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Autore: Mirella Guagnano
Oltre il buio
Storie di vita
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Oltre il buio
Novantuno, novantadue, novantatré... Niente!
Meglio lasciar perdere anche la conta delle pecore. Fu una nottata interminabile quella, ore e ore trascorse a rigirarmi nel letto senza riuscirea prendere sonno, e contare le pecore era stato l'ultimo vano tentativo per addormentarmi.
A sentir parlare gli altri funzionava. - Basta contarle - dicevano, - le conti mentre ti saltano davanti e alla fine crolli - . Ovviamente i consigli non funzionarono, sono convinta però che neanche un sonnifero sarebbe riuscito a trasportarmi nel mondo di Morfeo quella notte. Ero troppo agitata, avevo solo voglia di piangere, ma neanche quello mi era possibile... non in quell'ultimo mese.
Avevo versato così tante lacrime che non me ne era rimasta neanche una in corpo. Ero prosciugata, avevo voglia di distruggere tutto ciò che mi circondava ma non potevo, non avevo energie, non avevo stimoli. Il mio cuore oramai era arido, logorato e inasprito dal dolore che lo stava divorando nella sua pienezza, ero stanca anche di respirare, sembrava che nell'aria intorno a me l'ossigeno fosse diventato più pesante.
Provavo sensazioni contrastanti e avevo paura.
Pensavo: - È questo che si prova quando dolore, amore, accettazione e morte si mischiano in un'unica sensazione? - .
Sospirai a fondo, cercando di alleggerire il turbinio incessante di pensieri nella mia mente, nulla sembrava volersi placare e con grande fatica mi alzai dal letto: era inutile restarsene stesi e ormai ero certa che il sonno non sarebbe mai giunto. Andai in cucina con l'intenzione di prepararmi un caffè e ripensai al giorno del mio compleanno. Era stato venti giorni prima, ero finalmente diventata maggiorenne: la patente, la libertà, tutte le cose che a un adulto sono concesse e a un ragazzino no, tutto ciò che poteva dar un assaggio del misterioso e accattivante mondo dei grandi.
Ma non per me! Non furono i diciott'anni a introdurmi nel mondo degli adulti, bensì il lutto avuto una settimana prima del mio compleanno. L'incubo di quel giorno mi costrinse ad abbandonare per sempre il mondo dorato dell'adolescenza scagliandomi contro una visione della vita terrificante, a cui non ero pronta; improvvisamente dolore e sofferenza divennerole uniche certezze della mia esistenza.
Provavo emozioni nuove, mai provate prima, non ero più una bambina.
Lascio un attimo la penna, mi devo calmare, chiudo gli occhi, devo fare un profondo respiro e starò meglio, devo stare meglio. Mi fa tanto male ricordare quel periodo della mia vita, devo farmi coraggio, devo esser forte, a costo di rivivere attimo per attimo quella sofferenza devo andare avanti con il mio racconto, non posso più tenere tutto dentro, sento che il mio cuore sta per esplodere, questo fardello è diventato troppo pesante, vorrei parlarne con qualcuno, ma proprio non ce la faccio. Mi sono lasciata convincere a scrivere tutto in questo diario, nella speranza che questo mio sfogo possa aiutarmi a trovare un po' di pace.
Tutto ebbe inizio in una calda sera di luglio di due anni fa. Ancora oggi rivivo quei ricordi ogni giorno, rivedo quelle immagini continuamente, tragicamente, come se la mia stessa memoria fosse la fonte di tutti i miei mali. Avessi un vaso di Pandora in cui rinchiuderli!
Cerco di scrivere qualcosa ma nella mia mente domina il caos, troppi ricordi che mi hanno lacerato il cuore stanno riaffiorando, una diatriba tra passato e presente. Cerco di reagire, di trattenerli per farli venire fuori uno a uno e limitare i danni, non sopporterei il loro completo flusso malefico. È una dura lotta, non ci riesco, è quasi impossibile contenerli. Sono stati chiusi al buio per troppo tempo e ora scalpitano, devono evadere, devono sfruttare il momento di debolezza della loro guardia carceraria. Eccoli, sono fuori. Fa male, troppo male, forse non è stata una buona idea intraprendere questo percorso, però una persona a me cara mi ha garantito che la scrittura può lenire le mie ferite, scrivere tutto ciò che mi ha fatta soffrire può esorcizzare i demoni del passato. Sono titubante, ho toccato il fondo più volte e nulla è mai riuscito a tirarmi su. Un ulteriore tentativo può essere così dannoso? Cosa mi costa provare? - Prova, prova, prova - mi sento ripetere sempre questa parola, sembra che tutti sappiano cosa sia salutare per me, che tutti sappiano dare buoni consigli e conforto al dolore che non provano sulla loro pelle. Ma io dico: cosa ne sanno loro di come mi sento io? Cosa ne sanno loro di quanta rabbia, dolore e frustrazione ho accumulato nel mio più profondo essere? Cosa ne sanno delle lacrime che continuano a sgorgarmi dagli occhi fino a farmeli bruciare? Ho già accartocciato parecchie pagine nel tentativo di scrivere, erano illeggibili, le lacrime avevano bagnato l'inchiostro facendolo diventare una macchia astratta. Non demorderò, voglio andare avanti e raccontare passo dopo passo tutto quello che mi stravolse fino al punto da farmi desiderare con tutta me stessa di morire.
