale città e respinsero, finanche, una sortita dell'esercito turco che era uscito, dalle porte di detto importane centro, per contrastarli. Quando tornarono a Civitot, la loro immensa soddisfazione, la loro baldanza e la spavalderia che dimostrarono, suscitarono l'invidia e la gelosia e il risentimento dei Tedeschi e degli Italiani che si ritenevano, in cuor loro, migliori dei Franchi, in tutti i sensi.
– Rainaldo, se rimaniamo chiusi in questo buco, non riusciremo a procurarci nessun bottino. Infine che cosa siamo venuti a fare qui in Oriente? Quegli incapaci dei Francesi sono riusciti ad arricchirsi con una sola uscita. Siamo così inferiori a questi bastardi franchi da essere simili a delle donnicciole che rimangono nascoste in questo buco puzzolente perché hanno paura di uscire? Io sono venuto qua, in capo al mondo, per tornare ricco in patria. Io voglio oro, non gloria –.
Così lo apostrofò uno dei suoi capitani e quelle parole fecero montare ancora di più il livore, l'invidia e la rabbia di Rainaldo che ne era, già da se stesso, abbastanza saturo. Perciò prese la decisione che tutti auspicavano e carico di rancore verso gli odiati Francesi, si rivolse ai suoi comandanti.
- Quei pezzenti hanno avuto fortuna, noi siamo dieci volte migliori di loro e lo dimostreremo immediatamente. Informate gli uomini che domani usciremo alle prime luci dell'alba e guai a chi ci capiterà tra le mani, non avremo pietà per nessuno. Voglio dimostrare a questi miserandi quanto siamo superiori –.
Questa fu la risoluzione che prese Rainaldo, dettata dalla gelosia e dall'invidia verso i loro, diciamo, camerati Francesi. Una decisione presa d'istinto senza i necessari preparativi logistici e tattici, che dovrebbero accompagnare ogni decisione di un comandante, che si rispetti, di un contingente militare. L'invidia ottenebrava in tale modo le loro menti, tanto da far dimenticare loro chi era il vero nemico da combattere e il motivo principale per il quale si erano mossi da così tanto lontano.
L'indomani, la fine di Settembre de 1096 esattamente il ventinove, Rainaldo, con i suoi, uscì da Civitot con l'intenzione di dare battaglia contro chiunque fosse capitato loro a tiro. Durante il loro ramingo spostamento, capitarono nelle vicinanze del castello turco di Xerigordon e lo conquistarono, anche se è più corretto dire lo occuparono, poiché era quasi completamente sguarnito a eccezione di un numero imprecisato di vagabondi che lo avevano scelto come loro riparo ed erano scappati, senza opporre nessuna resistenza, appena intuirono le intenzioni delle truppe di Rainaldo. Dopo tale impresa, si sentirono euforici e orgogliosi come se avessero fatto una conquista eccezionale e pieni di baldanza, si sistemarono nel castello con l'Intenzione di farne la loro base operativa. Tale soluzione fu condivisa da tutti proprio perché dava loro la possibilità di potersi dividere finalmente dai Francesi, con i quali erano ormai ai ferri corti e ogni piccolo attrito, era causa di disordini e di ripicche e di scontri che, sicuramente, sarebbero sfociati in una guerra aperta tra le due unità, se fossero rimasti, ancora, a contatto di gomito.
– Questa fortezza è una buona base per le nostre operazioni, ha mura molto solide e spesse e facilmente difendibili, così non saremo più a contatto di quei pezzenti dei Francesi e potremo muoverci e agire a nostro piacimento senza essere condizionati dalla loro presenza. Sfido chiunque a fermarci adesso –.
Questo era il pensiero che Rainaldo espose con molta soddisfazione e spavalderia ai suoi amici, sicuro che la fortuna si fosse ricordata finalmente di loro.
Questi sedicenti strateghi militari, non avendo nessuna esperienza di logistica poiché, sia lui e sia i suoi accoliti, non si soffermarono a considerare le caratteristiche morfologiche del posto, e vi s'insediarono senza tenere presente che, i pozzi per l'approvvigionamento dell'acqua, erano a distanza considerevole e praticamente irraggiungibili, nel caso che la fortezza fosse sottoposta ad assedio dal nemico. Infatti, per i Turchi, quella postazione non aveva alcun valore strategico poiché, non ritenendola in alcun modo difendibile, l'avevano abbandonata ma, quando videro che quegli stolti dei cristiani vi si erano rifugiati e messi da soli in trappola, sfruttarono il vantaggio offerto e immediatamente li misero sotto assedio senza dare loro la possibilità di rendersi conto dell'errore madornale che avevano commesso né il tempo necessario per approvvigionarsi del minimo indispensabile per sopravvivere a un eventuale assedio.
- Questi insensati cristiani si sono messi in trappola da soli, sarebbe da stupidi non approfittarne e distruggerli completamente, oltre tutto, non ci costeranno neanche la vita di un uomo, basterà aspettare che la sete li snidi -.
Dopo otto giorni d'inaudite sofferenze e stenti, causati dalla mancanza di acqua e di cibo, il 7 Ottobre, Rainaldo, con circa seimila uomini, fu costretto alla resa. I Turchi, per agevolare la loro decisione di capitolare, avevano promesso salva la vita a tutti quelli che avrebbero apostatato. Rainaldo, questo grande campione della fede, subito rinunciò a Cristo, mentre molti di quei poveretti, che non vollero abiurare, furono decapitati, senza esitazione e con estrema crudeltà, sul posto. Coloro che avevano ripudiato la fede dei loro padri furono fatti schiavi e spediti in lande lontane e di nessuno di loro, si seppe più nulla.
Pensando alla fine che gli si prospettava davanti, Rainaldo si ribellò e urlò contro il comandante Turco.
- Siete dei traditori senza onore che non mantengono la parola dato, io ho abiurato, mi avete promesso salva la vita se lo avessi fatto -.
Il comandante turco ebbe la pazienza e la cortesia di rispondergli, anche se completamente disgustato dal comportamento di un uomo di tal genere.
- Infatti, abiuro, non ti sto facendo uccidere come puoi costatare, però non avevo promesso di lasciarti libero. Sarai venduto come schiavo e andrai a servire i tuoi nuovi padroni lontano, in qualche luogo sperduto dell'Anatolia, vigliacco! Spera soltanto di non capitare con un padrone che ama trastullarsi con i corpi bianchi come il tuo -.
Lo colpì, con disprezzo, sul volto con il rovescio della mano rivestita dal guanto rinforzato da borchie d'acciaio, facendogli sanguinare il labbro e il naso e si allontanò senza curarsi più di lui e a nulla valsero gli strepiti, le implorazioni, le lacrime e le grida di rabbia del prigioniero.
– Allontanate da me questo codardo, che rinuncia al suo Dio per salvarsi la vita, la sua vista mi disturba –.
Ordinò a uno dei suoi soldati, con estrema ripugnanza, il comandante Turco.
Furono necessari tre soldati per trascinarlo via, lontano dalla sua presenza, mentre continuava a gridare, a scalciare e a minacciare.
Spesso i nemici rispettano il coraggio, ma raramente la vigliaccheria e ancor meno, i Musulmani, l'apostasia.
