- La storia di Catullo e Lesbia -
"Amanti latini" è la storia dell'amore di Catullo per Lesbia ma è anche una introduzione alla vita quotidiana nell'antica Roma - i costumi sociali e le lotte politiche, le condizioni igieniche e le speculazioni edilizie -, in un accostamento alla vita dei nostri giorni che vuole mettere in evidenza le analogie costanti pur a distanza di tanti secoli. Troppo spesso l'avvicinamento dei giovani ai classici non avviene in forma viva e partecipativa. Una bella storia d'amore (e quella di Catullo è tra le più belle) può essere un buon mezzo per attrarre un pubblico adolescente.
Il professore di fisica stava spiegando il paradosso del gatto di Schroedinger, quel gatto che, stregato dagli inafferrabili misteri della meccanica quantica, non è né vivo né morto o, a seconda di come si guardi, è vivo e morto al tempo stesso. Il tema era affascinante, però Marco, con lo sguardo fisso sul suo quaderno di appunti, aveva la testa altrove. In un luogo non molto lontano, visto che l'oggetto dei suoi pensieri stava nella prima fila dell'anfiteatro, a pochi metri dal professore. Era Isabel, una bruna dai grandi occhi neri della quale Marco si era perdutamente innamorato non appena vista, o più esattamente non appena udita, perché, per sopramercato, era la più intelligente del corso. La ragione per la quale Marco non si azzardava ad alzare gli occhi dal rettangolo di carta bianca era che il giorno prima, in quella stessa aula, lei lo aveva sorpreso mentre la guardava con l'espressione di un agnello sgozzato. E si era messa a ridere. Alberto, il migliore amico di Marco dentro e fuori dell'università, affermava che Isabel non aveva riso, ma che gli aveva sorriso. "Non essere paranoico, ragazzo. Io ero più vicino a lei e l'ho visto chiaramente: ti ha sorriso". Così, per giunta c'erano testimoni: quanti altri - e quante altre - si erano resi conto della sua vergogna? Lei lo aveva sorpreso a guardarla e aveva riso di lui. Non era un esperto in fatto di ragazze, ma sapeva distinguire tra un sorriso e una risatina canzonatoria, per quanto Alberto cercasse di consolarlo. Alla fine della lezione, con la testa bassa e meditabondo, i suoi passi lo portarono meccanicamente nella sala dei computer. Nella confusione in cui era sprofondato, solo la incorruttibile precisione dell'informatica poteva dargli un poco di sollievo. E di fatto glielo diede rapidamente: vide con gioia che nella posta elettronica lo aspettava una lettera di suo padre.
Caro Marco,
sei sempre stato un bravo studente, hai appena incominciato la tua carriera universitaria - all'estero, addirittura, in Inghilterra - e io sono molto fiero di te. Il fatto che il dialogo tra noi sia sempre stato ricco e aperto mi rende felice: parlare con te è il mio maggior piacere, la pacata logica delle tue frasi è per me motivo di orgoglio. Eppure talvolta - devo confessartelo - avverto nella tua conversazione uno sorta di vuoto, non d'intelligenza ma di informazione, di istruzione. Veniamo da epoche diverse e da scuole diverse, perché le scuole hanno dovuto adattarsi ai mutamenti della società, ma temo che sia stato lasciato per strada anche qualcosa di importante, un bagaglio umanistico che evidentemente è stato ritenuto superfluo per questa epoca tecnologica e che invece era, io credo, il viatico per una comprensione e una vita più ricca. Con l'acqua del bagno, direbbe un inglese, è stato buttato via anche il bambino. Mi viene alla mente la frase inglese perché eravamo proprio a Londra, dove ti avevo accompagnato per i primi giorni dell'anno accademico, quando è risaltata, nel modo più evidente, una di queste tue lacune. Eravamo in una di quelle grandi librerie che sono tra le maggior attrattive della città, e all'improvviso, anzichè dai testi scientifici ai quali ti eri diretto, fosti attratto - forse perché mi stavi parlando di una tua compagna di corso, a quanto pare molto carina - da un mucchio di piccoli libri contenuti in una grande cesta sulla quale un cartello avvertiva: "Love poems", poesie d'amore. Via via ne prendesti alcuni a caso - Byron, Petrarca, Shelley -, li sfogliasti, e poi ti attrasse uno su cui campeggiava un nome inconfondibilmente latino: Catullus. - Mi ricorda qualcosa, mi dicesti, ma non so cosa. Forse me ne parlarono a scuola, anni fa, ma non riesco a mettere a fuoco altro. Chi era? Te lo confesso: soffrii un poco per te. Ricordai la mia adolescenza scaldata dalle bellissime parole d'amore scritte duemila anni prima, e provai pena per te che non ne avevi goduto. - Un grande poeta, ti risposi, un giovane e grande poeta che devi conoscere, se vuoi fare una buona impressione su quella tua compagna tanto attraente. So che non hai molto tempo: i corsi, le esercitazioni, gli esami. Ma non ti preoccupare: ci penserò io, quando torno in Italia. Così, felice di farlo per te ma anche per me, poiché questo mi faceva ritrovare cose in buona parte, ahimè, dimenticate, sono andato a ripescare qualche buon libro e, prendendo un po' dall'uno e un po' dall'altro, ho incominciato a cucire la storia di quel giovane poeta brillante e mondano, prima felice e poi disperato, che visse e amò venti secoli or sono ma continua a raccontare una delle più belle storie d'amore di tutti i tempi. Te la invierò a puntate, a mano a mano che progredisca nel lavoro, e per questa rivisitazione userò Internet. Infatti quando mi dicesti che potevi usufruire dei computer dell'universita, che di Internet fanno parte, e mi scribacchiasti su un foglietto il tuo indirizzo elettronico - con una certa aria di sufficienza, mi sembrò: tu quasi uno scienziato, io uno scribacchino -, decisi di collegarmi anch'io. Pensai che mi sarebbe stato utile per alcune ricerche e per leggere i giornali stranieri, ma anche per tenermi in contatto con te e per dimostrarti - te lo confesso - che ancora non sono un rudere. E soprattutto per farti vedere che amare le cose antiche non significa disprezzare le moderne, e che anzi esse possono e devono convivere e darsi valore a vicenda. Ora, poi, ci servirà anche ad accelerare i miei invii e i tuoi commenti. Sei pronto? Attento alla cassetta postale del tuo computer. Vale, Marce fili.