Quel dannato giorno di fine luglio i miei genitori erano stati invitati a cena da una coppia di amici che abitavano in un paesino distante dal mio una quindicina di chilometri. Anch'io quella sera sarei dovuta andare con loro, sapendo però
che i loro amici non avevano figli della mia età prevedevo che mi sarei annoiata e chiesi dunque a un'amica, Alessia, di venire a dormire con me.
Accettò. Quella giornata era iniziata nel peggiore dei modi, in quanto mia madre si era svegliata con un terribile mal di testa, quasi premonitore.
- Se non te la senti posso chiamare Antonio e dirgli che abbiamo avuto un imprevisto - . Le disse mio padre.
- Ma no, non è niente! Ora prendo qualcosa e starò meglio. - Dalle profonde occhiaie e dall'espressione che aveva mia madre si capiva che neanche lei credeva a quel che diceva, che in realtà stava soffrendo moltissimo.
Conoscevo bene le sue emicranie a grappolo.
- Torna a letto, no? Magari se dormi ti passa - le consigliai.
- Be' quasi quasi... Va bene, faccio colazione, prendo un'aspirina e torno a letto. -
A mezzogiorno, mentre io e mio padre eravamo davanti ai fornelli tentando di preparare un pasto commestibile, lei con passo felpato ci sorprese alle spalle mentre noi goffamente cercavamo di recuperare un sughetto ai frutti di mare che stava prendendo fuoco.
- Inutile che aggiungete acqua, ormai è irrecuperabile - disse lei ridendo.
- Ma dai! Non esagerare, si è solo attaccato un po' alla pentola - . Rispose mio padre indaffarato a spegnere l'incendio.
Papà era stato sempre negato per la cucina, e io purtroppo non ero migliore di lui: a malapena riuscivo a fare un'omelette o un caffè. Ricordo che una volta, avrò avuto una quindicina di anni, i miei genitori erano usciti a fare la spesa, avevo fame, guardai nel frigo ma non c'era niente che potesse soddisfare il mio palato, avevo un gran voglia di un qualcosa di dolce. Rovistai nella dispensa ma nulla avrebbe potuto soddisfare il mio palato ricercato. Sarei potuta andare a comprare qualcosa al bar vicino casa ma guardai fuori dalla finestra, per vedere se il tempo fosse migliorato, e con rammarico mi accorsi che stava ancora piovendo. Neanche se mi avessero pagata sarei uscita con quel tempaccio, decisi quindi di lasciar perdere l'idea di avventurarmi fuori in compagnia di un ombrello che sarebbe servito a ben poco.
All'impellente desiderio di qualcosa di dolce si aggiunse anche l'inevitabile tedio delle giornate piovose, mi venne dunque la grandiosa idea di cucinare qualcosa. Presi il libro di ricette di mia madre e cominciai a sfogliarlo, la cosa più semplice da fare mi sembrò la crostata con la marmellata, guardai nella dispensa per controllare se ci fossero tutti gli ingredienti e dopodiché mi rimboccai le maniche, pesai farina, zucchero, burro e versai il tutto insieme alle uova e al lievito nel robot da cucina.
Una volta pronta la misi nel forno a 230 gradi.
Ben presto, per tutta la casa si sparse un piacevole profumo, avevo l'acquolina in bocca, non vedevo l'ora di assaggiare il mio primo capolavoro culinario. Dopo una mezz'oretta la tirai fuori dal forno e la misi sul marmo accanto ai fornelli a raffreddare. Ero orgogliosa di me stessa, l'aspetto era invitante e speravo che anche il sapore fosse gradevole.
Poco dopo tornarono i miei, - Che profumino! - disse deliziato mio padre mentre si inebriava i polmoni aspirando rumorosamente quel buon odore.
- Ho fatto una crostata - gli risposi io con aria fiera.
- Ma che dici? - chiese mia madre incredula.
- Non ci credi? - presi la tortiera e le misi davanti agli occhi il mio bel dolce.
- Caspita! Che bella! - esclamò felice mio padre.
La mamma mise l'acqua sul fornello per il tè.
Erano sempre pronti loro quando si trattava di mangiare.