La notizia della disfatta dei Tedeschi e degli Italiani, si propagò, come una grande onda, immediatamente e produsse un enorme scalpore tra i Bizantini mentre, nell'accampamento di Pietro, procurò fermento e sentimenti contrastanti. Molti, infatti, in cuor loro gongolavano per la misera fine fatta dai loro commilitoni, ma tutti, o quasi, dimostravano sdegno e commiserazione ed erano infervorati e carichi di rabbia per l'oltraggio subito, a causa loro, da tutti i Cristiani. I luogotenenti di Pietro indissero una riunione per pianificare le mosse future che potessero dare una risposta all'azione che ritenevano provocatoria da parte dei Turchi. Poiché Pietro era a Costantinopoli e non poteva coordinare i suoi luogotenenti, in quella circostanza essi dimostrarono un completo disaccordo e una totale incapacità su come gestire la situazione che si era creata dopo la sconfitta di Rainaldo e lo sterminio dei suoi uomini. Alcuni erano contrari a prendere iniziative senza il consenso del loro capo ed erano cauti e prudenti nell'esprimere la propria opinione.
- Dobbiamo aspettare che Pietro ritorni, prima di intraprendere qualsiasi azione, oltretutto è il nostro capo e gli dobbiamo obbedienza -, diceva Gualtiero Senza Averi -.
- Non possiamo stare qui senza fare nulla, ad aspettare le decisioni di un capo latitante, dopo questo grave affronto! I Turchi crederanno che abbiamo paura e diventeranno sempre più audaci e potrebbero anche arrivare ad assediarci qui nel nostro acquartieramento. Volete morire anche voi senza potervi difendere? Noi non sappiamo che fine abbia fatto Pietro, per quanto mi riguarda, potrebbe essere ritornato indietro. Non abbiamo sue notizie da ben otto settimane. Animo fratelli, muoviamoci compatti al più presto e facciamo vedere a questi infedeli che non abbiamo paura di loro. Usciamo da questo buco e affrontiamoli una volta per tutte e facciamogli capire con chi hanno a che fare. Dimostriamoci decisi e vedrete che scapperanno come conigli con la coda tra le gambe, appena ci vedranno –.
Questo era il parere di Goffredo di Burel, focoso cavaliere della piccola nobiltà francese, che parlava con tanto trasporto e altrettanta boria. Nella sua mal larvata megalomania, desiderava occupare quel vuoto di potere in cui, momentaneamente, si trovava la loro schiera.
– Non possiamo ignorare gli ordini di Pietro! Egli ci ha detto di aspettare il suo ritorno prima di intraprendere qualsiasi azione. Dimostriamo un po' di disciplina e ubbidiamo al nostro comandante! Non sappiamo quali sono i suoi piani nell'immediato futuro -.
Cercò di dire Folco di Orleans per cercare di calmare l'accaldata assemblea che era sul punto di esplodere.
- Noi non conosciamo l'entità dei nemici che si trovano là fuori, potrebbe anche essere che ci aspettino per tenderci un'imboscata. Siamo cauti e atteniamoci agli ordini del nostro capo, che certamente ritornerà presto. Sono sicuro che la notizia del disastro accaduto ai Tedeschi e agli Italiani sia arrivata anche a Costantinopoli e perciò, anche a Pietro –.
Questa era l'opinione di Gualtiero di Teck che dimostrava molta prudenza e tentava di portare l'assemblea alla ragione in quel clima di esagitata eccitazione.
- Sei un codardo vestito da cavaliere! Tu disonori la croce che indossi –.
Così lo apostrofò Goffredo di Burel, che mal sopportava che qualcuno potesse indurre alla ragione e rimettesse con i piedi per terra quella moltitudine di uomini che egli, con la sua veemente dialettica, era riuscito a trascinare dalla sua parte ed erano pronti a marciare contro il nemico.
Le offese da lui così gratuitamente scagliate, non potevano essere ignorate da un cavaliere che tenesse al suo onore e non gradisse che ci fossero dubbi sul suo coraggio. Pertanto la reazione di Gualtiero fu immediata e sguainata la spada, conquistò il centro dell'assemblea e si rivolse al suo detrattore con cipiglio di sfida.
- Non ti permetto di darmi del vigliacco, sguaina la spada e ti dimostrerò qui, senza indugio, chi,
tra di noi, è il codardo -.
Appena pronunciate tali parole, istantaneamente, intorno a lui, si formò uno spazio per consentite a chi aveva ricevuto la sfida, di dare soddisfazione all'offeso, ma costui si sottrasse alla tenzone, con grande diplomazia, pronunciando queste parole.
- Sarò felice di darti soddisfazione quando ritorneremo, salvo che tu non preferisca rimanere qui, al sicuro nel campo, ad aspettare il mio ritorno –.
Parole che riuscirono a procrastinare lo scontro e misero ancora di più in difficoltà Gualtiero che, sfidato ancora di più da quelle parole, rinfoderò la spada e non poté più esimersi dal seguire gli altri senza correre il rischio di essere bollato come vigliacco, anche se a malincuore, perché intuiva che quello cui si apprestavano a fare, era una mossa sbagliata, primo perché disubbidiva agli ordini del loro capo e secondo, era affrettata e senza alcuna pianificazione e preparazione e, sicuramente, secondo il suo intuito, non avrebbe portato a niente di buono.
- Sono convinto che la tua bramosia e la tua voglia di primeggiare, ci metteranno tutti nei guai. Sia come tu vuoi, ma quando e se ritorneremo, sarà con immenso piacere che ti aspetterò con la spada sguainata e dovrai implorare pietà per quello che hai osato dire -.
All'alba del 28 ottobre una massa di circa ventimila uomini, uscì da Civitot per punire, in cuor loro, i Turchi che avevano osato uccidere i loro, cosiddetti, amici. Anche loro non avevano nessuna cognizione né di tattica né di strategia e, nella loro inesperienza, non avevano predisposto né un'avanguardia né degli esploratori e, completamente privi di notizie sul terreno che dovevano percorrere, caddero, miseramente, in un'imboscata che i Turchi avevano minuziosamente predisposto. Li intrappolarono in una stretta gola e li sottoposero a un fitto tiro incrociato degli arcieri che incominciarono a decimarli metodicamente. Quando si resero conto della situazione critica in cui si erano cacciati, non avendo nessuna disciplina militare, né esperienza dove attingere per contrastare una simile situazione, si diedero a una rovinosa e disordinata fuga nella speranza di raggiungere il loro alloggiamento e mettersi in salvo.
Un gruppo di circa tremila di questi sventurati, si rifugiò in un castello abbandonato sulla costa e resistettero ai ripetuti attacchi dei Turchi. Fortunatamente tra loro c'era un uomo di mare, un greco, che scovata una barchetta, a forza di remi raggiunse Costantinopoli e portò la notizia della disfatta.
Intanto, prima di mezzogiorno, il resto dei combattenti, che erano riusciti a raggiungere il loro presidio e tutti quelli che erano ivi rimasti, donne, bambini, vecchi ed ecclesiastici, furono massacrati senza nessuna pietà, salvo, come al solito, le donne che furono ritenuti all'altezza di essere rinchiusi in un harem e i giovani uomini idonei a essere venduti come schiavi. In quelle battaglie, che scaturivano dalla fuga precipitosa dei nemici, erano pochi quelli che riuscivano a scampare all'orgia e alla frenesia di sangue che ne derivava. Poche vite rispetto al totale e solo perché l'avidità aveva il sopravvento, in coloro che li risparmiavano, sulla bramosia di uccidere.