Un poeta alla conquista di Roma
Marco aveva studiato assai poco il latino, e in più non era mai stato il suo forte, però ricordaba che "vale" era la parola con cui Cicerone soleva terminare le lettere a sua moglie. Significava qualcosa come "stai bene", e Marce era il vocativo di Marcus Marci, della seconda declinazione. Stai bene, Marco, figlio mio. La lettera di suo padre gli diede animo, sebbene, naturalmente, non riuscisse ad allontanare Isabella dalla sua mente. Anzi, tutto il contrario. Forse la storia di quel Catullo, "prima felice e poi disperato", lo avrebbe aiutato un poco a capire che cosa gli stesse accadendo. Che innamorarsi fosse stato sempre così, fin dai tempi dei romani, un miscuglio di felicità e disperazione? Una mano che gli si posò sulla spalla lo strappò alla sua astrazione. Era Alberto. - Spero che non siano cattive notizie, gli disse l'amico con aria preoccupata. - Come? Ma no - si affrettò a dire Marco -, è una lettera di mio padre, molto divertente a dire la verità. - Beh, un momento fa non avevi precisamente un'aria divertita. - È che sono un po' stanco. Ieri notte quasi non ho dormito. - Per pensare alla ragazza sorridente? Con il pollice e l'indice Marco fece il gesto di sparare al suo amico, che si portò comicamente le mani al cuore. - Preferisco le pallottole alle frecce di Cupido. Alla smorfia di Alberto, Marco non poté fare a meno di ridere. Beh, finché poteva prenderla sullo scherzo, la cosa non poteva essere molto grave. Selezionò l'indirizzo elettronico di suo padre e batté qualche parola di ringraziamento. "Aspetto con ansia il primo capitolo", concluse. Non dovette aspettare molto. Il giorno dopo arrivò presto all'Università, passò nella sala dei calcolatori e trovò nel suo e-mail la prima puntata delle avventure del giovane poeta.
Catullo, dunque, ovvero Gaius Valerius Catullus, nato a Verona verso l'87 prima di Cristo. Veniva dalla classe equestre o dei cavalieri che dir si voglia, così chiamata perché ne facevano parte le famiglie non patrizie ma facoltose e che si potevano perciò pagare un cavallo con cui andare alla guerra. Da certi accenni delle sue poesie, rivolti ad alcuni amici o al fratello, si capisce che la famiglia aveva affari all'estero. In Italia, oltre alla casa di Verona, avevano una villa a Sirmione, su quello che oggi è il lago di Garda. Possedevano poi una casa a Roma e quanto meno un altro podere nei pressi della capitale, forse nella zona suburbana della Sabina o forse nella più elegante zona di Tivoli. Insomma, avevano un bel po' di grana, il che spiega il fatto che, anche politicamente, il padre di Catullo fosse immanicato abbastanza bene: Giulio Cesare soleva essere suo ospite nel corso dei viaggi verso la Gallia. Ma il giovane Caio Valerio non amava la vita di provincia: ricco, romantico e mondano, scese alla capitale. Non era proprio un provinciale sprovveduto e senza esperienza, e infatti diceva di sè: "Nel tempo che mi fu consegnata la candida veste (ovvero la toga virile, che i cittadini romani indossavano all'età di sedici anni entrando nella maggiore età), quando la florida età trascorreva la sua gioconda primavera, io poetai molto di amore: e di me non è ignara la dea che mescola coi dolci affanni l'amarezza". Ossia Venere, il che vuol dire che già da ragazzo aveva avuto qualche fidanzata.
Carlo Frabetti e Franco Mimmi
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