- La gusteremo con una bella tazza di tè. Leonardo prendi un coltello per favore. -
Papà lo prese e si accinse a tagliarla... e per poco non si ruppe la lama per quanto era dura.
Usando tutta la sua forza alla fine riuscì nel suo intento.
- Beh, l'hai fatta tu: vuoi assaggiarla tu per prima? - mi disse la mamma perplessa porgendomene una fetta.
- Furba tu, hai paura che non sia commestibile e mi stai usando come cavia vero? - risposi ridendo io.
- L'aspetto mi piace, ma è strano che una pasta frolla sia tanto dura. -
Presi la fetta che mi stava porgendo e tentai di darle un morso: per poco non ci lasciai un dente e il sapore era disgustoso, era immangiabile, la sputai subito nella spazzatura.
- Che hai messo cemento o farina? - ridacchiò divertito papà.
- Non capisco, ho messo tutti gli ingredienti... - ero mortificata per il mio fallimento, mi ci ero dedicata con tanto amore.
- Vediamo un po' dove hai sbagliato, controlla gli ingredienti e le dosi che hai usato - disse la mamma passandomi il libro. Controllai e mi resi subito conto dove fosse l'errore - Prima c'era scritto 500 grammi di zucchero, adesso 200... -
- Oddio, hai messo mezzo chilo di zucchero? - tanto le risate ci vennero le lacrime agli occhi.
Quanto ero imbranata!
Ma tornando a quella mattina, mentre ero assorta in quei ricordi lontani la voce di mio padre mi riportò alla realtà.
- Ti senti meglio? - chiese alla mamma.
- Sì, grazie, abbastanza per cacciarvi via dalla cucina. Lasciate fare a me - disse annusando con aria schifata quello che sarebbe dovuto essere il nostro pranzo.
- Sparite e lasciate lavorare i professionisti - aggiunse, e ci spinse verso la porta.
- Agli ordini! - rispose papà scherzosamente facendole un saluto militaresco e schioccandole un tenero bacio sulla guancia.
Adoravo i miei genitori, ero così fiera di loro.
Sognavo di avere la fortuna un giorno di trovare un uomo che mi amasse quanto mio padre amava mia madre. In tutti quegli anni non gli avevo mai visti arrabbiati o tristi e non ricordo mai un litigio fra di loro. Erano nati per stare insieme, erano felici, sino a quel momento la vita era stata generosa con loro regalandogli tutto: amore, gioia, benessere...
Insomma, avevano tutto e quel tutto svanì in un maledetto giorno di luglio in cui come per magia, in una frazione di secondo, a un tratto la natura mutò: da benigna diventò maligna e si riprese indietro ciò che aveva donato loro. Non ebbe pietà, rivolle tutto e a parer mio pretese anche gli interessi. Quel pomeriggio passò in fretta: tra il sonnellino pomeridiano, la preparazione del dolce da portare a cena, la doccia, la scelta dell'abbigliamento fu subito sera. Una volta pronti mi salutarono facendomi le solite raccomandazioni che fanno tutti i genitori quando lasciano i figli da soli in casa: - chiudi bene la porta - , - non aprire a nessuno - e quant'altro.
Uscirono da casa e guardando verso la macchina notarono che una gomma era a terra. Prima il mal di testa, adesso la gomma... con il senno di poi, riflettendo avrebbero potuto capire che erano dei piccoli segnali: qualcuno lì in cielo li stava ostacolando, voleva a tutti i costi farli rimanere a casa quella sera.
Ma i miei genitori non erano superstiziosi e non badavano neanche ai segnali divini, non ci credevano. Per carità, erano delle bravissime persone, nella loro breve vita si erano sempre comportati onestamente, avevano fatto molti sacrifici, si erano amati alla follia e avevano vissuto rispettando sé stessi e gli altri. Ma la sorte maligna aveva deciso che per loro era giunta l'ora di lasciare questo mondo per andare in un altro a cui non credevano. Così presero la Panda di mamma e andarono incontro a quello che era il loro destino.
Mi sono chiesta spesso: - ma se fossero stati attenti a tutti quei segnali che li volevano ostacolare quella sera, sarebbe andata diversamente? - . Forse sì! Però se tutti vivessimo con l'ansia di scorgere dei segni, non ci sarebbe più vita degna di essere vissuta, perché ognuno sarebbe continuamente ossessionato da mille fobie, vedrebbe il pericolo ovunque e alla fine tutti rimarrebbero segregati nelle proprie case per timore di incorrere in qualche disgrazia. Nessuno di noi conosce il proprio destino, altrimenti farebbe salti mortali pur di poterlo cambiare in qualche modo. Purtroppo la vita a volte ci riserva buone e cattive sorprese, noi siamo solo spettatori a volte attivi altre volte passivi di un film il cui copione è già stato scritto.

Mirella Guagnano

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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