I Bizantini, a quella notizia catastrofica portata da quel solitario rematore, misericordiosamente cercarono di allestire una squadra navale che si mosse in breve tempo per raggiungere gli scampati. I Turchi non ritennero necessario ingaggiare battaglia con i soccorritori e ripiegarono dando la possibilità ai sopravvissuti, che si erano rifugiati in quel solitario castello, di imbarcarsi e raggiungere la salvezza. Una volta a Costantinopoli, l'imperatore li fece disarmare e li confinò, con Pietro, in un sobborgo della città. Tra i sopravvissuti, com'è ovvio, c'era naturalmente Goffredo di Burel che non poté soddisfare la sfida di Gualtiero di Teck, poiché questi era caduto sul campo in quella sconsiderata operazione. Stranamente, tra i sopravvissuti di quell'insensata impresa, non c'era nessuno di coloro che si era opposto alla sua insensata attuazione.
- Siete degli incapaci, - sentenziò Pietro, - vi avevo intimato di non intraprendere nessun tipo di azione prima del mio ritorno. Siete dei briganti da strada senza nessuna disciplina, né onore. Siete inaffidabili! Se voi aveste atteso la conclusione del mio intervento presso l'imperatore, a quest'ora saremmo tutti uniti e vivi e soprattutto, ancora in condizioni di nuocere ai nostri nemici. Adesso siamo ridotti allo stato di mendicanti e per giunta disarmati, confinati in questa parte della città e messi in condizioni di non poterci procacciare neanche il sostentamento necessario per la nostra sopravvivenza -.
Questi sopravvissuti in seguito, quando arrivarono i contingenti dei nobili, si aggregarono a essi dando luogo a quel fenomeno, tanto vituperato, come già detto prima, chiamato Tafur. Costoro furono come un flagello di Dio sia per gli Islamici sia per i Cristiani e nelle loro feroci razzie, non fecero alcuna discriminazione tra gli uni o gli altri. Questi sciacalli, non vedo altro modo di nominarli, si muovevano alla fine dei combattimenti e invadevano i campi di battaglia, razziando e spogliando i morti di ambedue i fronti. La brama, la cupidigia, l'odio, la vigliaccheria, erano i sentimenti che spingevano costoro e se incappavano in qualcuno che non era morto, non esitavano a dargli il colpo di grazia per strappargli quel poco che possedeva, anche se, con un po' di carità, quel poveretto sarebbe potuto, forse, sopravvivere.

CAPITOLO IV
Nell'A.D. 1097, iniziarono le vere operazioni militari del contingente Europeo partito, sotto gli auspici del Papa, per portare aiuto alla Cristianità del vicino Oriente.
Quando i combattenti cristiani incominciarono a muoversi dalla costa asiatica dello stretto di San Giorgio dove erano stati traghettati dalla flotta di Costantinopoli e ivi acquartierati, mancava la schiera comandata da Roberto II di Normandia che, come abbiamo visto, si era attardato a svernare in Puglia. I comandanti dei principali contingenti Boemondo di Taranto, Goffredo di Buglione, Raimondo di Tolosa, accompagnati dai comandanti minori e da un contingente bizantino agli ordini dei generali Manuele Boutoumites e Tacitus, si mossero per la prima operazione bellica concordata, cioè la liberazione di Nicea, conquistata dai Turchi Selgiuchidi nel 1077 ed eretta a loro capitale. Nicea è situata a est del lago Ascanio e quando i cristiani arrivarono, la cinsero d'assedio circondandola per tutto il suo perimetro salvo il lato del lago. Appena pronti i comandanti tennero il loro primo consiglio di guerra.
- Gli uomini soffrono la fame e bisogna pensare immediatamente a risolvere questo problema in caso contrario, corriamo il rischio di chiudere la partita prima ancora di iniziarla -.
- Sono d'accordo con te Boemondo -, disse Raimondo, - dividiamoci i compiti, tu occupati di raccogliere vettovagliamenti mentre io sistemerò gli uomini nei posti più consoni per l'inizio delle ostilità –.
Questa soluzione non garbava molto al focoso Boemondo poiché non desiderava essere secondo a nessuno, né ricevere ordini su cosa fare. Lo tolse d'impaccio il solito Tancredi che, conoscendo il carattere dello zio, parlò in questa maniera in quell'assemblea.
- Zio, affida a me questo compito, desidero fare un po' di movimento. Detesto le situazioni d'immobilità che limitano la mia libertà d'azione -.
Disse questo sia per togliere lo zio da una situazione difficile che lo avrebbe potuto metterlo in contrasto con Raimondo, ma principalmente per il suo interesse, perché era sempre voglioso di muoversi e di menare le mani e il periodo di stasi, per sistemare le truppe, non era certamente di suo gradimento. La sua esuberanza e la sua energia gli impedivano di restare inoperoso ma diedero allo zio la possibilità di rimanere sotto le mura di Nicea, per essere in prima fila e partecipare, con gli altri comandanti, alle decisioni importanti che sarebbero state prese e senza opporsi, palesemente, all'ordine di Raimondo.
Le truppe dei cristiani si disposero a Nord con Boemondo d'Altavilla e i suoi, a Sud Raimondo di Saint Gilles e a Est Goffredo di Buglione.
- Come certamente avrete notato, sul lato ovest, la città è protetta dal lago e a causa di questo problema, è impossibile completarne l'accerchiamento ed io sono convinto che, da quella parte, potranno passare i rifornimenti che renderanno vani tutti i nostri sforzi per espugnare la città –.
Di questo, Boemondo, fece partecipi tutti i capitani alla prima riunione che ebbero per studiare i piani di guerra.
- Molto bene, Boemondo, cercheremo di trovare una soluzione se e quando la difficoltà, di cui stai parlando, si presenterà. Intanto pensiamo ai problemi più immediati che dobbiamo affrontare e disponiamo le truppe per le nostre necessità –.
Soggiunse Raimondo per non essere da meno al suo rivale e per non lasciargli l'ultima parola. Queste animosità e contrasti, saranno sempre presenti nelle file dei Cristiani proprio perché non c'era al comando delle schiere un unico capo che fosse il responsabile delle operazioni. Ogni comandante non sopportava di essere secondo a nessuno e pertanto ogni decisione che veniva dagli altri, anche se giusta e necessaria, veniva contestata da qualcuno di loro che si sentiva, in qualche modo, sminuito per non averci pensato prima lui.
Il 14 maggio tutti i preparativi erano stati fatti e, ufficialmente, Nicea fu cinta d'assedio. La città non era al massimo delle sue capacità difensive perché il suo Sultano Qilij Arslan era lontano impegnato contro i Danishmendidi per il controllo della città di Militene. Quando questi fu informato che i Pellegrini assediavano la sua capitale, lasciò tutto ciò in cui era impegnato e si precipitò a tornare nel suo regno, per distruggere chi osava minacciare i suoi domini e la sua capitale.
I Turchi, due giorni dopo l'inizio dell'assedio, tentarono una sortita, con lo scopo principale di saggiare le forze e l'organizzazione degli avversari in campo, poiché non conoscevano ancora il nemico con cui stavano per scontrarsi. Il comandante delle difese della città, che era stato incaricato dal sultano, ordinò al comandante della cavalleria di valutare le forze nemiche con una sortita. A tale scopo disse ai suoi.
- Dobbiamo assolutamente stimare che tipo di nemico abbiamo di fronte a noi. È opportuno fare una sortita e vedere come si comportano se sono sottoposti a un assalto della nostra cavalleria. Dal loro comportamento, mi sembrano molto lenti e appesantiti dalle armature che indossano, perciò sono convinto che, un attacco a sorpresa e veloce dei nostri cavalieri, dovrebbe dare loro motivo di pensare se continuare nel loro insensato impresa. Domani all'alba fate uscire la cavalleria e stiamo a vedere come se la cavano questi stranieri -.
L'indomani, i difensori di Nicea, fecero la sortita programmata e dopo una cruenta schermaglia durata non più di due ore, i Turchi furono costretti a ritirarsi. Essi furono sorpresi dalla veemenza e dal valore degli attaccanti tanto che il loro comandante dagli spalti, per contenere la perdita di uomini, ordinò loro di ritirarsi. Prima di raggiungere la sicurezza dietro le mura della città, essi lasciarono sul terreno circa duecento combattenti che diedero loro la consapevolezza di come il nemico fosse agguerrito e determinato. I cavalieri cristiani, dopo tale scaramuccia, si sentirono baldanzosi come se avessero vinto la guerra perché sapevano di aver intimorito i loro nemici. Tra questi il più festante era Tancredi d'Altavilla che, al culmine della sua esultanza e spavalderia, lanciò il suo grido di sfida a tutti gli occupanti di Nicea.
- Venite fuori, infedeli e vi farò assaggiare il ferro cristiano. Non avete scampo, alla fine sarete sconfitti. Vi sfido tutti a singolar tenzone. Se uscirete delle mura, darò soddisfazione a tutti quelli che mi verranno contro e con le armi che preferiscono –.
Sollevando la spada e facendo impennare il suo destriero contro le mura di Nicea e tutti i suoi abitanti, così gridava questo spavaldo e indomito cavaliere. Buon per lui che era fuori dal tiro degli arcieri che presidiavano gli spalti delle mura della città. Qualche freccia però, fu scoccata da qualche irritato difensore ma si conficcò a poche decine di metri dal suo destriero e non lo dissuasero dal continuare a lanciare la sua sfida.
Il morale dei combattenti era molto alto e quando pochi giorni dopo, si sparse la notizia che il sultano Qilij Arslan era in marcia per affrontarli per liberare la sua città, l'accampamento fu pervaso da una grande frenesia. Immediatamente i giovani si armarono per andare incontro al nemico, incuranti delle più elementari norme di sicurezza, di buon senso e di strategia militare. Erano capeggiati dal solito Tancredi che non vedeva l'ora di menare sempre le mani e, spinto dalla sua esuberanza, non ritenne opportuno dare ascolto ai più anziani tra i suoi compagni che gli consigliarono di frenare la sua impazienza e aspettare che anche gli altri fossero pronti per muoversi tutti insieme. Suo zio Boemondo, che non era certo tipo che si tirasse indietro nelle tenzoni, lo consigliò vivamente di trattenere il suo spirito combattivo e di frenare la sua irruenza giovanile.
– Tancredi, aspetta che i nostri amici siano pronti e muoveremo incontro al nemico, tutti insieme. Non è prudente muoversi così alla cieca senza conoscere la reale consistenza dei nostri avversari e le loro intenzioni ma anche la conformazione del terreno in cui ci dobbiamo muovere e scontrarci col nemico -.
- Mentre voi vi preparate, io e i miei compagni avremo sbaragliato chiunque si porrà d'innanzi alle nostre lance –.
E partì senza ascoltare i consigli di chi aveva più esperienza e forse, più discernimento di lui.
Quando si mosse, lo seguirono un buon numero di scavezzacollo suoi pari pieni d'impazienza di affrontare il nemico e per loro fortuna, quando arrivarono a contatto con gli avversari, si scontrarono solo con gli esploratori dell'avanguardia dell'esercito selgiuchide e li sbaragliarono con facilità. Mentre già gioivano per quella che ritenevano una vittoria facilmente conseguita, il grosso dell'avanguardia dell'esercito nemico si profilò all'orizzonte e si videro persi vista la schiacciante superiorità numerica che esso aveva nei loro riguardi. Alle loro spalle però, si profilò la salvezza. Infatti, Boemondo, Baldovino e parte dei loro capitani, erano partiti, con gran sollecitudine, subito dopo di loro, immaginando che, con la loro avventatezza, si sarebbero messi sicuramente nei guai. Infatti, accortosi della precaria situazione in cui si trovavano suo nipote e gli altri scriteriati giovani, si precipitò in loro aiuto cercando di arginare la cavalleria nemica che cercava di accerchiarli nell'intento di sopraffarli.
- Avanti Baldovino -, gridò Boemondo al suo accompagnatore. - Aiutiamo questi incauti e impazienti giovani e insegniamo loro che la guerra non si fa solo col braccio, ma anche con la testa –.
Poi, prima di gettarsi nella mischia, si rivolse a un suo cavaliere e gli affidò questo messaggio.
– Tu, torna indietro e riferisci ai nostri amici che si affrettino a raggiungerci che, su questo campo di battaglia, oggi ci sarà gloria per tutti -.
La loro fortuna non si esaurì lì quel giorno, perché essa si mostrò ancora più benigna e generosa con questi temerari. Quando il grosso delle forze del sultano Qilij Arslan raggiunse il campo di battaglia, anche la maggior parte dell'esercito dei cristiani arrivò sul posto, spinto dall'urgenza che Boemondo aveva dato loro inviando la sua staffetta e ci fu la vera battaglia. Tutti i cavalieri Cristiani furono molto determinati e valorosi nelle loro azioni perché anche il grosso delle forze degli Occidentali appena arrivati, vedendo che i loro compagni stavano per essere soverchiati e circondati dalle forze preponderanti dei Turchi, si lanciarono con estrema risolutezza nella mischia e travolsero l'esercito nemico che fu sconfitto e sbaragliato. Il sultano fu completamente sorpreso dal valore e dal coraggio degli Occidentali e a malapena riuscì a rifugiarsi, con la sua guardia personale, dentro le mura di Nicea, per scampare alla cattura e forse alla morte che quei diavoli scatenati avrebbero potuto infliggergli. Buona parte del suo esercito si disperse disordinatamente nelle campagne limitrofe per scampare alla cattura o alla morte.
Battaglia decisamente anomala quella che fu sostenuta quel giorno, fatta da successivi assalti scaturiti dall'appressarsi dei vari gruppi di combattenti su un campo di battaglia che fu improvvisato e senza alcuna preparazione. Ognuno diede il meglio di se e la fortuna arrise ai più estrosi e i più eclettici dei due schieramenti.
Subito dopo gli Occidentali ritornarono sui propri passi e sulle posizioni che occupavano, intorno alle mura di Nicea, prima della battaglia in cui li aveva trascinati l'irruenza del solito Tancredi.
Il generale Boutoumites si era mantenuto in disparte dai combattimenti e aveva aspettato il suo imperatore che era arrivato sulle sponde del lago Ascanio portandosi appresso delle imbarcazioni che erano state trasportate per via terra. Prima di muoversi da Costantinopoli, Alessio, informato dai suoi che i Cristiani avevano attaccato Nicea, immaginò che essi non fossero attrezzati per sostenere un assedio alla città per via del lago che la lambiva da un lato. Per questo motivo aveva convocato i suoi ministri e aveva detto loro.
– Convocate i migliori carpentieri dei cantieri navali di Costantinopoli, che si mettano subito al lavoro per costruire dei carri che ci permettano di trasportare delle imbarcazioni fino alle coste del lago Ascanio –.
- Quali sono le vostre intenzioni maestà? –
- I nostri amici avranno delle difficoltà ad assediare Nicea. Per tutti gli sforzi che potranno fare, la città sarà sicuramente approvvigionata via lago e saranno vanificati tutti i loro sforzi per farla arrendere. Se porteremo delle barche, potremo così bloccare l'unica via di rifornimenti che può restare aperta e l'assedio sarà completo. In questo modo Nicea cadrà nel giro di pochi giorni, vista la poca disponibilità di tempo che hanno avuto i funzionari del sultano per fare scorte di viveri –.
- Ottima idea, maestà, degna dello stratega che voi siete. I vostri ordini saranno eseguiti, come voi desiderate, immediatamente –.
- Intendo muovermi entro dieci giorni e per tale data desidero almeno dieci trasporti per altrettante barche. Se i carpentieri riusciranno a farne qualcuno in più, saranno lautamente ricompensati –.
I maestri carpentieri riuscirono, infatti, ad approntare dodici mezzi di trasporto e così dodici barche furono trasportate, via terra, verso il lago Ascanio. Ogni trasporto era tirato da tre coppie di buoi e con fatica e grandi difficoltà, giunsero sulle rive del lago. Il varo non fu difficile poiché poterono sfruttare un pendio prominente che costeggiava la parte del lago che avevano raggiunto e così le barche, così faticosamente trasportate, furono poste in acqua, con relativa facilità.
Questa sua mossa strategica, dettata anche dalla conoscenza del territorio, mise in poco tempo in serie difficoltà gli occupanti della città perché nessun natante poté più uscire o entrare nel porticciolo di Nicea per approvvigionare gli assediati. Le barche di Alessio facevano buona guardia e su ognuna di esse, c'erano a bordo, oltre ai rematori, una ventina di armigeri armati con archi e lance. Qualche temerario che cercò di forzare il blocco, fu energicamente dissuaso dal continuare e i più insistenti, furono assaliti e affondati senza esitazione dai soldati Bizantini. La speranza degli assediati di poter resistere all'assedio e la cupidigia dei contrabbandieri di potersi arricchire facendo arrivare approvvigionamenti e risorse attraverso il lago, furono completamente debellate e l'iniziativa dei Bizantini, isolò completamente la città. In quella precaria situazione, il sultano Qilij Arslan, intuendo che non sarebbero riusciti a resistere per molto, aprì con alcune sue spie, dei canali di comunicazione con Alessio per cercare di trattare la resa con lui. Il sultano preferì avere contatti con l'imperatore, che già conosceva, e non con gli occidentali dei quali non comprendeva ancora il carattere, il comportamento e la mentalità ma, dei quali, aveva avuto un assaggio della loro determinazione, della loro pericolosità e del loro coraggio, nello scontro precedente che per poco non gli era costato la vita.
- In questa situazione insicura, non potremo resistere molto, anche perché in città non ci sono abbastanza scorte alimentari che ci possano sostenere in un assedio e presto saremo preda di quei diavoli scatenati che non conoscono la misericordia di Allah. Sarà prudente cercare un accordo con Alessio di nascosto dai suoi alleati. Mandate alcune spie che possano prendere contatto con l'imperatore e dite loro di trattare una resa abbastanza vantaggiosa per noi, anche se sarà onerosa. Ho bisogno di quanto più tempo è possibile ottenere, per mezzo di queste trattative, perché possa riorganizzare le mie forze e affrontare, in maniera più vantaggiosa per me, questi diavoli stranieri. Mi hanno sorpreso una volta, ma non succederà di nuovo. Non commetterò lo stesso errore una seconda volta –.
- Come voi comandate altezza -.
I suoi consiglieri privati si attivarono immediatamente per soddisfare le richieste del loro principe e padrone. Il sultano non era uno stupido e non voleva trovarsi impreparato in un futuro scontro con gli Occidentali e si prefiggeva di tenere nella dovuta considerazione questi nemici che dimostravano di meritare tutto il suo rispetto e la sua attenzione
Alessio, quando intraprese i contatti con i Turchi, per sviare i sospetti dei Franchi su ciò che si accingeva a fare a loro insaputa, disse a Tacitus di unirsi alle truppe assedianti e di partecipare con loro alle azioni belliche mentre, a Boutoumites, ordinò di simulare un attacco in un altro punto delle mura, per confondere e sviare gli occidentali su ciò che era in animo di fare. In quella situazione caotica, la città di Nicea capitolò e aprì le porte alle truppe dell'imperatore guidate da un altro generale Tatikios e i bizantini entrarono indisturbati in città. Qilij Arslan, avendo trattato con l'imperatore già tutti i particolari della resa, poté allontanarsi indisturbato e la sua famiglia fu scortata a Costantinopoli e accolta a corte con tutti gli onori del rango e in seguito, rilasciata, senza il versamento di una sola moneta per il loro riscatto al momento del rilascio, poiché tutti i particolari dell'operazione erano stati definiti in anticipo dalle due parti interessate.
Alessio nominò il generale Boutoumites duca di Nicea e questi, come suo primo provvedimento, emanò un editto che vietò alle truppe cristiane di entrare in città per perpetrare il consueto saccheggio. Per questo motivo, si attirò le ire e le antipatie di ogni membro della spedizione, dai comandanti sino all'ultimo degli armigeri. Il suo decreto così declamava.
- A nessun gruppo d'individui, superiore alle dieci unità, sarà consentito l'accesso nella città di Nicea. Tutti quelli che saranno ammessi entro le mura, dovranno avere un comportamento irreprensibile in rispetto delle cose e delle persone. Ogni violazione a quanto previsto in questo decreto, sarà punita, immediatamente, con la pena di morte senza che sia necessario istituire un processo. I cittadini di Nicea e la stessa città, sono parte dell'impero e per tale ragione, sacri agli occhi dell'imperatore Alessio I Comneno - .
I Pellegrini della Fede si sentirono defraudati della loro preda e anche traditi dal comportamento ambiguo e sleale, secondo loro, dell'imperatore bizantino anche se questi, per mitigare la delusione dei comandanti, face loro notevoli regali specialmente in denaro, cavalli ma anche altri raffinati oggetti di valore. Tutti quei doni non lenirono i commenti di tutti i cavalieri che erano molto pesanti e caustici nei confronti d'imperatore in particolare e di tutti i Bizantini in genere.
– È puro tradimento quello perpetrato da Alessio alle nostre spalle. In definitiva noi siamo venuti in Oriente per combattere per lui e per la Cristianità e lui cosa fa? Ci tradisce alleandosi col nemico e ci sottrae la preda. Che cosa siamo venuti a fare qui allora? In questo suo atteggiamento non vedo nessun onore né lealtà verso i suoi alleati –.
Così diceva Boemondo, appoggiato dai suoi e memore dai vecchi rancori della precedente campagna, di tre lustri prima che aveva combattuto col padre, contro l'imperatore, nei Balcani.
- Indubbiamente è un comportamento che lascia molto da discutere. Noi siamo qui per lui, ha chiesto aiuto all'Occidente perché non era in grado di difendersi contro i Musulmani, e lui che
cosa fa? Al momento opportuno si allea con loro, i nemici, e tradisce chi lo sta affiancando, aiutando e difendendo a costo d'ingenti spese, di enormi sacrifici e anche a rischio della propria vita –.
Queste parole furono pronunciate da Goffredo che tutti i comandanti, riuniti nella sua tenda per fare il punto dopo la battaglia, condividevano. Pensavano che chi non avesse combattuto per niente e non avesse messo a repentaglio la propria vita, si era ritrovato padrone della città e aveva sottratto la giusta ricompensa a chi aveva rischiato la propria. Dimenticavano, forse, che quelle stesse terre erano state sottratte, poco tempo prima, allo stesso imperatore, dai nemici Musulmani e al quale ne avevano promessa la restituzione col loro giramento di vassallaggio.
- Io dico che questo comportamento ambiguo dell'imperatore ci libera dal giuramento che ci ha strappato appena siamo arrivati in questa terra. Io mi sento disorientato e faccio fatica a credere che, un uomo, che si comporti in tale maniera, sia mio alleato –.
Disse Roberto di Normandia che era l'ultimo arrivato e si era accodato agli assedianti dopo che questi avevano già iniziato le operazioni di guerra contro la città di Nicea.
- Se lui trama alle nostre spalle, non siamo più tenuti a rispettare il giuramento che ci ha estorto. Un re si confida con i suoi vassalli, richiede il loro consiglio e il loro aiuto. Poiché ha preteso il nostro giuramento di vassallaggio, anch'egli è tenuto a rispettarlo come noi. Egli ha agito solo per il suo tornaconto personale, tradendo disonorevolmente i suoi alleati alla prima occasione. Si è accordato col nemico, alle nostre spalle, danneggiandoci in maniera clamorosa. Ci ha tradito ignominiosamente senza pensarci neanche un momento -.
I sentimenti e le parole di Raimondo furono più caustici perché era rimasto molto contrariato dall'irriverenza dimostrata, nei suoi riguardi, dal nuovo duca, messo da Alessio, a governare Nicea. Si sentiva offeso dal trattamento che aveva ricevuto da uno che fino a pochi giorni prima era un semplice generale e che oggi si ergeva a suo pari, che apparteneva a uno dei più nobili e antichi Casati della Francia e per di più, pretendeva da lui l'ossequio dovuto a un re.
– Il trattamento che ci sta riservando questo cosiddetto duca di Nicea, fino a ieri, un semplice generale, è oltremodo oltraggioso. Pretende anche lui il giuramento del suo imperatore per farci suoi vassalli. Io mi ribello a questo trattamento oltraggioso, ho giurato di rimanere in Terrasanta per il resto dei miei giorni ma mi rifiuto di vivere a contatto di gente così subdola e meschina che non conosce le regole basilari dell'onore e del vivere civile né il rispetto dovuto a chi, per nascita, gli è notevolmente superiore di rango –.
Queste opinioni, espresse da Raimondo e dagli altri cavalieri, erano il frutto della mentalità occidentale che nulla aveva a vedere con il tipo di ordinamento politico che vigeva nel vicino Oriente. Al contrario dei legami politico in cui erano abituati gli Europei, nelle terre in cui erano impegnati, il sovrano non condivideva con i suoi sottoposti le sue idee e strategie né richiedeva loro consigli su come condurre la guerra. I re occidentali erano coadiuvati dai loro vassalli nella scelta delle strategie e nelle politiche da adottare mentre in Oriente, questo tipo di collaborazione, era completamente sconosciuta. Il sovrano esercitava un potere più assolutistico non sottoposto alla critica o ai suggerimenti dei suoi collaboratori. La sua volontà era legge alla quale nessuno poteva opporsi e doveva essere eseguita immediatamente. I consigli dei suoi collaboratori dovevano essere indirizzati solo al miglioramento dell'esecuzione della volontà e degli ordini che il capo emanava.
Il vescovo Ademaro le Puy non aveva fatto ancora sentire la sua voce e, come delegato del Papa e capo spirituale della spedizione, era un'autorità in quel consesso e quando accennò a parlare, tutti si predisposero ad ascoltarlo in silenzio e con la dovuta attenzione.
- Figlioli, vi rammento le raccomandazioni del Papa, noi siamo qui per combattere gli infedeli e non per motivi personali. Per noi occidentali la politica contorta e subdola degli orientali è quanto mai oscura e incomprensibile, ma ricordatevi di Cristo e sopportate anche voi la vostra croce. Anche lui è stato tradito e non per questo si è ritirato o si è sottratto al suo dovere, anzi è stato più determinato nel suo proposito. Sforziamoci di capire questo modo di fare che a noi sembra tortuoso e principalmente, obbediamo ai dettami che il nostro Santo Padre ci ha impartito -.
- Io invece dico che adesso siamo liberi di muoverci secondo le nostre direttive e non per quelle di chi è capace di tradirci e di comportarsi secondo come spira il vento. Un alleato che fa lega col nemico, è mio nemico ed io lo combatto come tale –.
Questi era Tancredi che esprimeva le sue opinioni in maniera aggressiva perché non vedeva l'ora di sentirsi libero di proseguire il conflitto, secondo i propri desideri e le sue aspirazioni che non celava a nessuno.
- Calmati, mio giovane e impulsivo amico –. Disse a Tancredi il vescovo. – Noi siamo stati inviati dal Papa per difendere la Cristianità dagli attacchi dei Musulmani che diventavano ogni giorno più pericolosi e incominciavano a infastidire anche il mondo Occidentale. Nella nostra irruenza e nel nostro orgoglio tradito, non dobbiamo dimenticare i presupposti di questa spedizione che sono principalmente quelli di dare aiuto ai nostri fratelli d'Oriente e così facendo, di arginare l'espansione dell'Islam -.
Nessuno però prese molto sul serio le sue parole ma non se la sentivano di dissentire direttamente e apertamente con chi era il portavoce e il rappresentante di Sua Santità. Così, carichi di rancore e completamente sfiduciati verso i Bizantini, il 26 giugno, i Pellegrini, lasciarono Nicea e si diressero a sud-est della città appena liberata, verso il cuore dell'Anatolia. Per ragioni logistiche, l'esercito si divise in due parti e all'avanguardia si misero: Boemondo di Taranto, Tancredi d'Altavilla, Roberto II di Normandia, e il bizantino Tacitus. Dietro marciavano il grosso dell'esercito con Goffredo di Buglione, suo fratello Baldovino di Buglione, Baldovino di Le Bourges, Raimondo di Tolosa, Stefano di Blois, Ugo di Vermandois, il legato pontificio Ademaro di Le Puy e tutti gli altri medi e piccoli comandanti che erano accumunati in quell'impresa unica nel suo genere.
Durante la marcia il capo dell'avanguardia di Buglione si presentò al suo cospetto e gli disse.
- Signore, abbiamo notato tracce di esploratori nemici che osservano la nostra marcia, con molta circospezione. Siamo osservati e controllati, ma noi non abbiamo dato ai nemici l'impressione di esserci accorti delle loro manovre. Pur avendoli scorti, abbiamo fatto finta di niente e abbiamo proseguito nella nostra esplorazione -.
- Avete fatto bene, è una buona tattica dare al nemico l'impressione di non conoscere i suoi disegni. Avvertite le sentinelle di tenere bene aperti gli occhi e dite loro di non dare l'allarme se dovessero vedere movimento ma di riferire personalmente a me. Voi proseguite nelle vostre esplorazioni e mi raccomando lasciate intendere al nemico di non esservi accorti di nulla –.
- Così sarà fatto signore e continuerò a riferire direttamente a voi -.
Tutto questo durò per due giorni, al terzo, gli esploratori andarono di nuovo dal loro comandante e lo informarono che non c'erano più tracce di ricognitori nemici.
- Signore, non abbiamo visto nessuna traccia di avanguardia nemica oggi. I nostri angeli custode ci hanno abbandonato, penso che siano giunti a qualche conclusione -.
– Mandate immediatamente degli uomini ai comandanti e dite loro di venire da me a consiglio per decisioni urgenti da prendere –.
Ordinò subito Goffredo alla sua guardia personale e immediatamente costoro si mossero per eseguire il suo ordine.
Quando la maggior parte dei comandanti della spedizione fu al suo fianco, poiché Goffredo li aveva attesi davanti alla sua tenda, disse.
- Signori qualcosa non mi quadra, l'avanguardia nemica si è dileguata ed io penso che ci sia una qualche ragione importante. O sono stanchi di osservarci, ed io non sono di questo parere, oppure ci stanno preparando qualche sorpresa poco piacevole e questo è il mio pensiero. Perciò dite agli uomini di tenere gli occhi aperti e mandate esploratori in tutte le direzioni, non mi piace che mi facciano delle sorprese. In ogni caso, cerchiamo di affrettare quanto più è possibile, la nostra marcia, caso mai il loro obiettivo siano i nostri amici in avanguardia. Ci siamo attardati troppo e tra noi e la nostra avanguardia, c'è più di una giornata di marcia e questo è molto pericoloso. Se attaccano la nostra avanguardia, in queste condizioni, non saremo in grado di raggiungerli in tempo per dar loro manforte e questo potrebbe essere molto rischioso per loro. Perciò io consiglio di serrare i ranghi e procedere a marce forzate –.
La maggior parte di loro convenne che poteva essere una situazione alquanto pericolosa perciò accolsero il consiglio di Goffredo e si adattarono a tali disposizioni. Le ore di sosta furono ridotte e i fanti si mossero a tappe forzate per cercare di accorciare la distanza che li separava dall'avanguardia.
Infatti, gli esploratori Turchi, dopo aver osservato i movimenti dei loro nemici per più di due giorni e stimato che fossero a più di una giornata di marcia dalla loro avanguardia, si precipitarono dal loro sultano Qilij Arslan e quando lo raggiunsero, era la tarda mattinata, fecero il seguente rapporto.
– Il grosso dell'esercito occidentale, si muove con lentezza, è distaccato un'intera giornata di marcia e forse anche di più, dalla sua avanguardia. Abbiamo tutto il tempo necessario, se desideriamo attaccare, di distruggere quelli che li precedono, prima che loro si accorgano di qualcosa e possano muoversi per intervenire in loro aiuto -.
- Bene, sono felice di questa notizia. Le forze dei nostri nemici si sono divise e l'avanguardia non si aspetta il nostro attacco. Domani, prima dell'alba, attaccheremo ed io avrò la mia vendetta su questi maledetti invasori che mi hanno costretto ad abbandonare la mia capitale. Distrutta l'avanguardia, ci sarà più facile affrontare gli altri e annientarli. Avvertite i miei luogotenenti di informare le truppe della mia decisione. Domani, prima dell'alba, tutto dovrà essere pronto secondo i miei ordini -.
Così, all'alba del primo luglio, all'ora antelucana, le forze Turche di Qilij Arslan I, del suo alleato Hasan di Cappadocia, del principe turco Danishmende Ghanzi, dai persiani e da forze provenienti dell'Albania, sferrarono l'attacco al campo nemico di Boemondo, ancora addormentato. Finalmente avevano capito che l'unione fa la forza, e che forse, in quel modo, sarebbero riusciti a scacciare quei diavoli invasori stranieri, dall'Anatolia.
Nel buio ancora della notte, nel silenzio del campo addormentato, risuonò il grido accorato di una sentinella.
- Allarmi! Allarmi! Il nemico ci attacca! –
E poi silenzio. Una freccia turca aveva trapassato la gola, zittendola, di quella povera sentinella che aveva osato dare l'allarme.
Il suo grido fu ascoltato e ripetuto da altri uomini che pattugliavano l'interno del campo e una tromba lanciò il suo squillo per avvertire il campo del pericolo incombente. Nella tenda di Boemondo entrò un armigero senza chiedere permesso e tutto trafelato, cercò di precipitarsi verso la branda, dove credeva fosse il suo comandante. Questi, invece, aveva già abbandonato il giaciglio poiché aveva sentito lo squillo della tromba ed era in piedi e stava cercando di indossando l'armatura.
– Signore, il nemico è quasi all'interno del campo, cosa dobbiamo fare –.
Con calma si rivolse all'uomo e gli parlò senza visibile agitazione per dimostrare la sua piena
padronanza della situazione ed anche per infondere fiducia nel suo uomo, come un buon capo dovrebbe sempre fare
- Va bene calmati, dammi una mano con questi agganci e poi, senza indugio, devi correre in tutte le tende che ti è possibile e accertati che tutti abbiano sentito l'allarme, in caso contrario sveglia gli interessati. Va, immediatamente ed esegui i miei ordini –.
Il povero armigero, corse via dalla tenda del suo capo senza dare il saluto che doveva e corse a fare ciò che gli era stato ordinato. Boemondo, indossata l'armatura, senza la quale sarebbe stato alla mercé del nemico, senza nessuna utilità sia per se e sia per i suoi uomini, uscì dalla tenda. La situazione era caotica e quasi disperata. I cavalieri Turchi erano penetrati nel campo cristiano e seminavano morte e devastazione con i loro archi corti da sella. La maggior parte dei cavalieri cristiani si era armata prontamente e cercarono di ostacolare i Turchi che decimavano con facilità i fanti, senza armatura, e i civili del campo, tra i quali c'era un gran numero di donne, come se fossero a una gara di tiro. Qilij Arslan gridava e incitava i propri guerrieri da un'altura che sovrastava il fiume ed era molto soddisfatto di come stessero andando le operazioni che aveva pianificato personalmente.
– Ammazzate quegli infedeli che hanno osato attaccare la mia capitale. Uccideteli fino all'ultimo uomo così gli altri ci penseranno bene dal continuare questa guerra e saranno costretti a ritornare da dove sono venuti -.
Nella confusione generale che c'era nel campo, Boemondo con la sua voce tonante e imperiosa, chiamò a raccolta intorno a se i cavalieri che erano allo sbando.
– A me uomini, intorno a me, cerchiamo di opporci a questi maledetti. Abbandonate i cavalli che non ci servono in questa situazione e formate una cortina compatta per fare scudo ai civili e ai fanti -.
Gli uomini erano frastornati e stentavano a trovare la coordinazione necessaria per osteggiare al meglio il nemico. Il caos era indescrivibile ed era difficile distinguere i nemici dagli amici. La voce tonante di Boemondo si udiva a stento in quell'incredibile baraonda.
– Rimanete compatti, formate una barriera per proteggere i fanti e i civili contro quelle maledette frecce turche. Contro le nostre corazze non possono fare molto perciò rimanete uniti e cerchiamo di salvare questi poveretti. Tenete alzati gli scudi per l'amore di Dio –.
Continuava a urlare ai suoi cavalieri Boemondo, cercando di arginare e contrastare gli assalti degli arcieri Turchi. I Cristiani si erano arroccati intorno al loro capo e al centro dello schieramento, c'erano i fanti e i civili. La tattica dei Turchi era del tipo - mordi e fuggi - e non consentiva a quei pochi cavalieri cristiani, tra i quali Tancredi, che erano rimasti in sella ai loro cavalli, di impegnarsi efficacemente e di dare il meglio di se contro gli sfuggenti arcieri.
– Zio, è inutile rimanere in sella, questi vigliacchi non intendono ingaggiare battaglia. Siamo così, dei bersagli molto facili per le loro frecce e uccidono senza pietà anche le nostre cavalcature –.
- Smontate anche voi dunque e dateci man forte. Cercate di far allontanare i cavalli nella speranza che possano salvarsi da queste maledette frecce. Questi maledetti hanno capito l'importanza che hanno i cavalli nel nostro modo di guerreggiare -.
Smontò con i suoi compagni e si unirono a Boemondo, con gli scudi alzati, per contribuire, insieme con gli altri, a difendere i civili ma anch'essi furono costretti a indietreggiare insieme con gli altri. Lentamente ma inesorabilmente, spinta dal nemico, questa massa di gene retrocedeva verso il fiume Thymbris sulle cui sponde si erano accampati la sera prima. Molti di loro in quel fiume, dopo essersi accampati, si erano bagnati trovando refrigerio, nelle sue acque, alla calura di quelle terre al cui clima non erano abituati. In poco tempo, quelle stesse acque, diventeranno la loro tomba se la situazione non sarà capovolta da qualche soluzione strategica o per l'intervento miracoloso di che qualche santo che abbia misericordia di loro.
Come abbiamo già detto, le frecce nemiche non procuravano molto danno ai cavalieri pesantemente corazzati, ma causavano ingenti perdite tra i civili e i fanti. Le donne, che seguivano l'armata, si comportavano da vere eroine, facendo da portatrici d'acqua per i combattenti dai quali, sapevano, dipendeva la loro vita o la loro libertà e molte di esse furono uccise o ferite nell'adempimento di tale compito. Gli arcieri nemici si accanirono anche, come aveva detto Boemondo, contro i cavalli perché sapevano che erano la maggior forza di quei cavalieri e ne uccisero la maggior parte, nella speranza che appiedati, fosse dimezzata la loro pericolosità e la loro efficienza.
La situazione sembrava disperata e senza via di uscita, i combattenti Cristiani, indietreggiavano lentamente, verso il fiume, dove certamente sarebbero periti tutti per annegamento. Sulla sponda del fiume però i Cristiani trovarono un inaspettato alleato nel terreno soffice e acquitrinoso perché impediva ai cavalli dei nemici, di manovrare al meglio. Per tanto i Turchi evitavano, su quel terreno, di forzarli per non correre il rischio di spezzare loro le zampe e in tal modo, la pressione che esercitavano sui Cristiani si attenuò un poco. A un certo momento, dopo ore di combattimento e quando avevano quasi perso tutte le speranze, i Pellegrini videro apparire all'orizzonte l'avanguardia del grosso dell'esercito, formata dalla cavalleria Franco Tedesca comandata da Goffredo in persona che, come abbiamo visto, aveva intuito qualche malevola intenzione del nemico e si era mosso con celerità. I nuovi arrivati si buttarono nella mischia caricando alle spalle i Turchi per alleviare la pressione che esercitavano sui loro poveri amici e fermare così, quella ritirata disastrosa verso il fiume.
– Uomini, dimostrate il vostro valore! I nostri amici stanno per essere sopraffatti. Avanti per la gloria di Cristo. Uccideste questi infedeli -.
Boemondo, vedendo uno spiraglio di salvezza, nell'arrivo dei loro compagni, incitò ancora con più veemenza i suoi uomini e riuscì a riorganizzarli e incominciarono a muoversi, con rinnovato vigore, contro chi, poco prima, aveva tentato di farli annegare. Gli uomini erano coperti di fango ma lentamente incominciarono ad allontanarsi dalla riva del fiume.
- Coraggio gente, ecco i nostri amici che sono venuti a darci man forte contro questi miserabili. Non mollate proprio ora! Avanti! Cerchiamo di contrattaccare e di aiutare chi ci sta soccorrendo a costo della propria vita –.
Anche Tancredi, che non era molto portato a combattere appiedato, dava il meglio di se rispondendo prontamente ed energicamente agli incitamenti dello zio e lanciandosi contro i nemici. Anche lui sembrava un guerriero di terracotta per l'abbondanza di fango che lo copriva.
I combattimenti proseguirono per tutta la mattinata con fasi alterne finché non arrivò nel pomeriggio inoltrato, dopo lunghe ore di lotta estenuante, il grosso dell'esercito che, dopo l'allarme di Goffredo, si era mosso a tappe forzate dietro di lui. La situazione del campo di battaglia, che era presso Dorylaeum, inizialmente dominata dai Turchi, con lentezza e determinazione, si capovolse e, al grido degli occidentali: - Hodie omnes divites si Deo placet effecti eritis. - (A Dio piacendo, oggi diventerai ricco), i nuovi arrivati si scagliarono anche loro contro il nemico. Anche i Normanni, alla vista dei nuovi arrivati, si gettarono con rinnovato ardore contro il nemico che li aveva quasi sopraffatti, mentre Boemondo continuava a incitarli e a spronarli.
- Forza uomini, i nostri amici sono con noi e nessuno potrà sopraffarci. Avanti, per la gloria di Cristo, sbaragliate questi infedeli. Uomini, oggi non è il nostro giorno per morire -.
La battaglia però, durò per il resto del pomeriggio, mettendo a dura prova la resistenza di tutti, finché arrivò, verso sera, anche il vescovo Ademaro di Le Puy con le sue forze fresche. Questi, valutata la situazione, preferì attraversare il fiume e attaccò i Turchi alle spalle. Questa fu la causa decisiva della vittoria che costrinse le forze dei Turchi, ancora una volta, ad una fuga disastrosa e disordinata.
In effetti, i Normanni diventarono ricchi quel giorno, perché nel campo nemico, trovarono ciò che più interessava loro, il tesoro di Qilij Arslan, poiché il legittimo proprietario era fuggito, così in fretta, da non aver avuto né la possibilità né il tempo di portarlo con sé. Non soltanto fu trovato l'oro nell'accampamento turco, ma anche approvvigionamenti, armi e cavalli e questi ultimi, erano la vera risorsa necessaria ai cavalieri Cristiani per continuare la campagna, visto il totale annientamento

Vincenzo Corsa

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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